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Cattivi Scienziati

Cosa dicono i nuovi studi sul Long Covid

Enrico Bucci

Un'analisi approfondita su un lungo periodo e una fetta ampia di popolazione ha contribuito a dare ulteriori indicazioni sulla forma prolungata dal virus: la persistenza è data dalla presenza dei sintomi in alcuni organi

Negli ultimi tempi, numerose informazioni che giungono da studi diversi, in diverse parti del mondo, hanno contribuito a sostanziare un po’ meglio la condizione che chiamiamo genericamente di “long covid”.

Innanzitutto, cominciamo da uno studio appena pubblicato su The Lancet – Respiratory Medicine: un gruppo di ricercatori cinesi è andato ad esaminare lo stato di salute in soggetti infettatisi due anni fa, paragonando i dati a quelli della popolazione generale, tenendo in opportuna considerazione le caratteristiche demografiche. Alcuni studi precedenti avevano già trovato possibili effetti sulla salute dei soggetti infetti persistenti ad un anno dopo l’infezione; il nuovo studio, tuttavia, oltre ad estendere il periodo di osservazione, è condotto su un campione piuttosto ampio di popolazione, e cioè su 2649 pazienti sopravvissuti all’ospedalizzazione e rilasciati dall’ospedale tra il 7 gennaio e il 29 maggio 2020.

In questa popolazione di pazienti, a 6 mesi il 68% presentava almeno un sintomo persistente, ma soprattutto il 55% presentava almeno un sintomo ancora due anni dopo l’infezione, con affaticamento e debolezza muscolare ai primi posti fra i sintomi riscontrati. Considerato che l’età mediana all’uscita dell’ospedale era di 57 anni, questo significa che molti individui ancora relativamente giovani restano lungamente soggetti a sintomatologie anche debilitanti ad anni di distanza dall’ospedalizzazione procurata da SARS-CoV-2: da solo, questo dato dovrebbe spingere alla vaccinazione anche le fasce di età che non sono soggette a letalità elevata quanto gli anziani, riflettendo sul fatto che una debilitazione su lungo periodo può avere effetti pesanti in molti ambiti diversi di vita dell’individuo.

Ma come mai il virus può causare effetti così prolungati, anche quando la sintomatologia respiratoria acuta è da lungo tempo superata e l’individuo testato mediante tampone nasale è ormai negativo?

Alcuni studi da parte di diversi laboratori di ricerca puntano alla verifica di un’ipotesi: la persistenza del virus o di sue parti – definite “fantasmi virali” in diversi distretti dell’organismo, per tempi lunghi dopo l’infezione.

Per cominciare, due diversi gruppi di ricerca hanno dimostrato la persistenza per diversi mesi a livello intestinale. Da molto tempo è noto che il virus è in grado di infettare anche le cellule del nostro intestino, che esprimono il recettore ACE-2 necessario all’invasione virale; in particolare, almeno metà dei pazienti mostra positività fecale al virus nelle settimane dopo l’infezione. Alcuni di questi pazienti – e precisamente il 4% del totale – continuano ad essere positivi a livello intestinale per 7 mesi dopo la diagnosi iniziale, pur essendo ormai negativi a livello respiratorio, e questi stessi pazienti, nei momenti in cui mostrano feci positive, sono anche affetti da sintomi gastrointestinali; questo è il risultato principale di un nuovo studio, appena pubblicato su una rivista del gruppo Cell da un gruppo di ricercatori di Stanford. Lo stesso, identico risultato è stato ritrovato, sempre a 7 mesi dalla diagnosi iniziale, in una percentuale molto più ampia di soggetti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD) da un gruppo di ricercatori austriaci, i quali hanno trovato nella mucosa intestinale della maggioranza dei soggetti esaminati sia l’espressione dell’RNA virale, sia le proteine del virus.

Oltre a questi studi pubblicati su riviste dopo revisione dei pari, altri dati cominciano ad emergere: per esempio, in un preprint frutto di una collaborazione fra ricercatori di Singapore e della Spagna, è stata dimostrata non solo la presenza, ma anche l’attiva replicazione virale in due pazienti che, contrariamente agli studi precedenti, avevano avuto sintomi lievi di COVID-19, per poi manifestare sintomi di long-COVID. In particolare, nell’appendice e nel tessuto del seno di questi pazienti la replicazione virale è stata individuata a 5 e a oltre 15 mesi dalla diagnosi iniziale.

In sostanza, si stanno accumulando dati che mostrano la possibilità di persistenza del virus, o di parte di esso, anche per molto tempo dopo la fase acuta dell’infezione; inoltre, indipendentemente dalla gravità dei sintomi iniziali, questa persistenza comincia ad essere correlata dagli studi alla persistenza di sintomi nella cosiddetta sindrome long-COVID.

Come queste riserve di antigeni virali o di virus possano modulare la risposta immune dell’individuo affetto, oppure se possano causare altri tipi di disfunzioni patologiche, non è ancora chiaro; di certo, tuttavia, sarebbe estremamente importante provare definitivamente che la persistenza dei sintomi sia legata alla persistenza del patogeno o di sue parti, perché in questo modo l’obiettivo terapeutico per la risoluzione dei sintomi – la eliminazione completa del virus – sarebbe definito con chiarezza.

A corollario, non resta che chiudere con una raccomandazione: non vale la pena rischiare l’infezione, nemmeno in forma lieve. La sindrome long-COVID, indipendentemente da età e sintomatologia all’inizio dell’infezione, è una condizione ancora mal definita, ma i dati che si stanno acquisendo indicano che essa possa essere anche discretamente invalidante.

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