Chi ha paura di Giorgia Meloni? Un girotondo

Preoccupati o no del prossimo governo a guida Fratelli d’Italia? C’è chi teme l’imperizia e un isolamento dall’Europa e chi paventa una politica economica neocorporativa e statalista. E c’è invece chi è ottimista: svolta salutare, non c’è alcuna emergenza democratica


Preoccupati di un governo Meloni? Sì, no, forse? E per quali motivi? Nei giorni in cui si parla tanto, anche all’estero (forse soprattutto all’estero), di quello che la Cnn ha prospettato come il governo più orientato verso l’estrema destra dai tempi del fascismo a oggi, abbiamo chiesto a un buon numero di foglianti e amici del Foglio le loro impressioni, le loro attese e i loro timori. Oggi il primo giro di idee e commenti. 

 

Con i conservatori al governo arriva la demolizione del politicamente corretto

Tutto il Foglio minuto per minuto nel governo Meloni, questo è il fatto. Arriva il “prego” alla lista “Aborto? No, grazie”, ovvero l’eroica campagna per la vita del 2008 di Giuliano Ferrara e senza l’onta del tradimento di Cl. Lì dove non ha potuto completare Silvio Berlusconi, là dove non è riuscito Matteo Renzi, arriva dunque Giorgia Meloni. Il dimostratore per tabulas del fatto dei fatti, e cioè che Silvio Berlusconi aveva comunque realizzato gran parte del celeberrimo “Contratto con gli italiani”, ovvero Luca Ricolfi – un beniamino di noi foglianti – è chiamato a inverare, in virtù della sua competenza, la stagione Meloni. Con Marcello Pera, con Eugenia Roccella e col cardinal Ruini c’è anche il ritorno del Papa Re ma è la battaglia storica del nostro giornale a favore degli italiani alle vongole e contro gli ottimati dell’azionismo storico a trionfare nel governo che verrà. C’è, infatti, la liberazione dal fabiofazismo – per non dire dal Johnny&Riottismo – e finalmente la comunità del cattiverio fogliante può segnare una gioiosa tacca.

 
La demolizione del politicamente corretto – dai pomodori a Benigni alle libere mutande – arriva con i conservatori oggi al governo non a caso insolentiti dagli influencer della Ztl e dai moralisti della Repubblica che non hanno un pelo della veneranza barba di Eugenio, il Fondatore, idolo di tutti noi libertini (ma è un altro discorso). Perfino il garantismo c’è perché forcaioli lo sono i Fratelli d’Italia ma mitigati da Carlo Nordio, un altro beniamino di noi foglianti. Tutta l’America del Foglio, dalla bandiera di Jasper Johns all’esportazione della democrazia, è riversata nell’Agenda Meloni ma con Giuseppe Prezzolini ben più che il polemismo di una Oriana Fallaci e con concrete prove sul polonio – ben più che la polverina falsa di Colin Powell per stanare Saddam Hussein – puntando direttamente Mosca e Vladimir Putin per un nuovo regime change. Senza dire, infine, che nel “tienimi da conto” Panetta di Giorgia Meloni c’è tutto il nostro “tienimi da conto Monti”.
Pietrangelo Buttafuoco

   

Ambizione e risultati: lei ha fracassato il soffitto di vetro

Piena confessione. Sono svizzera. Per fortuna c’è stato Roger Federer, così ho smesso di collezionare battutacce sulla confederazione. Da pendolare, ho aggiunto qualche curiosa esperienza: per esempio, le gare della Coppa America vinte da Alinghi raccontate dal cronista svizzero esultante e poi dal mesto collega italiano. Quando Berlusconi diventò la prima volta capo del governo, gli amici svizzeri chiedevano “ma adesso torni, vero?”. Intendevano: torni tra noi, al sicuro dentro i confini della madrepatria. La domanda: “al sicuro da cosa?” non ebbe mai risposta. Era evidente ai loro occhi, a furia di leggerlo su Repubblica, che l’Italia era un posto pericoloso per i sinceri democratici e per una ragazza che trafficava con libri e cinema. Insomma, sono vaccinata. Contro il virus, certo. E contro l’allarme democratico che deve essere guasto, quindi scatta ogni momento. Potrei andarci io al confine, a salutare chi vuole emigrare in un paese che consente alle donne di votare solo dagli anni 70 (del Novecento) e ha assemblee cittadine dove le decisioni si prendono per alzata di mano. Piccolo momento Tom Wolfe, che voleva far ciao ciao a chi scappava da New York dopo la vittoria di Bush e poi di Trump.
     

L’accento di Giorgia Meloni mi urta l’orecchio. Molto meno di quanto i discorsi di Giuseppe Conte fanno strazio della lingua italiana (e del principio di non-contraddizione). Bisogna riconoscere che non ha fatto carriera in quanto “moglie o figlia di”. L’insistenza sulla famiglia tradizionale – le due mamme sono vietate anche nei cartoni di Peppa Pig – è compensata da una figlia nata da una convivenza. L’ascensore sociale ha funzionato, con qualche tocco pop: la madre scriveva romanzi rosa sotto pseudonimo per mantenere le figlie.
     

Se il femminismo vuol dire “ambizione e risultati” – e che altro potrebbe voler dire? lagne? – ha fracassato il soffitto di vetro. La soddisfazione grande sarebbe vederla mettere in riga i cialtroni che le stanno facendo gli sgambetti. C’erano i sondaggi, sottovalutati: non è da maschi aver paura di una donna.

 
Mariarosa Mancuso

 
Preoccupato per il fascio-pride che si vede in giro. Vabbè, poi si placheranno

Una parte di me è molto preoccupata (i diritti, non tanto perché non si faranno balzi in avanti, tanto non si facevano manco prima). Ma più che altro il fascio-pride che si vede in giro, che si sente. 

