Joseph Ducreux - Autoritratto mentre sbadiglia, Getty Museum, Los Angeles

Sbadigli virtuali

Daniele Pirozzi

Le azioni che compiamo nella realtà simulata corrispondono al nostro comportamento nella vita reale?

Il progresso tecnologico sta assottigliando sempre di più il divario tra vita reale e realtà virtuale (VR, virtual reality), con visori in grado di catapultarci in scenari paralleli che percepiamo come molto realistici. Che si tratti di camminare per le strade di una città, di simulare una rianimazione neonatale o di affrontare un incendio, più studi hanno dimostrato la nostra propensione a calarci nella VR con reazioni fisiologiche ed emotive sovrapponibili in gran parte a quelle che sperimentiamo nella vita di tutti giorni.

 

Questo solleva una domanda cruciale: le azioni che compiamo nella realtà simulata corrispondono al nostro comportamento nella vita reale? Secondo uno studio pubblicato su Scientific Reports e condotto dalla University of British Columbia (UBC) e dal State University of New York Polytechnic Institute, la risposta sembra essere no. O almeno non sempre.

    

I ricercatori sono giunti a questa conclusione studiando un comportamento molto diffuso: lo sbadiglio contagioso. Osservare qualcuno sbadigliare ci spinge a ripeterne il gesto, ma se siamo in mezzo ad altre persone o ci sentiamo osservati, tendiamo a reprimerlo poiché spesso è interpretato come segno di noia o di disinteresse. Ricerche precedenti infatti hanno confermato che la presenza sociale, cioè la presenza dello sperimentatore o di una telecamera accesa, spinge i partecipanti a sbadigliare di meno seppur esposti a video di persone che sbadigliano.

  

   

Gli studiosi hanno voluto allora capire se ciò accade anche quando lo sguardo di un osservatore viene introdotto nell’ambiente virtuale. Indossato un visore, i partecipanti dello studio si ritrovavano all’interno di un laboratorio sulla cui scrivania era posizionato uno schermo che riproduceva il video di persone intente a sbadigliare. In questa condizione la percentuale di sbadigli contagiosi era del 38 per cento, un tasso che rispecchia quanto avviene nella realtà se non ci sentiamo osservati. A questo punto gli sperimentatori hanno introdotto diverse forme di presenza sociale: un avatar umanoide che fissava i soggetti, una webcam virtuale con una spia rossa accesa o, per concludere, lo sperimentatore fisicamente presente nella stanza in cui avveniva l’esperimento.

   

Si è scoperto che i partecipanti erano del tutto immuni allo sguardo sociale virtuale: sia che fossero osservati da un avatar, sia che una webcam virtuale li stesse riprendendo, sbadigliavano non curanti. Un vero e proprio paradosso nel quale gli stimoli che nella realtà scatenano gli sbadigli contagiosi - vedere qualcuno fare altrettanto - hanno lo stesso effetto anche nel mondo virtuale, mentre gli elementi che sopprimono questo comportamento nella realtà – l’essere osservati – non sortiscono alcun effetto se trasportati nel contesto fittizio.

  

Ma ciò che più ha sorpreso gli studiosi è che il fatto di sapere che qualcuno si trovava nella stessa stanza – sebbene i partecipanti non potessero vederlo o sentirlo – era sufficiente per azzerare completamente il numero dei loro sbadigli.

  

Come spiega al Foglio Andrew C. Gallup, uno degli autori dell’esperimento: “Il nostro studio dimostra che le persone rimangono sensibili ai fattori sociali del mondo reale anche quando sono immersi nella VR e non possono più percepirli”. “Ciò non significa”, continua il ricercatore, “che non possiamo mai essere coinvolti fisicamente ed emotivamente nella realtà simulata in un modo che è paragonabile alla vita reale, ma non dovremmo assumere che i nostri pensieri e comportamenti virtuali corrisponderanno sempre a ciò che viene osservato nel mondo reale”.

  

Un punto di vista condiviso anche da Alan Kingstone, professore del dipartimento di psicologia dell’UBC e autore senior dello studio, secondo il quale questi risultati dovrebbero servire come spunto di riflessione, poiché "ricorrere alla VR per esaminare come le persone pensano e si comportano nella vita reale può portare a conclusioni che sono fondamentalmente errate”. Un’affermazione che fa riferimento al crescente ricorso alla realtà simulata nella ricerca in ambito psicologico e, più in particolare, nel tentativo di predire il comportamento umano sulla base del comportamento nel mondo virtuale: ad esempio per prevedere le decisioni dei piloti in situazioni di emergenza.

  

Inoltre, grazie al suo carattere fittizio, la realtà virtuale viene sempre più utilizzata in esperimenti che dal punto di vista etico non si potrebbero riprodurre nella vita reale, come quando si vogliono osservare le reazioni umane di fronte a scene di violenza. Nel 2013, ad esempio, l’University College of London ha condotto un esperimento per studiare le reazioni di chi è testimone di un atto di aggressione. La VR riproduceva l’ambientazione di un bar nel quale i partecipanti conversavano con un avatar umanoide fino al momento in cui quest’ultimo diventava vittima di un secondo avatar che iniziava ad aggredirlo verbalmente e fisicamente. I soggetti riferivano di sentirsi preoccupati e chiamati ad intervenire, in particolar modo quando pensavano che la vittima li stesse guardando per chiedere aiuto, dimostrando di voler fermare l’aggressione anche se si trattava di umani virtuali.

 

   

E ancora, nel 2006, un team di ricercatori ha replicato con la VR il celebre esperimento di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità, scoprendo che sebbene i soggetti dello studio sapessero di dare delle "scariche elettriche" a un personaggio virtuale (un avatar donna), provavano comunque risposte di stress e in alcuni casi interrompevano l’esperimento, a indicare che in qualche misura rispondevano alla situazione come se fosse reale.

 

E’ probabile allora che l’autenticità delle nostre azioni virtuali sia strettamente legata al tipo di esperienza che facciamo: mentre nello studio sugli sbadigli, ad esempio, i partecipanti avevano un ruolo passivo di osservatori, chi osservava un’aggressione in un bar o infliggeva delle scariche elettriche, interagiva in modo attivo e diretto con il mondo virtuale. Così come è plausibile che a seconda del grado di realismo ottenuto, ogni VR abbia una diversa capacità di immergerci in un mondo parallelo e di escludere (o lasciar passare) gli elementi del mondo reale.

  

La domanda se nella realtà virtuale siamo le stesse persone della vita reale resta quindi un interrogativo aperto. Ciò che questi studi sembrano confermare, però, è che così come nel mondo reale subiamo le interferenze di quello “virtuale” dei social network e dei nostri device tecnologici, allo stesso modo, quando ci caliamo in un contesto virtuale, continuiamo a percepire il richiamo della vita reale. Il mondo che ci circonda, dunque, sembra poter dominare quello simulato, tenendoci ancorati al contesto sociale concreto di tutti i giorni. E questa, forse, ha tutti i presupposti per essere una buona notizia.

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