Giuseppe Remuzzi (foto LaPresse)

Il puzzle della pandemia. Parla Remuzzi

Enrico Cicchetti

Gli attacchi all'Oms (“ingiustificati”), le contraddizioni (“apparenti”) della scienza e i tamponi, che non sono la panacea. Il direttore del Mario Negri ci spiega come cambia il Covid e come mettere insieme i pezzi di un quadro complicatissimo

“Gli attacchi all'Oms sono ingiustificati”, dice Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri di Bergamo. Pochi giorni fa il capo della squadra anti-Covid dell'Organizzazione mondiale della Sanità, Maria Van Kerkhove, si è lasciata scappare in un briefing che gli asintomatici non sono tra le cause di trasmissione del coronavirus. E ha scatenato la prevedibile bufera. “Si è trattato di un errore banale: Kerkhove si è dimenticata di leggere la parola most, che era presente nel report originale dell'agenzia: 'gli asintomatici non sono tra le cause principali di trasmissione del coronavirus', era il senso. Una affermazione confortata da tanti lavori recenti. Uno pubblicato a fine marzo su Lancet mostra che mentre l'onda epidemica si riduce cala anche la possibilità che gli asintomatici siano un'importante forma di contagio”.

 

Non solo, dice Remuzzi, perché poi ci sono i pre-sintomatici, quelli che oggi non mostrano segni dell'infezione ma li mostreranno fra due giorni, o i pauci-sintomatici, in cui gli effetti del Covid potrebbero confondersi con quelli di un'altra malattia più banale. “Insomma, un'epidemia di questa portata è un fenomeno estremamente complesso. Se guardiamo solo un pezzo del puzzle ci sfugge il quadro completo. Le apparenti contraddizioni tra scienziati, viste nella loro complessità, non sono limiti insormontabili o paradossi”.

   

Facciamo un esempio? “Da più di un mese - dice Remuzzi - osserviamo che non ci sono più malati gravi negli ospedali, nonostante ci siano persone positive; nei pronto soccorso non arrivano più persone in crisi respiratoria. Eppure, molti studi sembrano dimostrare che il virus non è mutato. Un lavoro recente dell'University College di Londra sostiene che la composizione genetica della popolazione virale non è mutata sostanzialmente. I ricercatori scrivono che 'non ci sono prove che Sars-CoV-2 sia diventato più o meno virulento e trasmissibile. La composizione genetica della popolazione virale non è infatti cambiata molto da quando è emersa'. Anche da ciò che sostiene la St George's di Londra emerge che la comunità scientifica per ora è d'accordo sul fatto che 'sebbene i genomi mostrino alcuni cambiamenti, non ci sono prove che siano aumentate o diminuite le caratteristiche del virus, come la sua trasmissibilità e la gravità della malattia'. Inoltre, delle centinaia di mutazioni trovate solo due sembrano essere positive per l'ospite, cioè per noi, mentre le altre sono o neutre o deleterie, nel senso che rendono il virus più aggressivo”.

  

E allora perché l'epidemia sta rallentando? “Ci sono almeno tre ragioni possibili”, risponde Remuzzi. “Una è che sia diminuita la sua carica virale, cioè la concentrazione del virus nelle alte vie respiratorie”. In altre parole, e semplificando un po', un virus non è come un colpo di cannone, che dove colpisce distrugge. A seconda della quantità di patogeno con la quale entriamo in contatto potremo sviluppare o meno la malattia e in una forma più o meno grave. “Lavarsi le mani, usare le mascherine e mantenere il distanziamento sociale - continua Remuzzi - sono gli unici metodi sicuri che conosciamo per diminuire la carica virale. Oggi ci comportiamo in modo più cauto e anche il più disattento di noi vive in modo diverso. Questa ipotesi sembra emergere anche da studi recenti. A Brescia, il virologo Arnaldo Caruso ha notato che i tamponi delle ultime settimane mostrano una quantità di Rna virale molto più bassa rispetto a prima. E nell'unico tampone dove la carica è invece elevata, il virus fatica a uccidere le cellule: impiega circa sei giorni a ucciderne qualcuna, mentre prima tutte le cellule esposte a una carica virale comparabile morivano in 48 ore. Risultati simili arrivano anche dall'indagine di un equipe di Hong Kong. Ma c'è anche un'altra ipotesi, e cioè che anche quella di Sars-Cov-2 si comporti come si comportano molte altre epidemie, che a un certo punto si attenuano da sé. Nel caso del vaiolo e della poliomielite questo però non è successo ed è stato necessario ricorrere alla vaccinazione di massa per debellarle. La terza ipotesi? Se nessuna delle due possibilità precedenti fosse quella giusta, al momento la vera ragione del rallentamento dell'epidemia rimarrebbe sconosciuta”.