L’altra parte di me è meno preoccupata e antropologicamente curiosa, in fondo il fascio-pride sarà catartico, faranno i carri, con le loro musiche e il fantasy, si sfogheranno, faranno figuracce, poi si placheranno e non potranno più dire d’essere stati tenuti ai margini della storia per anni. Ma non era già successo con Fini? E infatti alla preoccupazione e alla fascinazione si affianca la sensazione da giorno della marmotta, sembra di essere in un perenne 1994: La Russa ministro, Sgarbi che vuol essere ministro, Schifani presidente di regione, Prodi che dà consigli, il Pd che fa autocritica, Berlusconi usa sempre la stessa scrivania: cambia il medium ma il messaggio è sempre quello, adesso c’è TikTok. Per il resto, comici e attori pronti alla resistenza, piazze pronte a manifestazioni, “con questi leader non vinceremo mai”. Ecco, questa direi è la cosa più sconfortante, capire che non sono serviti a niente questi 30 anni (disoccupazione e stipendi sono rimasti a quel livello, del resto).

Però trent’anni fa non c’era Internet, c’erano i cellulari giganti, e oggi mentre tutto si smaterializza, mentre abbiamo lo Spid, il Pd rimane pesante e farraginoso, assolve la sua funzione che rimane quella, di governare polverosamente, poi viene bullizzato alle urne. Avanzo allora sommessamente, dome dice Giorgia, una proposta: invece di andare a congresso, continuare con l’autocritica, e poi con la faticosa opposizione, cambiamolo questo Pd. Basta campagne elettorali: è il momento in cui perde più punti e in cui diventa, come dicono i giovani, più cringe. Lì deve far finta di avere delle idee, deve far sognare, tutte cose che non sono nel suo Dna. Il Pd diventi un partito on demand, di pronto intervento, leggero. I fasci (o la Lega, o i Cinque stelle) vincono le elezioni, governano un sei mesi e poi con gli spread in rialzo e la *preoccupazione delle cancellerie*, solo allora, lo facciamo entrare in gioco. Però snello, veloce (si eviterebbero anche un sacco di spese e forse di CO2. Il Pd on demand, disdici quando vuoi. Pensiamoci).
Michele Masneri

  
Non diventeremo l’Ungheria e i treni non arriveranno in orario

Non sono indignato. Non sono in ansia per la Costituzione più bella del mondo. Non penso che verranno calpestati i diritti, che diventeremo l’Ungheria, che stiamo sprofondando in un’emergenza democratica, che faremo ginnastica al mattino, che i treni arriveranno in orario (semmai triplicheranno gli scioperi, col venerdì antifascista dell’Atac), insomma, non sono preoccupato. Lo ero invece un po’ nel 2018, davanti all’arrembaggio della banda anti casta. Con quei festeggiamenti sguaiati, giacobini, i forbicioni che immortalavano il taglio dei parlamentari, l’abolizione della povertà con lo spumante in balcone. Sembrava il Venezuela governato da “Striscia la notizia”. L’antipolitica mi farà sempre più paura della politica, che produce i suoi anticorpi, i pesi e contrappesi dentro la dialettica parlamentare e non su mandato della piazza (non a caso, Giorgia ha raccomandato ai suoi il massimo della sobrietà, niente clacson, caroselli, ammucchiate in piazza del popolo). Perché gli elettori l’hanno premiata? Perché è stata bravissima a farsi percepire come “outsider”, l’unica logica che pare scaldare i cuori di quei pochi che ancora vanno a votare. Si è venduta come l’unica rimasta da provare dopo averli provati tutti, Pd, Renzi, Lega, Cinque stelle (il fatto che Giorgia sia tutto tranne che outsider conferma, appunto, la sua bravura). Se poi, grazie alla prima donna-premier-non-femminista e non antifascista dell’Anpi cadranno maschere, impalcature teoriche, ipocrisie, se si sgretola un po’ di quel fascismo immaginario, eterno, immutabile, da cui non riusciamo a separarci come i bambini che non vogliono crescere, non si può che gioire (ma è meglio non farsi illusioni: solo i nostri pronipoti avranno un giorno un partito conservatore e un partito progressista non intrappolati nel passato, che si fronteggiano su programmi e ricette di governo, anziché sulle categorie morali, il bene, il male, il saluto romano, la falce e il martello). E’ noto che di fronte ai suoi ministri che stavano litigando, Margaret Thatcher prese una copia di “The Constitution of Liberty”, di Friedrich Hayek, e la sbatté sul tavolo: “Basta! E’ questo quello che dobbiamo fare, è tutto scritto qui!”. Noi possiamo stare tranquilli. Al primo Consiglio dei ministri, Giorgia tirerà fuori Tolkien e “Il gabbiano Jonathan Livingstone” e dirà: “Signori, non si può fare niente, proviamo almeno a fare così”.
Andrea Minuz

  
Un impegno, uno spirito di appartenenza che non cancella le distanze ma le accorcia

 
Racconto un’esperienza personale. Alcuni anni fa due fondazioni di grande peso politico, Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema (dove stavo) e Fare Futuro presieduta da Gianfranco Fini, decisero di organizzare insieme un ciclo di incontri ad Asolo, rivolti soprattutto ai giovani delle rispettive scuderie. 

  
Furono giorni sorprendenti. Discussioni serie, ragazzi preparati, un buon affiatamento. Ci interrogammo su quelle sensazioni, inedite. Ci accorgemmo che quei ragazzi avevano percorsi comuni, e metodi di lavoro simili. Ma emergeva soprattutto un’idea del ruolo della politica, fatto di conoscenza, impegno e senso di appartenenza collettivo, di orgoglio e di attitudine al rispetto delle opinioni, che resero quelle discussioni, vivaci e dialettiche, molto belle. 

