Sanità malata
Frammentazione e squilibrio ospedali-territorio. I guai degli eccessi di regionalizzazione, anche in altri campi
È stata la débâcle della sanità lombarda, quella che si vanta d’essere la migliore?
È stata la conferma di diagnosi già fatte (e ripetute) dei punti deboli della sanità italiana, diagnosi compiute sia dall’Unione europea sia dal Parlamento italiano: in particolare, frammentazione e squilibrio ospedali-territorio.
Cominciamo con la frammentazione.
“Abbiamo visto un massacro nelle residenze per anziani”, ha dichiarato il 15 aprile scorso il direttore aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità professor Ranieri Guerra. Il presidente Macron è andato oltre: nell’intervista fatta al Financial Times il 16 aprile, parlando della solidarietà, si è chiesto perché gli anziani lombardi in pericolo di vita non siano stati portati nelle regioni italiane finitime meno colpite.
Aggiungo che la Germania ha accolto pazienti italiani, trasportati in aereo in città tedesche. In Lombardia sono stati tenuti anziani in residenze divenute pericolosi focolai di infezione, senza ricorrere al trasporto in altre regioni, dove vi erano posti in terapia intensiva. Se il Servizio sanitario fosse veramente nazionale, come lo definisce la legge istitutiva del 1978, questo non sarebbe successo e molte persone si sarebbero salvate.
Difetto della regionalizzazione?
Degli eccessi di regionalizzazione, di cui vi sono altri indicatori. Il presidente della Campania che minaccia la chiusura delle frontiere, quello della Calabria che dichiara che le ha già chiuse e le terrà chiuse. I presidenti regionali che dichiarano di avere la propria “app” per il tracciamento. L’ordinanza del presidente lombardo dell’11 aprile scorso, che, violando le norme nazionali e senza una base legale regionale, ha stabilito divieti aggiuntivi ed eccezioni, incidendo su diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti. Sono piccoli sovrani? Questi non sono atti sediziosi, che andrebbero annullati e che comporterebbero sanzioni per chi li ha firmati? Gli autori non conoscevano l’articolo 3 del decreto legge del 25 marzo e l’articolo 8 del decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 10 aprile?
Questo riguarda la cronaca. Ma ritorniamo ai dati strutturali che sono confermati da questi atteggiamenti sediziosi di alcune regioni.
Questa divisione ultra-regionalistica conferma una diagnosi che si può leggere sia nel rapporto della Commissione europea sullo stato di salute della sanità italiana, sia nel rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio sul Servizio sanitario nazionale, tutt’e due del 2019. Ambedue mettono in luce la disparità tra le regioni per territorio, genere e situazione economica e l’insufficienza dei Lea (livelli essenziali di assistenza) a mitigare queste diversità. Le sperequazioni territoriali producono diseguaglianze nel diritto alla salute, dovute a forniture non omogenee di servizi e prestazioni sul territorio nazionale. Questo è provato anche da altri indicatori. La percentuale di pazienti che si curano in una regione diversa da quella di residenza è in aumento, arriva quasi a sfiorare il 10 per cento, innescando un ulteriore circolo vizioso, per cui le regioni più povere finanziano quelle più ricche. Piani di rientro o risanamento riguardano in larga prevalenza regioni meridionali. Insomma, questa chiusura regionalistica, per cui il Servizio da nazionale è divenuto un insieme di tanti servizi regionali sovrani, presenta tutti questi lati negativi: i loquaci amministratori lombardi non si valgono della solidarietà di altre regioni (ma viene apprezzata quella tedesca), mentre si vantano orgogliosamente della propria sanità che attira tanti pazienti da altre parti d’Italia, così mettendo in luce le disparità. Un insieme di circoli viziosi, che occorre rompere.
Perché rompere? Non è responsabilità delle classi dirigenti locali d’aver investito e ben gestito i sistemi regionali?
Lo sarebbe appieno se il meccanismo di finanziamento fosse locale. Invece, per la sanità, in linea generale, lo Stato finanzia (a carico della fiscalità generale), le regioni spendono. Così si nutre l’irresponsabilità, nel Nord e nel Sud.
