Flash mob per i 40 anni della legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi (2018, LaPresse) 

L'intervento

Si può parlare di salute mentale senza essere schiavi della retorica? Una storia personale

Michele Cerquetti

“La medicina ha scelto di abdicare di fronte alla malattia e deroga a polizia e magistratura penale il compito del contenimento e della cura. Serve una rivoluzione”

Al direttore - Caro Cerasa, le scrivo, in occasione della Giornata della salute mentale, per condividere con lei, e i suoi lettori, una storia che mi sta a cuore e che penso possa essere utile da regalare al vostro giornale per capire qualcosa di più su un tema affrontato troppo spesso in modo scolastico. 

La salute mentale, già, ma che vuol dire? Facciamo un passo indietro. Durante l’ultima campagna elettorale, Giorgia Meloni, come ricorderete, ha aperto un focus sulla questione della così detta “devianza” giovanile, e quella che poteva essere un’ottima occasione per discutere del disastro psicologico e psichiatrico della nostra gioventù e anche degli adulti si è smarrita in una inutile querelle tra leader alla ricerca di uno slogan facile. I numeri relativi al fenomeno, che non è quello a cui faceva riferimento Meloni, sono spaventosi, anche a livello internazionale: uno studio recente, completato nell’agosto del 2021 dal “Journal of the American Medical Association” ha mostrato alcuni dati interessanti, utili da rievocare all’indomani della Giornata mondiale della salute mentale.

Sull’analisi di 80 mila ragazzi, lo studio evidenzia un’enorme sofferenza psicologica e psichiatrica collegata anche alla recente epidemia Covid (depressione nel 25 per cento,  sindrome ansiosa nel 20 per cento) e anche sulla base di questi dati vale la pena sviluppare una riflessione. Sia sul fenomeno sia su alcune normative vigenti come, per esempio, la famosa legge Basaglia. La questione, qui, è semplice: il magistrato non può continuare a fare lo psicologo o lo psichiatra, come succede troppo spesso oggi, e la politica dovrebbe capire che ci sono situazioni dove serve una via di mezzo che consenta il controllo e la sorveglianza clinica di soggetti che possono essere potenzialmente pericolosi non solo per sé stessi ma anche per gli altri. Una classe dirigente con la testa sulle spalle dovrebbe affrontare il tabù ideologico della malattia mentale senza cadere nella tentazione di riaprire i manicomi ottocenteschi ma senza ignorare un fatto più che mai attuale, trattato spesso dai giornali in modo superficiale quando ci si ritrova di fronte a storie come quelle di Alika, l’ambulante ucciso a mani nude a settembre da un soggetto in amministrazione di sostegno con gravi tare psichiche e sotto l’effetto di droghe. Storie di fronte alle quali spesso ci si chiede: “Come è possibile? E chi doveva vigilare?”. 

 

Purtroppo la mente si può ammalare. Si può ammalare in maniera spontanea, random, così come si può ammalare in seguito all’utilizzo di droghe, non necessariamente quelle pesanti (per quanto riguarda i ragazzi, si parla di giovani tra 18 e 25 anni, ogni anno ci sono 45 mila soggetti che vengono curati e sempre più frequente è la così detta “doppia diagnosi” che vuol dire che alla patologia psichiatrica si somma e si mescola la dipendenza o l’effetto lesivo di qualche sostanza stupefacente). Attualmente l’emergenza psichiatrica è scaricata sui Pronto soccorso, il medico di Ps che chiama lo psichiatra di turno  per decidere il ricovero urgente in reparto presso il famigerato “Spdc” (Servizio prevenzione diagnosi e cura). Una sorta di girone infernale dove i malati di follia che tentano il suicidio o altri atti inconsulti vengono sedati con farmaci. In queste strutture si può contenere il paziente con il famoso Tso, al massimo tre settimane, poi in teoria i “Centri salute mentale” e le cliniche convenzionate dovrebbero seguire il paziente. E’ qui che, in base alla legge vigente, si attiva il primo serio ostacolo. Il paziente, uscito dal ricovero di urgenza, a meno che non ci sia un qualche evento di rilevanza penale, è in teoria capace di intendere e volere e quindi di decidere autonomamente se proseguire o meno il percorso di cura. Ed è qui che comincia la solitudine! E’ un percorso doloroso per il paziente come per le persone care che lo vogliono assistere.