  
Nello sbandamento, lo spaesamento, provocato dalla crisi attuale dei modelli partitici, all’epoca ancora piuttosto solidi, per chi ha vissuto quei giorni, condiviso quello spirito, prevale oggi un sentimento di rispetto. Come a dire: prima delle diverse opinioni, viene la concezione della politica. E li ci si può ritrovare.

 
In questa infinita ricerca di volti nuovi, che caratterizza la politica italiana (salvo poi riscontrare che a dirigere il traffico sono spesso le stesse persone di più o meno abile mestiere), non posso non apprezzare che almeno le scuole politiche, forgiate nel duro scontro delle ideologie del Novecento e costrette a reinventarsi nel flusso della storia recente, tengano il punto e riescano a produrre classe dirigente. Anziché la subalterna rincorsa  della sciagurata società civile, che oggi si esprime attraverso influencer e bolle incandescenti piene d’aria supponente e settaria, la politica, la sezione, il consenso, la leadership. E se poi le scuole sfornano dirigenti capaci di unire la solida formazione e l’aura di novità che tanto piace agli elettori, ben vengano. Non avranno sconti, ma non soffriranno pregiudizi.

 
Ho scavato nel mio cuore per capire cosa mi impedisce di scandalizzarmi, vista la mia provenienza e la mia militanza, per la vittoria di Giorgia Meloni. E ho trovato qualcosa che ha a che vedere con una concezione dell’impegno, uno spirito di appartenenza, un linguaggio, che non cancella le distanze, ma le accorcia, fino a rendere meno sterile e più appassionante la lotta politica. 
Carlo Cerami

   

Il primo partito italiano è meno illiberale del secondo e del terzo

Nessun timore ulteriore. Ho tutte le fobie possibili, inutile elencarle, mi manca soltanto la Melonifobia. Non ce l’avevo prima e non ce l’ho ora. Non ho partecipato ai ludi cartacei, inutile spiegarlo, e il risultato non mi sembra così decisivo, così epocale: c’è o non c’è il famigerato pilota automatico? Io, come Mario Draghi, credo che esista, questo sistema tutor che impone velocità e direzione agli staterelli quali il nostro, e che continuerà a esserci.  Se Giorgia Meloni vorrà fare qualcosa di personale, qualcosa di nazionale, potrà consentirsi solo movimenti ridotti: al massimo un cambio di corsia, non certo di autostrada. Essendo un estremista del realismo non riesco proprio a immaginarmi grandi cose. Mi permetto soltanto di auspicare l’innalzamento del tetto del contante, come da programma di coalizione: spero si possa fare, spero che i nemici della libertà ossia della vita (homo sine pecunia imago mortis, dicevano gli antichi) non riescano a impedirlo. Ah, no, un’altra cosa: mi auguro la liberalizzazione della caccia al cinghiale, la fiera che sempre più indisturbata distrugge sempre più raccolti e vite umane, visto che Fratelli d’Italia è il partito più vicino ai cacciatori. Purtroppo non sono certo che questo sia sufficiente: la decadenza dell’antropocentrismo riguarda il popolo sovrano tutto, la destra come spesso accade è solo un po’ in ritardo. Parlo di libertà (di contante, di caccia...) e non è un caso: credo che oggi il primo partito italiano sia meno illiberale del secondo e del terzo partito e questo non per merito proprio ma per demerito altrui. Da antifascista (la gestione statale della pandemia mi ha trasformato da afascista in antifascista) non temo il fascismo dei saluti romani ai funerali, innocuo come ogni folclore, temo il fascismo reale. Temo il coprifuoco, temo il confinamento, temo la tessera per lavorare: misure che di fascismo puzzano e che per non essere accusata di fascismo una ex missina sarebbe più restia di altri a prendere.
Camillo Langone

  
Potrei dissentire ma riservo la mazza per occasioni più acconce 

 
Sono più preoccupata per le reazioni selvagge e impotenti contro un eventuale governo Meloni che non per quel governo stesso. Ho delle inquietudini ma non da pezze fredde come quelle che si sono viste alla vittoria della d-d-d-destra. Non vorrei che questo penoso piagnisteo finisca per spingere Meloni ad avvinghiarsi a Orbán, AfD, Marine le Pen e Vox. Le donne iraniane hanno stimolato da eroine compiute una rivolta generale di tanti cittadini iraniani, da quarant’anni schiacciati da una repressiva dittatura religiosa, nel silenzio del femminismo italiano. Ma artiste furiose per i diritti, le poltrone, il potere negati alle donne, del corpo femminile violato da maschi stupratori, zitte sono sulla mattanza delle donne in cerca di libertà, che siano la pachistana Saman, macellata da zio e cugini, Mahsa Amini, ragazza curda picchiata a morte per un velo disinvolto, o Hadis Najafi, iraniana, colpita da sei pallottole in faccia mentre ballava la sua resistenza alla polizia immorale. Non è da oggi che tacciono le femministe sulle vessazioni delle donne mediorientali. Anzi, da decenni predicano il “rispetto” per le culture altre, hijab e taglio della clitoride compreso. Non c’è stato un attimo di gioia per il probabile primo premier femmina. Zero. Zitte tutte. Eppure il femminismo o è trasversale o è solo un randello di parte. E squittiscono le ayatollah della “vera femminilità”, una polizia morale interna. Su Twitter si storcono perché Giorgia sarebbe quella che le femministe radicali yankee chiamavano “male identifier”. Una che prende i maschi a modello comportamentale anziché sventolarsi con fazzoletti di pizzo. C’è chi ipotizza che ci siano solo tre tipi di femmine: odalische, gatte morte o camioniste. Di quest’ultimo mi onoro di far parte: discutiamo e ridiamo forte, ci ribelliamo ai diktat del perbenismo e mandiamo a fanculo gli scocciatori. E allora?

