(foto Ap)

24 febbraio 2022 - 24 febbraio 2023

Con l'Ucraina siamo tutti più forti

Vittorio Emanuele Parsi

L’opposizione tra democrazie e dispotismi è il dato strutturale del prossimo decennio che Putin, da gigantesco criminale che è, ci ha spalancato davanti. Non c’è alcun status quo al quale tornare, con buona pace dei realisti

Un 11 settembre lungo un anno intero. Come fece l’11 settembre 2001, così il 24 febbraio 2022 ci costringe a confrontarci con l’impensabile, un evento che sconvolge non solo l’ordinaria vita del sistema politico internazionale, ma anche le nostre vite, di cittadini e cittadine delle democrazie, posti di fronte a quanto, per un tempo lunghissimo, avevamo rimosso. E ci obbliga a schierarci, a prendere parte e a prendere le parti dell’aggredito di fronte alla brutalità selvaggia dell’aggressore, ad assumerci le nostre responsabilità, consapevoli – al di là delle furbizie e delle meschinità, delle viltà e degli opportunismi, delle legittime paure e degli illegittimi tradimenti – che il nostro agire o non agire, la tempestività o la studiata lentezza delle nostre azioni, produrranno comunque conseguenze di cui pagheremo il prezzo. Non esistono scelte che non comportano rischi e neppure che non implicano prezzi da pagare. Tanto la pusillanimità quanto l’audacia costano, ma è quello che sono in grado di acquistare che non ha paralleli: la servitù la prima, la libertà la seconda.

Analogie e differenze con l’11 settembre

Come nel caso dell’11 settembre ci ritroviamo a dover subire un attacco vigliacco e assassino, che mentre ci strappa alla nostra convinzione che la guerra d’aggressione tra Stati riguardasse – almeno qui, in Europa – un passato sempre più lontano, ci interroga sul “che fare?”. Come reagire di fronte a chi sceglie deliberatamente di seminare morte e distruzione, non per mire “geopolitiche” ma al solo scopo di consolidare il potere personale di un despota sul fradicio sistema politico russo e sul suo popolo passivo e mitridizzato? Assistiamo sgomenti al raccapricciante sacrificio umano per divinizzare se stesso ordinato da Vladimir Putin,  da colui che, per troppo tempo, è stato considerato un “grande statista” e non il gigantesco criminale che invece è.

Più dell’11 settembre 2001 questa guerra rappresenta nella sua interezza un crimine contro l’umanità e un atto terroristico continuato. Nei lunghi anni di involuzione della Federazione Russa, sotto la morsa sempre più stretta di Putin, nessun disordine, nessuna guerra, nessun bombardamento ha mai colpito il popolo russo. La scelta dell’aggressione è stata fatta a sangue freddo, con cinismo raggelante, leggendo – male, anzi malissimo – una serie di segnali sulla debolezza, il declino e l’ignavia dell’Occidente: dall’irrisolutezza mostrata dalle due amministrazioni Obama nel Levante alla viltà e all’opportunismo europei dopo l’occupazione della Crimea nel 2014, dalla corruzione narcisistica, etica e politica dell’amministrazione Trump alle modalità disordinate con cui l’amministrazione Biden ha concluso la necessaria e dolorosa ritirata dall’Afghanistan, dal cambio di leadership in Germania, alle crisi politiche, istituzionali e costituzionali che hanno riguardato Italia e Francia, Spagna, Polonia e Ungheria, dalla Brexit all’avventurismo turco, dal Covid alla crisi delle materie prime, alla minaccia di recessione e alla ripresa dell’inflazione.

 

Come avvenne con l’11 settembre 2001, anche dopo il 24 febbraio 2022 non esiste nessuno “status quo ante” al quale illudersi di poter tornare. L’opposizione tra le democrazie e i dispotismi costituisce il dato strutturale del decennio di ferro che Putin ha spalancato davanti a noi, ricordandoci, con la sua hubris, che anche in politica internazionale esistono attori per i quali il potere rappresenta un fine concluso, senza alcuna strumentalità verso altri e più complessivi obiettivi. Che il potere politico sia uno strumento per conseguire e consentire il godimento di altri e più “privati” beni è una peculiarità dei regimi liberal-democratici, non una caratteristica universale della politica. Prima le democrazie lo metabolizzano, e acconciano le loro decisioni a una tale evidenza, prima ridurranno la propria vulnerabilità. E’ un discorso che vale per la Russia putiniana, ma anche per l’Iran dei funerei ayatollah e – temo – sempre più rischia di valere anche per la Cina di Xi.

