Le nostre armi contro il Covid e la guerra (fake) tra esperti. Parla Remuzzi

Enrico Cicchetti

"Il dubbio e l'errore sono il motore fondamentale della scienza, non una contraddizione", dice il direttore del Mario Negri. A che punto siamo con farmaci e vaccini. Il rischio "America first"

Per prima cosa vuole chiudere idealmente la polemica tra scienziati, montata molto sulla stampa nelle scorse settimane: "Virologi ed epidemiologi non sono divisi" su Covid-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus. "Per capirlo basta osservare il quadro complessivo. La pandemia è una realtà complicata, ci sono posizioni che viste da vicino sembrano incompatibili, ma allargando lo sguardo descrivono esattamente lo stesso fenomeno", dice al Foglio il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri di Bergamo.

 

Una questione di metodo (scientifico) 

"Una cosa positiva", dice Remuzzi, "questi battibecchi sui giornali l'hanno portata: ora le persone iniziano a capire cosa si intende con metodo scientifico. Non c'è una verità assoluta. Ci sono delle regole. Il dubbio e l'errore sono il motore fondamentale, la forza propulsiva che ci fa procedere verso la conoscenza. A volte il dubbio instillato dalle critiche di bravi colleghi stimola il ricercatore ad approfondire. La possibilità di ripetere l'esperimento e validarlo è un altro concetto chiave".

  

Un esempio? "Il fatto che alcuni esperti dicono che il virus è mutato e altri dicono che non è mutato. Sembra che la scienza si contraddica, no? In realtà sono vere entrambe le posizioni, ma bisogna spiegarsi: il virus subisce continue piccole mutazioni, tanto che in un caso specifico sono state osservate 9 variazioni in un solo individuo di Sars-Cov-2. E' però altrettanto vero che, secondo tutti i principali e più autorevoli studi, queste mutazioni non incidono in maniera sostanziale sul comportamento del virus, almeno per adesso. Sebbene i genomi mostrino alcuni cambiamenti, non ci sono prove che siano aumentate o diminuite certe caratteristiche del virus, come la sua contagiosità e la sua capacità di trasmettere la malattia".

   

Un altro caso illuminante, secondo Remuzzi, è quello degli asintomatici: trasmettono o no il virus? "Un conto sono gli asintomatici di quest'inverno, un conto quelli di oggi. Dai risultati degli esami è chiaro che gli asintomatici di marzo avevano altissima carica virale, quelli di oggi ne hanno una molto bassa. Però il conduttore di talk show insiste sull'apparente contraddizione tra scienziati: 'c'è chi dice che contagiano e chi dice di no'". Forse si insiste perché dire che non ci sono più malati gravi negli ospedali potrebbe fare abbassare la guardia ai cittadini, che si sentirebbero autorizzati ad abbandonare le precauzioni? "Eppure la realtà scientifica dice questo: nonostante ci siano ancora persone positive nei pronto soccorso non arrivano più persone in crisi respiratoria. Se volete possiamo chiudere la questione così, dicendo che se oggi in Italia le cose vanno bene, ed è vero, è anche grazie al distanziamento sociale, all'uso delle mascherine e all'abitudine acquisita di lavarsi correttamente le mani. Che vanno mantenuti".

   
Farmaci, vaccini e il rischio "America first"

Gli Stati Uniti hanno adottato un atteggiamento da "America first" sulla pandemia. L'altro ieri il Guardian ha scritto che gli Stati Uniti hanno acquistato praticamente tutte le scorte per i prossimi tre mesi di Remdesivir, uno dei due farmaci che hanno dimostrato di funzionare contro Covid-19. "Remdesivir, in brevetto per Gilead, che è stato sperimentato nell'epidemia di Ebola ma non ha funzionato come previsto, ora sembra aiutare il recupero da Covid. Non è chissà che farmaco, ma il problema vero si porrebbe se uno stato facesse un'operazione simile anche nel momento in cui avessimo a disposizione un vaccino", dice Remuzzi.

 

A maggio, il ceo del produttore francese Sanofi ha dichiarato che "il governo degli Stati Uniti ha diritto al più grande pre-ordine perché ha investito nella ricerca e si è assunto buona parte del rischio". Successivamente Sanofi ha ritrattato, su pressione del governo francese.

 

Remuzzi ricorda che Silvio Garattini, fondatore nel 1963 e direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri fino a giugno 2018, "sosteneva che sarebbe stato necessario, quando è in gioco la vita dei pazienti, alla sospensione o all’abolizione del brevetto. Senza spingersi fino a questo, e riconoscendo il fondamentale valore dell'industria farmaceutica, senza la quale non avremmo fatto passi avanti nella cura delle malattie, credo che in caso di emergenze globali come questa dovremmo rendere i vaccini disponibili a tutti fuori dalle regole dei brevetti. Credo che per contrastare Covid-19 ci dovrebbe anche dare la possibilità agli stati di prodursi il proprio farmaco anche prima della scadenza del brevetto.  E' quello che chiedono più di 140 personalità mondiali in un appello a governi e case farmaceutiche".

