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24 febbraio 2022 - 24 febbraio 2023

Mosca, un anno nel silenzio

Micol Flammini

La malattia dei russi che per la maggior parte non si ribellano a Putin è la tendenza “a cadere fuori dal tempo”, ci dice lo scrittore Michail Šiškin, a vivere nel passato e difendere la propria tribù. Per l’Ucraina un futuro ci sarà, ma per la Russia no

Il poeta russo Aleksandr Puškin chiude il suo “Boris Gadunov” con due parole: narod bezmolvctvuet, il popolo tace. Il silenzio è la condanna, la colpa e il rifugio dei cittadini russi, e non è mai stato tanto armato come dall’inizio dell’attacco di Mosca contro l’Ucraina. E’ trascorso un anno e il popolo ancora tace, nonostante la promessa del Cremlino che la guerra non avrebbe toccato i russi sia stata infranta: i soldati caduti al fronte sono più di centomila e con la mobilitazione, il conflitto è entrato in casa, ha strappato i mariti dalle mogli, i figli dalle madri e li ha mandati dritti nelle trincee del Donbas

 

“Ho visto un video terribile su un canale telegram – racconta al Foglio lo scrittore russo Michail Šiškin – una donna viene a sapere che suo figlio è morto in Ucraina. Inizia a piangere, a urlare, ma non grida contro Putin che ha ucciso suo figlio, ma contro gli ucraini”. Šiškin ha lasciato la Russia da tempo, vive in Svizzera e il suo ultimo libro edito in Italia da 21lettere si intitola “Russki mir”, come l’ideologia nel nome della quale Putin ha iniziato la guerra. L’espressione vuol dire “mondo russo” e bisogna guardarlo da vicino questo universo, questa idea che pretende di giustificare ogni violenza, che rivolta la storia e presenta Mosca come la vittima eterna, che immerge la Russia in una bolla di silenzio mortifero. “Un anno fa, quando i carri armati russi si stavano muovendo verso Kyiv, il mondo intero si domandava perché non ci fossero proteste di massa contro la guerra, perché soltanto qualche solitario scendesse in piazza. L’assenza delle manifestazioni è stata attribuita alla paura, il silenzio per i russi è una strategia di sopravvivenza. Chi ha protestato è stato arrestato e così, in silenzio, i russi sono sopravvissuti per generazioni”. All’inizio dell’invasione la gente è rimasta “in silenzio” e quando in autunno è iniziata la mobilitazione i russi sono andati obbedienti a uccidere gli ucraini e a farsi uccidere, ci sono state alcune manifestazioni, poi arresti, poi, di nuovo, il silenzio. “C’è qualcosa di più profondo e spaventoso ed è legato all’uso che i dittatori fanno della parola patriottismo. Oggi i russi non capiscono che stanno difendendo il potere di una banda criminale al Cremlino, che ha preso l’intero paese in ostaggio e non ha nulla a che vedere con il patriottismo”.

 

C’è un peccato originale però, un punto preciso nella storia in cui l’evoluzione della democrazia russa si è interrotta: “Basta domandarsi come sarebbe la Germania moderna se dopo la Seconda guerra mondiale non ci fosse stato il processo di Norimberga e se la Gestapo si fosse assunta il compito di costruire la democrazia nel paese. Questo è esattamente quello che è successo in Russia dopo il crollo dell’Urss: non c’è stata destalinizzazione, nessun processo contro il Partito comunista dell’Unione sovietica e agenti del Kgb come Putin si sono messi a costruire le nuove istituzioni del paese”. La Russia è malata e non è Putin la sua malattia, il presidente russo è uno dei sintomi, il più vistoso e pericoloso: “La principale malattia di Mosca è la tendenza a cadere fuori dal tempo. La maggior parte dei russi vive nel passato e come una società tribale crede che la sua tribù abbia sempre ragione e sono le altre tribù che vogliono distruggerci, sono nemiche. La tribù russa pensa: noi non ci assumiamo nessuna responsabilità, non decidiamo nulla, è il capo, il khan, il re che decide”. I problemi con la Russia si risolveranno quando troveremo il modo di rispondere a questa domanda: “Come facciamo a rendere i russi responsabili del bene e del male che compiono, come facciamo affinché si rendano conto che loro stessi adesso sono i fascisti?”. La tribù rimane appesa al proprio capo fino a quando scopre che non è un vero zar, ma un impostore. “Il capo dimostra di non essere un impostore sconfiggendo i nemici. Per questo, agli occhi della popolazione, Stalin, che era al potere durante la Seconda guerra mondiale, è ancora il vero zar e Gorbaciov, che ha perso la guerra fredda, è uno spregevole impostore. Putin ha guadagnato legittimità sconfiggendo la Cecenia e annettendo la Crimea. Aveva bisogno di nuove vittorie e non le sta ottenendo, sta perdendo la guerra in Ucraina e c’è chi grida al tradimento, all’impostore”. 

