Foto di Jörg Schubert via Flickr

Ammettiamolo, l'uso degli smartphone ci è sfuggito di mano

Daniele Pirozzi

Offrono opportunità potenzialmente illimitate per interagire. Ma quando ci sono sorridiamo di meno, ci distraiamo e, se quando squillano non possiamo rispondere, andiamo nel panico. Ci salva la durata (breve) della batteria

Il tre luglio del 2015, qualche minuto prima dell’inizio di uno spettacolo di Broadway, uno spettatore è salito sul palco per collegare il suo smartphone a una presa di corrente. Lo staff ha interrotto la musica del pre-show, rimosso il dispositivo e spiegato con un annuncio che ciò era proibito. Sembra uno sketch comico, eppure il fatto è realmente accaduto. Solo una cosa era finta: la presa di corrente, che faceva parte dell’allestimento del set.

   

La simbiosi uomo-smartphone sembra non dare segni di cedimento. In una giornata possiamo controllarlo anche più di ottanta volte e, soprattutto i più giovani, arrivano a scrivere fino a tremila messaggi di testo in un mese. Gli affidiamo password, pin del bancomat, indirizzi mail, foto e video personali, eppure il 40-45 per cento di noi preferisce non usare alcuna schermata di blocco perché la considera un’inutile seccatura. Anzi, in caso di smarrimento siamo più preoccupati per il costo di comprarne uno nuovo che per la perdita dei dati sensibili.

  

Nel 2015 l’Università del Missouri ha condotto un esperimento per valutare gli effetti a livello psicofisico causati dalla separazione forzata dal proprio iphone. I partecipanti, 40 studenti universitari, dovevano completare dei puzzle di parole, mentre i ricercatori misuravano alcuni parametri fisiologici con un braccialetto wireless e sottoponevano dei questionari per valutare il loro stato emotivo tra un puzzle e l’altro. Durante l’esecuzione del primo gioco i soggetti erano liberi di tenere con sé il proprio cellulare, mentre allo svolgimento del secondo puzzle, con la scusa che stesse interferendo con le strumentazioni, il device veniva spostato nella stanza accanto e fatto squillare dopo pochi minuti. Il non poter rispondere al telefono generava nei soggetti una vera e propria ansia da separazione, con un crescente disagio interiore e un aumento significativo della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna (indice d’ansia). Il tutto si associava anche a una peggiore performance cognitiva.

  

  

E se stare lontano dai nostri smartphone può mandarci nel panico, l’averli sempre a portata di mano potrebbe finire per alienarci da tutto ciò che ci circonda. Una ricerca pubblicata sulla rivista Computers in Human Behavior ha infatti dimostrato come il poter disporre del proprio cellulare spinga due persone che non si conoscono a sorridere di meno e a interagire in misura minore. Dopo essere stati abbinati in coppie i partecipanti venivano lasciati ad attendere in una stanza per una decina di minuti mentre lo sperimentatore si allontanava fingendo un contrattempo. Alcune coppie potevano tenere con sé il loro telefono mentre altre dovevano depositarlo in un armadietto. Mediante due telecamere i ricercatori osservavano i loro volti, analizzando il numero, il tipo e la durata dei sorrisi, e in particolare distinguendo i sorrisi Duchenne (involontari e spontanei) dai sorrisi di circostanza, che esibiamo spesso nelle situazioni sociali con persone che non conosciamo o che conosciamo poco. I risultati mostrano che chi durante l’attesa aveva con sé il proprio cellulare riduceva del 30 per cento sia la frequenza dei sorrisi spontanei che la durata complessiva del tempo passato a interagire con l’altra persona, che scendeva da 149 secondi (della condizione no cellulare) a 103 secondi.

  

Perché ciò accade? Una possibile spiegazione è di carattere motivazionale: gli smartphone ridurrebbero la volontà di interagire con gli altri, il che, va detto, non è sempre un male. Ad esempio si è visto che nelle situazioni che ci mettono a disagio e in imbarazzo, rappresentano una via di fuga familiare e confortevole. Un’altra ipotesi più pessimistica e altrettanto possibile, però, è che si instauri un circolo vizioso, per il quale se vediamo qualcuno alle prese con il telefono possiamo presumere un suo scarso interesse a interagire con noi, il che può renderci meno amichevoli e aperti nei suoi confronti. Una reazione, la nostra, che viene a sua volta interpretata dall’interlocutore come un nostro disinteresse a dialogare, finendo per rafforzare e motivare, in entrambi, l’uso del telefono.

  

Del resto a tutti noi è capitato, almeno una volta nella vita, di ignorare o essere ignorati da qualcuno perché completamente assorbiti da notifiche e messaggi WhatsApp. Questo comportamento è detto phubbing – dalla fusione delle parole phone e snubbing (ignorare) – e per chi lo subisce rappresenta una minaccia di alcuni bisogni fondamentali come l’autostima e l’appartenenza. Tant’è che persino una cena tra amici o familiari risulta meno divertente e piacevole se fatta in presenza dei propri smartphone.

  

©EricPickersgill, 2019


   

Il prezzo che continuiamo a pagare per la nostra coperta di Linus digitale, quindi, è l’annullamento del qui e ora, frutto di una perenne connettività che ci conduce, come in un paradosso, alla cosiddetta presenza-assente: l’esserci non essendoci, o il non esserci pur essendo fisicamente presenti. Un fenomeno diffuso nelle nostre vite e ben espresso dal fotografo Eric Pickersgill che ha rimosso in post-produzione ogni device presente nelle mani dei protagonisti dei suoi scatti. Il risultato è una sequenza di immagini che immortalano l’alienazione e l’aspetto grottesco insiti nel nostro rapporto con gli smartphone.

   

E se assentarsi mentalmente quando qualcuno ci parla è poco elegante, ma comunque privo di pericoli, la stessa cosa non si può dire quando i device ci distraggono dall’ambiente fisico che ci circonda: ascoltare musica, scrivere messaggi o telefonare mentre camminiamo significa mettersi più a rischio. Un’analisi delle riprese video in diversi incroci di Melbourne ha scoperto che il 20 per cento dei pedoni interagiva con il cellulare al momento di attraversare la strada, e che ciò si associava a una maggiore probabilità di adottare una condotta pericolosa, ad esempio non controllare il sopraggiungere di veicoli.

  

  

L’unico elemento che ci consente – con grande dispiacere – un distacco temporaneo da questa simbiosi uomo-smartphone sembra essere la (breve) durata della batteria, la cui evoluzione tecnologica fatica a tenere il passo con i progressi fatti a livello di qualità grafica, grandezza dello schermo e velocità del processore. Tant’è che dopo aver appurato di avere il cellulare con noi prima di uscire di casa, il dubbio che ci accompagna per il resto della giornata è se la batteria durerà fino alla prossima ricarica. Il che richiede di sapere se e quando avremo l’occasione per collegarci a una presa di corrente (possibilmente non su un palcoscenico) e, nel frattempo, come gestire l’uso delle diverse app. In linea generale gli utenti hanno un’idea di quali applicazioni consumino più energia e riescono a regolare il loro utilizzo di conseguenza, tuttavia non tutti conoscono le giuste strategie per aumentare la durata dei loro device.

  

Insomma, sebbene gli smartphone offrano opportunità potenzialmente illimitate per interagire con la nostra rete sociale e accedere a informazioni di ogni tipo, ha forse ragione il professor Richard Emanuel dell’Alabama State University quando conclude che la vita “è quel che accade quando il tuo smartphone è in carica”.

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