 

Vedremo, invece, se Meloni la smetta di denunciare “l’egemonia della Finanza Internazionale”, che ridurrebbe i cittadini in consumatori coatti, o ad accusare George Soros di inondare l’Europa di migranti per sostituire la cultura nativa infeconda. Queste frasi sono dog-whistle per “lobby ebraica”, punto. Devono sparire. Se tiene la barra dritta su atlantismo, europeismo e armi agli ucraini, e fa un vero partito conservatore, potrei forse dissentire ma riservo la mazza per occasioni più acconce.

Anselma Dell’Olio

  

Mi preoccupa il modo in cui declinerà l’identità forte di cui è portatrice

Sì. Sono preoccupato ma non spaventato. Mi preoccupa, nel suo primo misurato e saggio discorso dopo la vittoria, la volontà espressa di “governare la Nazione”, piuttosto che il Paese. Fuor di metafora, mi preoccupa il modo in cui declinerà l’identità forte di cui è portatrice. Non tanto e non solo sul terreno dei diritti civili. Dove, se agirà con prudenza, una certa sfida valoriale potrebbe servire a mettere in discussione alcune derive tecnocratiche del progressismo ideologico. Per intenderci: non posso aspettarmi che Giorgia Meloni legittimi il matrimonio tra omosessuali, come io auspico, ma mi accontenterei che stoppasse l’idiozia della legge Zan e le tentazioni della cancellazione culturale ad essa sottese. 
Ma la preoccupazione maggiore riguarda l’economia, dove temo che l’identità della destra vincente possa declinarsi nelle forme neocorporative di uno statalismo asfissiante o di un egualitarismo irresponsabile, che oggi fanno coincidere, guarda caso, le posizioni di Fratelli d’Italia con quelle della Cgil su questioni come la privatizzazione della compagnia di bandiera, o piuttosto la riforma della scuola e l’introduzione del docente esperto. Sostituire i percettori del reddito di cittadinanza con i precari, con i tassisti o piuttosto con i balneari non cambia la sostanza della relazione tra stato e cittadino: la democrazia appaltata a diversi portatori di interesse, categorie di riferimento della nuova egemonia politica, non sarebbe diversa dalla democrazia ingessata e ostaggio dei gruppi organizzati a cui la sinistra, quando ha governato, ha concesso più di ciò che ha ottenuto. E non farebbe che eternare il declino trentennale della società. 

 
Dubito che la Meloni riesca a disancorare le politiche del welfare dalla ricerca del consenso. Il nazionalismo economico non avrebbe per l’economia effetti diversi dallo statalismo consociativo che la leadership di Giorgia Meloni è chiamata a surrogare. Entrambi rinunciano a riconoscere, valorizzare e correggere gli effetti della globalizzazione senza demonizzarla.
Alessandro Barbano


Temo la nascita di un governo à la carte, disposto a comprare calzini più che a rivoltarli

Sì, sono preoccupato. Alcuni motivi sono stati illustrati già a sufficienza nei giorni scorsi dal Foglio (il deficit di competenze e il rischio di allineare l’Italia al blocco di Visegrad) ma vorrei sottolineare un altro aspetto, per ora rimasto in ombra. C’è una contraddizione tra la straordinaria centralità di FdI ampiamente favorita dal Rosatellum e la sua rappresentatività reale del paese.

  

Mi spiego. Il partito di Meloni è in testa ai sondaggi da solo un anno e ha scalato la politica italiana grazie al fatto che il suo primato è coinciso con la fine della legislatura. Un timing perfetto. Ma dietro a questo successo e alla centralità nel sistema politico che ne è derivata non c’è una solida relazione con il paese, con i territori e la società di mezzo. Per dirla con una battuta, Meloni ha vinto al buio, non ha costruito negli anni una reale e strutturata piattaforma di consenso. C’è stato uno switch di gradimento dalla Lega a FdI e la leader romana ha saputo prendere la palla al balzo. Ma siccome l’attività di governo è spesso condizionata non dai programmi esposti in Parlamento ma dal crudele day by day, ne deriva che Meloni dovrà cercare di acquistare un consenso strutturato volta per volta. Oggi lo sta già facendo con Mario Draghi e ciò che rappresenta come capitale reputazionale, oggi sta comprando know how. Domani sarà costretta ad aprire il portafoglio (politico) con i soggetti che di volta in volta saranno capaci di occupare la scena, di poterle “vendere” qualcosa. Magari i No vax (la frecciata dei giorni scorsi al ministro Speranza lo lascia intuire), i pro Life o i panificatori di Napoli che hanno portato i loro furgoncini in piazza, insomma le tante piccole e grandi constituency che hanno guadagnato campo nella crisi dei grandi soggetti di mediazione. La conseguenza che vedo è la nascita di un governo à la carte, disposto a tutto pur di difendere la centralità ottenuta in una fortunata domenica di fine settembre. Un governo disposto a comprare calzini più che a rivoltarli.
Dario Di Vico

 
Non parlo male di Meloni, ma di Giorgia su TikTok
 

Non sono qui a parlar male di Meloni. Del resto che cosa ha fatto Giorgia? Certo la figlia di Pino Rauti che sconfigge il figlio del deportato scampato ad Auschwitz può fare impressione, ma semmai registra il mood del paese e Meloni l’ha colto prima degli altri. Si può darne colpa a una leader politica? L’altra sera passeggiando con un’amica nel centro di Roma vicino a Campo de’ Fiori abbiamo sentito degli scoppi. Oddio, ci siamo, son tornate le squadracce! No, sono gli scostumati turisti. Le camicie brune non sono arrivate, non ancora. La nostra è la solita isteria da Ztl.
 