 

Queste voci vengono da quella che si definisce l’“opposizione patriottica”, che si agita su Telegram, che è favorevole alla guerra, ma ne vorrebbe di più. Poi c’è l’altra opposizione, quella contraria alla guerra, ma è in prigione, solitaria, e sembra, dice Šiškin, che in questo momento non abbia un paese a cui parlare. “L’Ucraina avrà un futuro, ma mi chiedo se la Russia lo avrà. L’Ucraina avrà una strada da seguire, alla porta della Russia stanno bussando nuovi tumulti. Ci vorrebbero delle elezioni, ma chi si occuperà del fatto che devono essere trasparenti ed eque? E chi realizzerà le riforme? Chi perseguirà e giudicherà i crimini di guerra di chi ha lanciato e sostenuto l’attacco contro l’Ucraina? I criminali di guerra si metteranno forse in prigione da soli? La Cecenia si sfilerà dalla federazione? Altre repubbliche la seguiranno?”. L’elenco delle domande di Šiškin è interminabile, ma la più assillante riguarda la popolazione, e sembra suggerire un solo modo per curarla dal suo stesso male: il crollo dell’ultimo impero. “Un passo doloroso ma necessario, senza il quale è impossibile costruire una società democratica. La coscienza russa deve imparare ad accettare che potrebbero esserci diversi paesi che parlano russo e non devono per forza dipendere da Mosca e soprattutto deve capire che è possibile vivere senza uno zar”. Democrazia per qualcuno in Russia è sinonimo di caos, è stata screditata in fretta dopo la fine dell’Urss: “Abbiamo dimenticato tante parole meravigliose: repubblica, costituzione, elezioni”. La paura di Šiškin è che intrappolata nelle sue stesse paure, poco avvezza a correggere gli errori, la Russia si troverà sempre allo stesso punto e di fronte al bivio, sceglierà ancora una volta il regime, che si venderà come garanzia di stabilità. “Le dittature non arrivano con il dittatore, ma con il bisogno di ordine del popolo e in Russia c’è una memoria genetica che porta a credere che il potere, anche quello più disgustoso, sia meglio del caos. Nella Russia di Putin le persone hanno smesso di controllare le azioni delle autorità, le persone sanno cosa vuol dire essere controllate, ma non cosa voglia dire controllare”. 

 

Lo scrittore teme che la Russia ricada in se stessa anche quando questa guerra finirà e il paese dovrà ricostituirsi e teme anche che l’occidente abbocchi a un nuovo Putin. Parla dei russi come di un popolo perduto e incorreggibile, bisognoso di forza, riluttante alla responsabilità. Un popolo bambino, impaurito e violento. Lui ha preso la strada della lontananza, come altri dissidenti che non sostengono il regime, una diaspora piccola che cerca di ricostruire legami con le democrazie e che desidera un’altra Russia. “Tutto ciò che è russo oggi è sotto tiro, e il bersaglio non viene scelto con precisione. Cento anni fa, per le strade dell’Europa, gli emigrati non si vergognavano di parlare russo, chi era fuggito da Mosca aveva perso la guerra civile ma almeno aveva combattuto. Oggi tutti i russi sono stigmatizzati, anche i ‘buoni russi’ perché sapevano tutto e non lo hanno impedito. Una macchia di vergogna, anzi di sangue, è caduta su tutto il paese. La Russia ha smesso di essere associata alla cultura, ma alle bombe. L’unico modo per far sopravvivere la letteratura, la musica, il teatro russi è aiutando l’Ucraina a vincere. Fino a quando Kyiv non avrà vinto, noi russi non avremo alcun diritto né su Puškin, né su Tolstoj, né su Čajkovskij o su Rachmaninov”. Dice Šiškin che nella guerra civile tra le due Russie, quella che spera in un paese democratico e quella che cerca il pugno di ferro, finora ha sempre perso la prima e davanti a sé questa nazione di dissidenti si è trovata soltanto tre strade: la prigione, il silenzio o l’emigrazione. “Ora siamo di nuovo perduti”. 

 

Sono infinite e dolorose le domande che si pone lo scrittore, le pone a se stesso, all’altra Russia e a noi. “Tutto deve essere definito di nuovo, tutto ha bisogno di nuove spiegazioni. Per tutta la vita ho sentito sempre di avere una base solida a sostenermi: la cultura russa. Ma ora mi chiedo: cos’è la cultura russa se è possibile Bucha? Cos’è la Russia: la mia amata patria o un maniaco omicida? Chi sono i russi? Una nazione che parla russo? Ma il russo è parlato sia da coloro che sono contrari alla guerra sia da coloro che uccidono gli ucraini. Parliamo la stessa lingua, ma non riusciamo a capirci”.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.