   

La cura, a che punto siamo?

L'armamentario terapeutico a nostra disposizione non è straordinario, dice Remuzzi, ma se pensiamo che pochi mesi fa non c'era niente e oggi abbiamo diversi farmaci utili, il progresso è notevole.

 

Desametasone 

Oltre al Remdesivir c'è il desametasone, per esempio. Un antinfiammatorio che conosciamo da decenni e che sembra utile per abbattere la "tempesta immunitaria" causata da Sars-Cov-2. Remuzzi cita il Recovery Trial, studio clinico condotto nel regno Unito. "Il farmaco sembra aver risparmiato tre morti su dieci", dice il medico. Lo studio ha arruolato 2.100 partecipanti che hanno ricevuto desametasone per dieci giorni. Questi sono stati poi confrontati con circa 4.300 persone che hanno ricevuto invece cure standard per l'infezione da coronavirus. L'effetto del desametasone è stato più evidente tra i pazienti critici in terapia ventilatoria. Anche coloro che stavano assumendo ossigenoterapia ma non erano sottoposti a ventilazione hanno visto un miglioramento. Il rischio di decesso per quei partecipanti è stato ridotto: si risparmiano 3 morti su 10. Lo studio suggerisce che alle dosi testate, i benefici del trattamento con steroidi possono superare il danno potenziale.

  

"Ora però in Europa non ci sono più abbastanza pazienti da testare per continuare simili studi", riprende Remuzzi. "Uno dei limiti più evidenti, oggi, viene proprio dagli studi randomizzati. Sono eccezionali e ne abbiamo sempre tessuto le lodi. Ma sono complicati. In situazioni di urgenza come questa conviene rivolgersi alla disaster medicine, quella attuata in caso di catastrofe. Un collega turco la descrive così: 'Quando dopo un terremoto vedi il braccio di un ferito sporgere dalle macerie, prima gli metti un ago e poi ci ragioni'. Dobbiamo intervenire un po' così, sulla base delle conoscenze della medicina moderna, degli studi che siamo stati in grado di realizzare fin qui e con un po' di buonsenso. Per i molti medici che da tutto il mondo ci chiedono come trattare a casa i propri pazienti Covid in fase iniziale abbiamo preparato un vademecum basato sul razionale farmacologico e le evidenze cliniche disponibili".

  

Anticorpi monoclonali e Tocilizumab

"Quella degli anticorpi monoclonali", sostiene Remuzzi, "è una strada complicata ma direi che è la più promettente. E' probabile che si arriverà a sviluppare un farmaco del genere prima del vaccino, che temo non sarà disponibile se non a novembre o dicembre". Anche per l’anticorpo monoclonale Tocilizumab esiste uno studio che ipotizza possa moderare la tempesta citochinica causata dall’infezione nei pazienti più gravi, riducendo dal 20 per cento al 7 la mortalità dei malati di polmonite da Covid-19 severa se aggiunto ai trattamenti standard, rispetto ai trattamenti standard da soli.

 

Ne scrivevamo qui: 

  

Inibitori del complemento

Il sistema del complemento, insieme con gli anticorpi, è un elemento essenziale del sistema immunitario. Un insieme di proteine a disposizione delle nostre difese immunitarie per proteggerci da virus e batteri che però, secondo alcuni studi, gioca un ruolo fondamentale nell’innescare lo stato iper-infiammatorio osservato in alcuni pazienti Covid, cioè una risposta immunitaria eccessiva e dannosa del nostro organismo che dai polmoni si diffonde ad altri organi. "Bloccando l'attivazione del sistema del complemento", spiega Remuzzi "ci sono buoni indizi del fatto che gli inibitori possano funzionare. Ci sono già quattro studi internazionali in corso ai quali se ne aggiungeranno due dell’Istituto Mario Negri e l’Ospedale di Bergamo".

  

Terapia a base di plasma iperimmune

La terapia con plasma da convalescenti prevede il prelievo del plasma da persone guarite dal Covid-19 e la sua somministrazione (dopo una serie di test) a pazienti ancora malati, per trasferire gli anticorpi. "Una terapia antica - ricorda Remuzzi - che ha sempre funzionato con molte malattie virali. Oggi è oggetto di studio in diversi paesi del mondo, Italia compresa", perché non sono ancora disponibili evidenze scientifiche robuste sulla sua efficacia e sicurezza, che potranno essere fornite dai risultati dei protocolli sperimentali in corso.