Non sono qui a parlar male di Meloni. Del resto cosa ha fatto? Ha vinto le elezioni o meglio le hanno perse gli altri: M5s, Lega, Berlusconi, Pd in ordine di emorragia di consensi. Ma non ha sottoscritto debito buono né debito cattivo. Mica è Matteo Salvini. Niente debito, per ora. Litigherà con Ursula von der Leyen? Certo non si prendono, non possono, basta guardare il loro guardaroba. Meloni manderà le navi militari a pattugliare le coste? Per quante migliaia di chilometri e quante natanti non sappiamo. Non vaccina sua figlia? Ma farà inoculare i suoi elettori se non li vuole tutti in ospedale. Prima la famiglia tradizionale? Vuoi vedere che si sposa, forse è la volta buona e porterà al G7 il first husband.
 

Non sono qui a parlar male di Meloni. Non ha fatto nulla, non ancora. Viktor Orbán l’abbraccia con affetto? Intanto il nuovo Attila rosica, era allo stadio di Budapest con tanto di sciarpone e s’è preso due pappine da un bolognese e un milanese. Prima gli italiani o meglio gli italiani primi. 

 

Non posso parlar male di Meloni dopo il caloroso scambio con Volodymyr Zelensky e l’impegno solenne a sostenere l’Ucraina. Ma dei meloni voglio parlar male, questo sì. Intendo proprio quelli spuntati domenica 25 a urne aperte in un video e piazzati lì, avete capito dove, da lei che un po’ ammicca un po’ minaccia: du’ meloni per le donne du’ palle per gli uomini, gli uni e le altre per Lgbtq+. Io non amo le maggiorate né quelle vere né quelle gonfiate, nemmeno Lollobrigida (intendo Gina la Bersagliera e sembra che sia colpa di mia mamma), figuriamoci Giorgia su TikTok.

 Stefano Cingolani

  

Penso alla Roma di Alemanno e temo soprattutto l’incompetenza

 
Gran parte della campagna elettorale della sinistra si è fondata sull’associazione tra la Meloni e il Fascismo: in qualche modo lei sarebbe l’ultima incarnazione dell’ideologia del Ventennio, la resurrezione in un corpo femminile del Duce Capoccione, e la sua vittoria aprirebbe le porte a un governo autoritario e liberticida. Sarà davvero così? Rischiamo davvero di ritrovarci tra Balilla e manganellatori, con gli intellettuali confinati a Eboli e gli omosessuali deportati in qualche paesino della Sardegna? Ovviamente no, siamo nel 2022 e la Storia non si ripete mai nelle stesse forme. La stessa Meloni è molto più figlia del nostro tempo che di un’epoca così lontana. Certo, è possibile che nel suo entourage, tra gli amici cari della giovinezza, ci siano teste calde, nostalgici invasati, cultori della forza bruta e dell’intolleranza attiva, eja eja alalà… E’ anche possibile che dietro l’esaltazione dei patrioti possano affacciarsi tendenze xenofobe e razziste, che per gli immigrati possa tirare una brutta aria. Però io credo che il pericolo più grande sia un’incompetenza assoluta, dilettanti allo sbaraglio incapaci di governare la complessità del presente. Non lo dico basandomi su chissà quali pregiudizi, bensì perché qui a Roma abbiamo già avuto l’esperienza del sindaco Alemanno e della sua giunta. Era una generazione precedente alla Meloni, probabilmente molto più legata nella sua formazione politica a convinzioni fasciste, eppure non ricordo atti ignobili, discriminazioni brutali, tentazioni autoritarie. Ricordo invece una spaventosa inettitudine, l’incapacità totale nell’affrontare e risolvere le mille rogne cittadine. Sono stati i cinque anni peggiori per Roma, non un’idea, non un progetto, nulla. Ricordo che scrissi un articolo invitando la giunta Alemanno a realizzare almeno un po’ di campi sportivi, in fondo l’attività fisica è uno dei fulcri del pensiero fascista. Niente, neppure un campetto da bocce per gli anziani di qualche periferia, neppure tre tavoli da ping pong in qualche parco, zero assoluto. In compenso molti amici-camerati piazzati qua e là, molto spirito di gruppo, il loro gruppo. Dunque ciò che dobbiamo temere, più che l’olio di ricino e i salti mortali nei cerchi infuocati, è una imperizia assoluta. Essere contro in fondo è facile ed è la storia della destra italiana dal dopoguerra a oggi, ma poi governare e saper fare le cose è un altro paio di maniche. Roma rimase immobile per cinque anni, un’immobilità che è la strada verso il degrado generale. Sarà lo stesso anche per l’Italia intera? Forse gente come Draghi era un po’ più preparata, aveva studiato di più, sapeva più o meno da che parte cominciare? Vedremo, siamo qui e aspettiamo. Non basterà chiudere due campi nomadi e sventolare a oltranza il tricolore, il paese ha bisogno di molto di più. 
Marco Lodoli