  
    
Ma se il virus, in sostanza, non è mai cambiato perché lei parla di tre diverse manifestazioni del virus in Italia, una del nord, una del centro e una del sud? “Sono tre facce della stessa epidemia, tre manifestazioni dello stesso patogeno in aree diverse. Per capire cosa è successo bisognerebbe capire come è partito tutto e mettere in prospettiva i dati raccolti sistematicamente. Come dicevo, un'epidemia è un fenomeno complicato. L'origine dell'epidemia è ufficialmente avvenuta intorno a fine dicembre. Ma già da settimane prima c'erano notizie di polmoniti atipiche. Un rapporto del South China Morning Post afferma che le autorità cinesi hanno identificato almeno 266 persone che hanno contratto il virus l'anno scorso e che sono state sottoposte a sorveglianza medica, e il primo caso è stato il 17 novembre, settimane prima che le autorità annunciassero l'emergere del nuovo patogeno. In Francia c'è stato il caso, confermato, di Amirouche Hammar, risultato positivo al Covid-19 a dicembre. I primi casi in Europa sarebbero stati registrati più di un mese dopo. Alcune persone mi hanno mandato delle lettere in cui raccontano di avere sofferto per sintomi molto simili a quelli da Covid-19 tra novembre e dicembre. Scrivono da Malta, dal Galles, dall'Inghilterra. La difficoltà nel ricostruire l'evoluzione della pandemia sta anche nel fatto che non conta solo il virus, la sua genetica e la sua evoluzione, ma anche la genetica dei suoi ospiti: gli esseri umani. Recenti indagini sembrano dimostrare che è un fattore determinante anche la nostra alimentazione, il nostro gruppo sanguigno, il nostro sistema Hla, cioè i geni che codificano le proteine sulla superficie delle cellule del sistema immunitario... C’è poi da considerare il rapporto tra uomo, virus e ambiente: l'umidità dell'aria, la sua temperatura, la stagione. E inoltre ci sono i fattori sociali: uno studio giapponese ha dimostrato che il rischio di infezione al chiuso è 19 volte più alto che all'aperto. Paradossalmente, alcune delle località più colpite sono quelle più attente ai propri anziani, quelle che offrivano loro più cinema, più teatri, più strutture come le Rsa. Luoghi chiusi dove cluster di potenziali ospiti del virus si raccolgono per stare insieme. Così anche una partita a bocce, magari sputando sulla palla per farla scivolare meglio, può diventare una bomba biologica”.

   

Quindi aprire, da lunedì, anche teatri e cinema non è una buona idea? “Ma no, ormai siamo in una fase diversa e abbiamo maggiori attenzioni. Occorrerà essere accorti e studiare i dati per capire, già da fine giugno, come si evolve l'epidemia. Sono d'accordo con ciò che dice Locatelli, che anche se dovesse esserci una seconda ondata - e non è detto che ci sia - non avrà le dimensioni e la portata della prima. Attenzione: non significa che il Covid non possa tornare, ma che questa volta saremmo più preparati. Serve particolare cautela con quelle persone che sono guarite ma non del tutto, che continuano ad avere strascichi anche pesanti. Dovremmo fare tutti il vaccino anti-influenzale e tenere gli occhi aperti sul territorio. Il modello dev'essere la Corea del sud”.

 

Fare come Seul significa fare più tamponi e usare la app di tracciamento? “I tamponi sono fondamentali nella fase iniziale, per isolare i focolai. Serve continuare a farne nei luoghi a rischio, nelle Rsa, agli operatori sanitari. Ma è impensabile somministrarli a sessanta milioni di cittadini italiani. Come se non bastasse c'è il problema che tre volte su dieci il risultato del tampone è sbagliato e che dipende molto da chi lo fa: un infermiere esperto o un otorino sanno come eseguirlo con il minimo rischio di errore, ma altri operatori no. E poi il tampone non è bianco o nero: diverse quantità di patogeno possono rendere incerta la lettura dei risultati. Non sono un esperto per quanto riguarda Immuni, o le app di tracking in generale, ma posso dire che servono a poco se dopo aver ricevuto l'avvertimento di essere entrato in contatto con un positivo, attorno a me non si attiva una rete. Occorre un'organizzazione pubblica rapida ed efficiente e spazi dove isolare i positivi in modo da gestire i diversi livelli di cura e non fare ammalare anche i familiari dei contagiati. Con il Mario Negri stiamo partecipando a un bando europeo per sviluppare una app che possa accompagnare l'utente per tutto il percorso, ma ancora serve del tempo”. Per finire il puzzle ci vuole pazienza.