 

Come fa una persona sotto l’effetto di pesanti  farmaci sedativi a essere capace di capire, soprattutto se di mezzo ci sono da drenare gli effetti di sostanze psicotrope? Tra i giovani, purtroppo, il mix tra droga e malattia mentale è strettamente collegato e le ricerche cliniche lasciano ormai pochi dubbi: negli adolescenti la cannabis può avere un effetto attivatore che decuplica il rischio di malattia mentale manifesta. Laddove si parla di malattia psichiatrica e abuso di sostanze il termine tecnico è, come detto, “doppia diagnosi”. La struttura pubblica, che si avoca la gestione della malattia anche in termini territoriali, non ha gli strumenti per superare i nodi e i blocchi che si sono creati intorno alla gestione del malato psichiatrico e spesso questo percorso si conclude non solo  con la morte del paziente ma anche con il drammatico coinvolgimento di persone innocenti. Manca il personale, mancano norme flessibili, manca un’assistenza per i parenti e le persone care che circondano il malato. In caso di crisi si è soli e si ha, come unica alternativa, il chiamare il 118 e ricominciare il carosello infernale del ricovero in urgenza.

 

Le malattie psichiatriche hanno i loro ritmi, come le depressioni peggiorano con la primavera e il caldo di questi ultimi mesi ha letteralmente fatto esplodere il disagio. Quella del 2022 è stata l’estate della pazzia, con le strutture talmente oberate e sotto pressione da mandar via la gente dagli ospedali, da rifiutare l’assistenza di sostegno tramite i giudici tutelari, questi ultimi assediati e allo stremo sepolti da una valanga drammatica di emergenza. Il problema della malattia psichiatrica è che poi il malato può diventare un pericolo non solo per sé ma anche per gli altri, e le morti e aggressioni sono oramai una costante della cronaca nera. E ogni volta che qualcuno muore parte il rimpallo delle responsabilità ma rimane il fatto che tutta una società  civile è ostaggio di una legge impostata con criteri demagogici e supercriticata. La famosa legge Basaglia, nata con i più nobili intenti, è ora una sorta di incubo per tante famiglie e tanti malcapitati che si ritrovano coinvolti nel vortice della follia. A questa legge, criticata per altro anche da Basaglia stesso e dai suoi allievi che ancora adesso continuano a sottolineare la mancata attuazione del progetto, si somma anche il seguito del famoso processo Muccioli in cui di fatto si proibisce alle strutture di recupero l’attuazione di misure restrittive a tutela dei pazienti.

 

Se un malato di mente in una comunità di recupero ha una crisi e vuole uscire, non lo si può fermare, al di là delle parole non si può fare nulla per fermarlo, e  se la legge fosse applicata in modo diverso da oggi la povera Pamela Mastropietro, la ragazza diciottenne di Roma uccisa e fatta a pezzi a Macerata il 30 gennaio 2018, poco dopo essere uscita dalla comunità di recupero per tossicodipendenza di Corridonia, forse sarebbe ancora viva. Chi vive in questo incubo sa cos’è quello che manca oggi: quella mezza misura tra la gestione della crisi acuta e il prosieguo delle cure in un contesto in cui il contenimento del paziente deve essere rapido ed efficace e non affidato all’operatore del 112 e in un contesto in cui non è accettabile che un intervento di amministrazione di sostegno con deroga alle cure  richieda fino a sei mesi. Per dire: sapete che se il paziente minaccia la propria vita con il suicidio viene immediatamente ricoverato mentre se minaccia altrui in un contesto insano e patologico non accade praticamente nulla? Le storie di chi ha a che fare quotidianamente con problemi di questo tipo sono storie di piccola e grande violenza, fughe più o meno rocambolesche, sparizioni, abusi di ogni tipo, delirio, scontri verbali e fisici ma soprattutto la paura! Paura di venire aggrediti. Paura che la persona cara si faccia male, faccia del male o magari muoia.