 
E come affronterà la pandemia? Due anni di rapporto irrisolto con la scienza
 

Se le voci dal silenzio operoso di Giorgia Meloni – quelle che rafforzano la tesi di una tenuta atlantista, della prudenza sui conti pubblici, della valutazione del curriculum non solo della tessera nella scelta dei ministri – compongono l’immagine rassicurante della leader pragmatica, bastano poche righe di intervista di un fedelissimo a creare timore ideologico.  Non si tratta dei propositi di modifica della Costituzione sventolati dal capogruppo uscente Francesco Lollobrigida – chissà se le riforme saranno poi davvero fra le priorità: non hanno portato fortuna ai predecessori e la scaramanzia ha il suo peso a destra e a sinistra. Il punto è la pandemia, la salute che viene o non viene prima di tutto? Vaccini, mascherine e dintorni, su questa materia pesa il pregresso, due anni di rapporto irrisolto con la scienza.  Su questa materia sono apparse poco incoraggianti le parole del responsabile sanità di Fratelli d’Italia Marcello Gemmato in un’intervista a Repubblica.  Naturalmente la bocciatura dei governi precedenti ci può stare, retaggio della campagna elettorale, discontinuità dettata dalle esigenze della comunicazione. Passi anche il “mai più green pass”. Ma quando si arriva alla sostanza, al “come governerete la pandemia”,  la preoccupazione monta: “I dati dicono che la mortalità per il Covid riguarda persone dai 65 anni in su. La strategia vaccinale dovrebbe mettere in sicurezza gli anziani e chi ha problemi di salute. Vaccinare i bambini di 6 anni non ha senso”, dice Gemmato. Posizione dalla quale deduce che “va bene raccomandare, non mettere più obblighi” e infatti promette che sarà tolto l’obbligo anche per i sanitari. Troppi obblighi, sostiene, possono far pensare “che dietro i vaccini ci sia un interesse delle multinazionali”. Ai più “stolti”, precisa con una logica argomentativa questa sì allarmante e non temperata dall’impegno finale: se arriva una nuova ondata “saremo pronti, ma a partire dai dati scientifici. Non seguiremo le virostar, ma scienziati con impact factor alto e linee di indirizzo già prese in altri paesi”, aggiunge senza fare nomi né degli scienziati, né degli altri paesi, a parte “l’Inghilterra che è partita prima”. L’accusa ai predecessori è di aver avuto una posizione ideologica e infatti, scolpisce, “siamo tra i primi al mondo per mortalità e letalità”.  Sarebbe utile che Meloni, prima della campagna vaccinale, facesse capire se la linea tenuta fin qui dalla destra italiana, le strizzate d’occhio ai No vax, la tesi delle libertà eccessivamente compresse nella campagna vaccinale ecc., hanno ancora bisogno di tempo per essere corrette e adeguate al profilo di governo o se Gemmato anticipa invece le scelte future. Fra tante collocazioni da scegliere e chiarire, se Meloni si sente più vicina a Puzzer che al generale Figliolo, per dire, meglio saperlo. 
Alessandra Sardoni

  

Il pericolo che in Europa si schieri con Orbán. Ne va della tenuta dell’Unione
 

Un primo passo assai rilevante verso il disfacimento o quanto meno la paralisi dell’Unione europea, ultima speranza di Vladimir Putin, potrebbe essere il diniego da parte del nuovo governo italiano del consenso necessario in seno al Consiglio Ue per l’applicazione della sanzione contro l’Ungheria di Orbán. Se il Consiglio Ue, che si riunirà tra poche settimane, non riuscisse ad adottare questa sanzione per il voto contrario dell’Italia, l’autorevolezza della Ue ne uscirebbe pesantemente ridimensionata: d’ora in poi qualsiasi stato-membro potrebbe sentirsi legittimato a disattenderne le regole e persino i principi costituzionali. Se su questo punto Roma sceglierà il voto negativo, questo significherà che Giorgia Meloni ha deciso di esplicitare subito l’abbandono dell’asse con Parigi e Berlino e inaugurare l’asse Roma-Budapest-Varsavia.
 

Non si vede, però, come una scelta simile possa essere fatta propria da Forza Italia, che rischierebbe di porsi in questo modo fuori dal Partito popolare europeo ed esordirebbe nel nuovo esecutivo con una plateale rinuncia al ruolo che si era assegnata di “garante dell’europeismo” del nuovo governo. D’altra parte la nuova coalizione non può fare a meno di Forza Italia. E’ ben possibile, dunque, che Giorgia Meloni decida saggiamente di far buon viso a cattivo gioco, anche per non rendere difficilissimi tutti i delicati passi immediatamente successivi del suo governo a Bruxelles e a Francoforte, quando emergerà con evidenza l’indispensabilità dell’ombrello europeo per la gestione del nostro debito pubblico.

 
Questo passaggio molto delicato, atteso tra breve, dirà dunque subito moltissimo sulla prospettiva di tenuta, o no, della Ue nonostante la drastica svolta della politica italiana. Se l’Italia approverà la proposta della Commissione, sarà il segno che il tessuto connettivo tra i paesi maggiori dell’Unione è in grado di reggere ai piccoli e grandi terremoti politici sempre possibili in seno a ciascuno dei paesi membri; ed è più forte delle spinte centrifughe. Se invece l’Italia si schiererà con l’Ungheria, questo aprirà in seno alla Ue una crisi politica molto pericolosa, potenzialmente destrutturante, e Vladimir brinderà a Giorgia.
Pietro Ichino

  

Temo il misto di paranoia e vittimismo dei governi populisti

  
Molte preoccupazioni allignano sopra l’arrivo di Giorgia Meloni alla guida del paese. Non foss’altro perché si tratta di una novità sia per l’Italia che per l’Europa: la prima volta di un primo ministro di “far-right” (uso la versione corrente della stampa anglosassone per evitare noiose polemiche lessicali) nell’Europa occidentale e in un paese fondatore. C’è anche la novità di genere, la prima donna a Palazzo Chigi (se così sarà), ma in questo mi adagio sulla linea tracciata da Natalia Aspesi, che ricorda che il potere è neutro, quando lo conquisti ne sei in realtà conquistato (Meloni, che conosce a memoria “Il Signore degli Anelli”, lo sa bene).