Perché, allora, non si modificano questi circoli viziosi, visto che gli squilibri sono analizzati e segnalati con tanta chiarezza sia a livello europeo, sia a livello nazionale?
Perché la sanità è diventata la parte più importante dei compiti regionali. In Lombardia, più di tre quarti del bilancio riguarda la sanità. E a questo va aggiunto il personale sanitario, grande massa di manovra, da quando è penetrato lo “spoils system”, con conseguente lottizzazione. Quale politico vorrà rinunciare a gestire questa quota tanto importante di potere clientelare (in Lombardia, quasi 20 miliardi, su un bilancio di 26 miliardi). Non ha notato come è stato utilizzato il palcoscenico della pandemia dai dirigenti politici locali, scimmiottando quelli nazionali, per sfruttare l’occasione fornita per apparire ogni giorno in televisione, invece di far parlare i tecnici che avrebbero potuto fornire informazioni e consigli più appropriati e senza valutare il costo che pagheranno per questa sovraesposizione, quando emergeranno gli errori, le sottovalutazioni, le chiusure che hanno contribuito a causare tante morti? Tutta la gestione della comunicazione pubblica di alcune regioni andrebbe riesaminata, con le sue contraddizioni: voler fare da soli, ma lamentare che il governo centrale non fa arrivare le mascherine; annunciare orientamenti diversi da quelli unitari e uniformi che andavano rispettati; contraddirsi da un giorno all’altro; usurpare competenze e non saperle poi esercitare; annunciare con soddisfazione il numero dei posti letto di terapia intensiva che si liberavano, come se si fosse trattato di metter in salvezza non gli anziani, ma il servizio.
Gli altri punti critici, già diagnosticati e ora confermati da questa dura prova alla quale il sistema è stato sottoposto?
L’integrazione ospedali-servizi territoriali. La debolezza lombarda di questi ultimi ha provocato la corsa alla ospedalizzazione e la diffusione dei contagi. Si è così evidenziata la differenza tra Lombardia e Veneto in termini di poliambulatori territoriali e di coordinamento dei servizi sanitari e sociali, che ha dimostrato l’esistenza di ulteriori di cleavages e l’assenza di unità del servizio. La Costituzione dichiara la nazione una e indivisibile. Menziona circa 50 volte la “Repubblica” per indicare una unità di comuni, città metropolitane, province, regioni, Stato. Dove consente limitazioni della circolazione dei cittadini, dispone che debbano esser fatte “in via generale”. Non esistono più Italie, ne esiste una sola.
Responsabilità della sola Lombardia?
C’è una responsabilità iniziale e grave del governo centrale. Non aver applicato la Costituzione, secondo la quale l’attività di profilassi internazionale spetta al governo centrale, e va quindi attuata in maniera unitaria e uniforme sul territorio. C’è un problema di incolumità pubblica e di limiti che vanno introdotti “in via generale”, non regione per regione. Il governo centrale è anche ricorso alla Protezione civile, quando la competenza primaria era del ministero della Salute.
E ora?
L’agenda dovrebbe essere chiara. Il Servizio sanitario nazionale va rifinanziato, perché ha perduto risorse finanziarie e personale dal 2008. La spesa sanitaria nazionale pro capite è più bassa del 15 per cento rispetto alla media europea. Ottimo motivo per non ascoltare chi non vuole incassare i 37 miliardi del Mes: la sanità (cioè i cittadini italiani) ne ha bisogno. Occorre subito porre mano a una riorganizzazione del Servizio sanitario su base davvero nazionale: stabilire i livelli di assistenza non basta; le diverse parti del Servizio debbono esser obbligate a cooperare. Ciò richiede anche l’abbandono dell’atteggiamento sovranista dei diversi presidenti regionali. Ora la lunga sequenza delle indagini penali, lo stillicidio di notizie, le reazioni che queste susciteranno nell’opinione pubblica non saranno il contesto migliore per un serio e concreto riformismo, alla Turati, quello di cui c’è bisogno.
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