 

Sì, perché la paura è cosa di ogni giorno nella famiglia psichiatrica. Violente discussioni tra genitori e figli malati che si concludono con atti di violenza più o meno grave. Siamo arrivati al punto che padri e madri, mogli, fratelli, spaventati, minacciati, picchiati  nel girotondo delle telefonate e delle visite con il centro salute mentale, alla fine si sentano dire , come consiglio clinico: “Guardi, lo denunci”. Oramai la medicina abdica di fronte alla malattia e deroga alla polizia e alla magistratura penale il compito del contenimento e della cura. E’ un consiglio oramai sempre più frequente: “Denunci, si rivolga all’avvocato, vada alla polizia”. Di curare neanche se ne parla, perché non si può fare. Ci sono battaglie per non far scappare di casa il figlio in crisi delirante, sotto farmaci, con il paradosso che è lui che, alla fine, chiama il 113 e arriva la polizia con una segnalazione di sequestro  e violenza. Già, perché se ci si confronta sul tema di che cosa fare quando un figlio vuole scappare di casa, un figlio in crisi delirante, ci sono due reati che si rischia di commettere: il sequestro o l’abbandono. Qui non si tratta di permettere al ragazzo di andare da qualche parte ma di farlo uscire da solo sotto effetto di potenti farmaci sedativi, in queste condizioni anche attraversare la strada può essere pericoloso. Quindi tra i due reati quale scegliere? Ovvio; si sceglie quello più sicuro per chi è malato e si deve curare e assumere regolarmente farmaci che non possono essere sospesi di colpo – anche gli agenti spesso si ritrovano a dover valutare situazioni complesse ed anche loro si ritrovano tra la logica del buon genitore e la legge! 

 

Estate di follia, già. Dopo il solito consiglio – “trovare un avvocato” – si cerca e si opta per l’amministrazione di sostegno: sono specialisti privati, anche qui si paga e tanto. Ma il tribunale è blindato! I giudici sono letteralmente sommersi dalle richieste. Sul tribunale di tutela pesa una immane mole di lavoro: Tso urgenti, minacce di suicidio, interruzioni di gravidanza di minorenni. Non ce la fanno. Ci sono genitori costretti con una porta blindata in camera da letto come estremo rifugio, una panic room per difendersi dalle crisi di ira e violenza della figlia. Disperati chiedono consiglio in centro salute mentale. Solito suggerimento: “Denunciare!! Gli estremi ci sono!”. Parte la denuncia immediatamente. Il giudice dispone l’allontanamento dalla casa di residenza (bisogna ovviamente trovare un’altra casa). Poi passano anni per arrivare a una prima sentenza e finalmente la condanna che prevede  la pena alternativa: un sacrosanto ricovero obbligatorio per nove mesi in una clinica per provare un percorso di cura e riabilitazione. Finalmente per i genitori una speranza, il sogno che la figlia finalmente sia obbligata a curarsi, a stare lontana dalle sostanze e contenuta nella sua follia. Ma poi c’è un avvocato che si oppone e va in appello, lo deve fare, altri anni persi: e se qualcuno morisse nel frattempo? 
La droga mescolata alla psicosi è una roulette russa, è una corsa contro il tempo. Oramai per avere una terapia obbligatoria serve un giudice penale ma con tutte le complicazioni del caso anche di fronte ad una palese evidenza clinica. 