 

C’è il fascismo che ristagna, c’è l’Europa matrigna, c’è la classe dirigente che non c’è, c’è Orbán, Trump e tutto il cucuzzaro dei bad guys (tranne Putin per fortuna): i giornali italiani e stranieri di preoccupazioni ne hanno affastellate con dovizia. Ma fra tutte, quella che più mi inquieta è una preoccupazione di stile, di tono, che già vedo baluginare sulle testate di area. Quel misto di paranoia e vittimismo così tipico dei governi populisti in tutto in mondo, e che la destra italiana ha utilizzato a man bassa nella sua scalata al potere. Una postura che si tollera a fatica quando ti barcameni all’opposizione o ai margini di qualche governo di larga intesa, ma che dovrebbe essere vietato dalla legge quando si prendono in mano le leve del comando.

 

Governare sarà compito difficile, mantenere tutte le promesse della coalizione vincitrice, impossibile, restare in sella sarà lotta quotidiana, ma tutto questo non può essere condito da recriminazioni e complottismi. Se non passa una legge non sarà colpa dei “poteri forti” perché ormai i poteri forti sono al potere e sono Meloni & co. Se il governo sbanda, se non trova le “quadre”, se va avanti “salvo intese”, non sarà colpa del “mainstream” perché la trasformazione degli underdog in vincitori si è già compiuta e il mainstream passa da quelle parti. 

 

Temo la retorica dei “giornaloni”: saranno disfattisti quelli che criticano il governo (ma poi ce ne saranno?), saranno traditori della patria quelli che ne svelano le difficoltà e gli errori? Vedremo ogni giorno, sui giornali amici, titoli della serie “I comunisti non ci fanno governare”? E lo spread, i titoli di stato che non si piazzano se non a interessi da paura, l’inflazione che non si ferma, non facciamo che sia subito tutta colpa di Soros,  degli gnomi di Zurigo o di Bilderberg. Spero insomma che si scampi dalla sindrome del “siamo piccoli e neri”, perché neri forse sì, ma piccoli certo che no.
Giancarlo Loquenzi

  

Finalmente dalle urne è uscita una maggioranza chiara

 
A differenza del 2013 e del 2018, dalla consultazione elettorale è uscita una maggioranza chiara che dovrebbe consentire di formare rapidamente un governo in condizione di affrontare le sfide e le emergenze che attendono l’Italia sul versante economico e sullo scacchiere internazionale. La Cna ha posto con forza all’attenzione della politica (incontrando i leader nazionali e confrontandosi sui territori) le priorità dell’artigianato e delle piccole imprese indicando proposte per modernizzare il paese, renderlo più competitivo e inclusivo.  L’artigianato e la piccola impresa sono una virtù dell’Italia, un patrimonio economico e culturale da valorizzare. Rimettere al centro la piccola impresa sarà il riferimento con il quale giudicheremo le politiche del nuovo esecutivo, senza fare sconti e senza pregiudizi, con un approccio laico.

  
Le priorità sono chiare a partire dai costi energetici. L’attuazione del Pnrr, il sostegno all’economia, il programma di riforme rappresentano il percorso obbligato che attende il nuovo governo. Certamente non sono in discussione la collocazione internazionale dell’Italia, la piena adesione all’Ue e la tenuta del sistema democratico. La pandemia e poi la guerra hanno reso ancor più evidente quanto sia preziosa la dimensione europea e confidiamo in un rinnovato protagonismo del nostro paese, fondatore dell’Unione, per rafforzare l’architettura istituzionale comunitaria.

   

Ma anche l’Europa deve dimostrare di essere all’altezza delle sfide uscendo dalla logica dei decimali e abbandonando la rigidità fine a sé stessa.
Il tessuto produttivo ha dimostrato insospettate capacità di resistenza come evidenziano tutti i principali indicatori economici ma lo scenario presenta alcuni elementi di forte preoccupazione, in particolare l’ipotesi di non disporre di sufficienti forniture energetiche e la risalita dei tassi di interesse. 
Le imprese, anche stavolta, chiedono risposte per avere una prospettiva a prescindere dal colore delle maggioranze. Auspichiamo che il nuovo governo apra una stagione di dialogo costante con le forze sociali più rappresentative perché occorre il contributo di tutti. 
Dario Costantini
presidente nazionale Cna

 

Quello che mi spaventa di più del governo Meloni è il suo successore

La cosa che più temo del governo Meloni è il conseguente riposizionamento a destra di tutti quanti in tutti i settori. Dal punto di vista del collocamento, l’antifascismo ha sempre funzionato bene in questo paese perché, dati alla mano, i partigiani non erano poi così tanti, o comunque meno della gente che riempiva le piazze di braccia tese; di conseguenza, i figli e nipoti raccomandati da piazzare erano un numero sostenibile dal sistema, in linea con i posti a disposizione. Il nonno fascista invece – se non entrambi – ce l’abbiamo tutti, ma proprio tutti; persino molti nonni partigiani erano fascisti prima di diventare partigiani, pochissime le eccezioni. Risultato: in questi giorni post elezioni la fila fuori dalla Rai di viale Mazzini fa il giro dell’isolato, si dirama per tutto il quartiere Prati di Roma e arriva fino allo stadio Olimpico. L’Italia è piena di gente di estrema destra: riuscirà il governo Meloni ad ascoltare tutti, accontentare tutti, dare un posto a tutti quelli che in Italia hanno un legame col fascismo? L’impresa è numericamente impossibile. Questo ci porta alla mia più grande paura di questo governo: il suo successore. Di elezione in elezione, sono decenni che l’elettorato italiano si è distinto per aver votato sempre peggio dell’elezione precedente, deluso ogni volta da chi aveva votato la volta prima.