 

Uno dei maggiori specialisti di problematiche psichiatriche giovanili della capitale è giovane. A lui fa capo  una ottima clinica specializzata e convenzionata con la regione. Ultimo di tre generazioni di psichiatri. Apre le braccia sconsolato: “Non abbiamo i mezzi per lavorare, se il paziente rifiuta il ricovero per legge non possiamo trattenerlo, ma come si fa? A volte per avere una diagnosi certa e di conseguenza una prognosi e una terapia servono mesi, mesi in cui la situazione deve essere sterile di sostanze al 100 per cento. Non si può fare! Non è permesso! Non solo non abbiamo gli strumenti per curare ma è anche difficile fare diagnosi corrette. E soprattutto, in caso di doppia diagnosi, serve tempo. I pazienti si devono ‘ripulire’. Non possiamo obbligare i pazienti a curarsi. Se la crisi è incontrollabile e loro vogliono andare via non possiamo materialmente fermarli” (questo il risultato del mitico processo contro Muccioli) a meno di ricorrere al ricovero in un Servizio psichiatrico diagnosi e cura  d’urgenza. Anche il giudice tutelare, in questi casi, scrolla la testa e avverte: “Non si faccia grosse illusioni se il ragazzo vuole fuggire fugge!”. E fuggono in tanti (presente la piccola Mastropietro?) e indica il solito enorme faldone di carte intrise di dolore.

 

Le famiglie che si trovano in queste situazioni non hanno più riferimenti. Gli psichiatri dicono di rivolgersi agli avvocati, i giudici del tutelare sono sommersi di pratiche e l’unica speranza è la magistratura penale! Dove per un genitore l’unica speranza per avere una cura è quella di denunciare e far condannare  un figlio. Si combatte e ci si dibatte in un labirinto dove le speranze rimbalzano di fronte a muri invisibili. No. Questa legge non funziona, non funziona per tanti motivi perché impone limitazioni impossibili e a sua volta crea un incrocio di competenze che finiscono per penalizzare il malato che, come tale dovrebbe  essere curato per non finire in galera, non spedito in galera per essere curato. Il medico è vincolato a norme che nulla hanno a che fare con la salute e la terapia. Bisogna rivedere tutto seguendo la regola della forbice di Occam: la soluzione più semplice è quella giusta!

 

I “Basagliani” vedono nella scomparsa dei posti letto psichiatrici un successo, ma manca l’analisi razionale di quei servizi alternativi che dovrebbero ammortizzare la scomparsa delle strutture. Loro stessi lo ammettono: “Un’Italia in cui la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, accrescendo l’autonomia delle Regioni, ha approfondito le diseguaglianze nell’offerta di servizi di salute mentale”. E ancora: “Politici e amministratori possono guardare dove funzionano i servizi e dove non c’è domanda di posti letto in crescita, perché si lavora bene su prevenzione e inclusione”. E’ evidente che manca la volontà politica di ragionare e analizzare un problema che qui coinvolge non solo il singolo ma anche la vita  di tanti innocenti. Bisogna ragionare, dopo  tante morti inutili e atroci, su come evolvere il sistema in maniera agile e rapida e soprattutto garantire l’incolumità di cittadini innocenti e tutelare i malati e le loro famiglie. Bisogna preparare e coordinare e semplificare i rapporti tra le istituzioni, preparare giudici dedicati all’argomento in grado di interfacciare rapidamente nella tutela del paziente e dei cari. Bisogna chiarire un concetto molto lapalissiano: chi sta male va curato e protetto, come va protetto tutto quello che contorna il malato e che può essere coinvolto. L’idea stessa di una società dove il malato viene abbandonato è profondamente disturbante ma è questo quello che accade oggi. La negligenza è di chi amministra e deve gestire a livello politico il problema. Il sistema manicomiale considerava il malato mentale come un rifiuto, un oggetto perso da isolare, il sistema Basaglia dà valore all’umano ma richiede risorse e organizzazione, soprattutto organizzazione. Senza intelligenza sociale il malato viene  abbandonato non curato, soprattutto nel caso dei giovani. Questa dimenticanza è imperdonabile: vogliamo iniziare a parlarne?
 

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