 
Il cattivo gusto dell’elettorato italiano è sempre in grado di superarsi, e sono certo che sarà in grado di stupirci anche la prossima volta. E dopo il Movimento 5 stelle, la Lega di Salvini, Giorgia Meloni e i suoi Fratelli, credo che alle prossime elezioni gli italiani saranno in grado di votare un pitbull. Uno di quelli che sbranano donne, bambini o altri cani nei parchi. Magari una pitbull, femmina, per sparigliare un po’; ma sempre pitbull. Siamo già in pessime mani; ma peggio delle mani ci sono le zampe. 
Saverio Raimondo

 

Dai risparmiatori italiani arriva una vigile apertura di credito

 
Dall’osservatorio di professionista specializzato nei c.d. private clients le osservazioni che si possono fare sono che nella clientela privata – sempre spaventata dai cambi di governo – non sembrano esserci state particolari preoccupazioni. In questo momento i risparmiatori italiani sembrano non credere che Meloni metterà in campo politiche in grado di cambiare l’opinione degli investitori internazionali, come invece sembra sia avvenuto nel Regno Unito dopo l’annuncio di un taglio delle imposte (specie per i redditi alti) da finanziare in deficit. 

 
Negli italiani che hanno un portafoglio da proteggere c’è probabilmente anche la convinzione che il contesto delle regole europee unito alla necessità per l’Italia di avere accesso ai fondi Pnrr siano un forte disincentivo a politiche populiste e anti europee. Questa apertura di credito è però vigile; il sentimento prevalente sembra essere “vediamo quello che succederà in concreto e la qualità di chi andrà al governo”. 

 
A chi scrive ha colpito, invece, aver ricevuto qualche telefonata di colleghi stranieri, spesso (ma non solo) di famiglie che hanno subito le infami leggi razziali, che chiedevano di capire meglio cosa stesse succedendo in Italia. Senza allarmismo, ma con una sottile inquietudine. Ogni leggerezza nel condannare il fascismo sarebbe vissuto in questi contesti come un campanello da allarme rosso sull’Italia.  
Andrea Tavecchio

   
Aspetto i fatti. E ricordo una Meloni sedicenne molto battagliera

 
Magari è l’età, ho pensato: ormai ne ho viste abbastanza per essere sufficientemente disincantata. Oppure mi sono abituata all’idea, un po’ come la rana messa nell’acqua inizialmente tiepida e poi via via sempre più calda ma a quel punto ormai è bollita e ciao. Del resto, ho pensato: se sono (siamo) sopravvissuti al governo gialloverde cos’altro può turbarci? Sì, di danni ne ha fatti, e tanti, ma eccoci ancora qui, ammaccati eppure vivi. Dunque no, non mi spaventa un governo Meloni, non ancora almeno. Anche perché sono abituata a giudicare i fatti più che gli annunci e ho l’impressione che la situazione sia tale da non lasciare molto spazio a particolari stravolgimenti. 

 
Dice, ma ora verranno sdoganate la violenza verbale e forse non solo quella nei confronti degli stranieri, dei deviati (cit.), di chi non si allinea. Sì, possibile, tuttavia non posso rilevare che non stiamo vivendo in un’arcadia di concordia e fair play e che per quanto riguarda i diritti, a parte la breve parentesi del governo Renzi (unioni civili), per il resto ogni tentativo di avanzare è stato stoppato.  Eh ma tu sei una privilegiata, non ci pensi a chi sta peggio, a chi vive nelle periferie? Sì, ci penso ma mi chiedo: se chi vive in periferia non si è sentito tutelato dalla così detta sinistra che dovrebbe avercela nello statuto l’attenzione agli ultimi, beh qualche cosa vorrà dire. 

 
Io conosco Giorgia Meloni da quando aveva sedici anni. All’epoca  lavoravo per il neonato telegiornale di Videomusic, il nostro core businnes erano con tutta evidenza i giovani. Daniela Brancati che quel telegiornale lo dirigeva mi chiese (parliamo della fine del ‘93/94) di ideare e condurre una trasmissione sulla scuola. Erano anni di forti contestazioni, ministro della Pubblica istruzione del primo governo Berlusconi Francesco D’Onofrio. Il ministro prese l’impegno di venire in trasmissione ogni settimana per confrontarsi con gli studenti. Fu generoso e coraggioso (dopo di lui anche Giancarlo Lombardi, governo Dini, accettò, mentre si sottrasse Luigi Berlinguer per dire). Ebbene, Giorgia Meloni era una delle più attive, già battagliera, sempre preparata sui temi. La invitavo spesso in trasmissione insieme a un gruppetto selezionato di ragazzi (fra loro c’era anche Pierfrancesco Majorino ora eurodeputato Pd) perché dessero man forte agli studenti che di volta in volta venivano a raccontare come si studiava nella loro scuola, quali erano le loro difficoltà, cosa si aspettavano dal governo. E di lei ricordo in particolare la battaglia sulla gratuità dei testi scolastici. Non che gli altri non parlassero di diritto allo studio, di accesso al sapere. Lo facevano, ma il linguaggio di Giorgia era immediato, comprensibile forse non molto elaborato ma diretto. E attento per l’appunto a chi aveva meno possibilità. Destra sociale la chiamavamo allora, lei spesso polemizzava con i giovani di Forza Italia.

 
E’ rimasta la stessa persona? Spero per lei di no ma credo che alcuni tratti si conservino. Poi certo, bisogna vedere chi sono i tuoi compagni, quali sono i compromessi che hai deciso di accettare, quali patti hai fatto e con chi,  qual è il tuo reale potere, fin dove arriva la tua ambizione.  E poi magari ha ragione Calenda: tempo sei mesi e si rimette tutto in discussione. Sta arrivando il governo di destra, non ho niente da mettermi, devo ancora fare il cambio di stagione. 
Flavia Fratello

  
(1 - continua)