 

Evidentemente ci sono differenze tra l’11 settembre 2001 e il 24 febbraio 2022. In quel caso si trattava del più spettacolare e inedito atto di guerra compiuto da un soggetto privato contro la superpotenza solitaria e i suoi abitanti. In questo caso siamo di fronte alla riedizione delle pratiche antiche e violente con cui le grandi potenze regolavano i rapporti con i propri vicini fino al 1914, prassi peraltro messe fuori legge una prima volta nel 1919 e una seconda nel 1945. 

Bin Laden ha cercato e ottenuto la massima spettacolarizzazione affinché le sue intenzioni potessero rifulgere sul tetro scenario del crollo delle Torri Gemelle. Putin ha scelto e continua a praticare la menzogna sistematica per meglio riuscire ad avvelenare i pozzi della verità, per consentire alle sue quinte colonne, ai suoi cantori prezzolati e ai finti ingenui di attingere alle sue fake news, così alimentando e amplificando la sua propaganda. Il primo ha rappresentato la dichiarazione di guerra al mondo da parte di un’organizzazione che non aveva sottoscritto nessun trattato internazionale e che era nemica tanto dell’assetto di potere internazionale quanto della forma istituzionalizzata che dava forma e limiti a quel potere. Nel secondo caso, a dichiarare guerra al sistema internazionale, tanto nella sua componente gerarchica (la leadership occidentale) quanto in quella istituzionale (le norme della Carta dell’Onu, il trattato di garanzia dei confini ucraini sottoscritto da Mosca nel 1994 in cambio della consegna delle testate nucleari e dei loro vettori da parte di Kyiv), è uno stato, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, uno dei “cinque grandi”, ovvero un guardiano e garante di quell’assetto istituzionale. Tutto ciò, sommato al fatto che la Russia è una potenza nucleare – che oltretutto ostenta l’opzione di un impiego offensivo di armi nucleari per riuscire a conseguire sul terreno quegli obiettivi che in altri modi non riesce a cogliere e per spaventare le nostre opinioni pubbliche – fa sì che la minaccia posta dalla Russia di Putin sia ben più grave di quella di Osama bin Laden.

 

Certo, quest’ultima questione può essere difficile da cogliere, per il motivo che l’offensiva jahdista aveva dichiaratamente “noi”, l’Occidente, tra i suoi target (secondari, in realtà, considerando che i suoi obiettivi primari erano e restano gli Stati e le società dove l’Islam è la religione maggioritaria) e per il fatto che dall’11 settembre in poi, molti e clamorosi sono stati gli attentati compiuti nelle “nostre strade” (da Londra a Parigi, da Madrid a Nizza, da Berlino a Bruxelles). Qui l’attacco è indiretto e diluito, perché i morti e le distruzioni sono “circoscritti” all’Ucraina: un paese che dall’inizio del millennio aveva intrapreso un complesso e contrastato processo di avvicinamento politico, economico e istituzionale all’Occidente, sabotato ripetutamente e con ricorrente e crescente violenza dal Cremlino. Nel frattempo, gli effetti devastanti per l’intero ordine internazionale sono cumulativi, instillati goccia a goccia, come un veleno letale, in ogni giorno di questo anno di orrore.  In realtà, mentre il jahdismo non è mai stato in grado di rappresentare un’effettiva minaccia esistenziale – capace di metterne a rischio la sopravvivenza – per le nostre società, il nostro modo di vivere e la nostra libertà, la guerra di Putin invece rappresenta, eccome, una minaccia di tale portata. E sottolinea impietosamente l’errore di aver continuato a prepararci a combattere le “guerre di ieri” – quelle contro insorgenti privi di armai pesanti, da contrastare con formazioni militari leggere, in grado di essere proiettate e ritirate rapidamente – invece della guerra di oggi – quella contro forze corazzate e missilistiche di peso e livello tecnologico decisamente superiori.

Si vis pacem para bellum

Occorre intendersi sull’espressione “combattere una guerra”. Essere attrezzati per combattere una guerra simile a quella che Putin ha scatenato contro l’Ucraina e l’Occidente democratico, non comporta la decisione di scendere in guerra. Implica invece la possibilità di avere una forza militare sufficientemente credibile per esercitare la deterrenza, che resta la funzione principale alla quale le democrazie destinano lo strumento militare. Certo, ora la guerra è in corso e questo – per gli Ucraini innanzitutto ma anche per noi – fa una bella differenza. Ma mentre ci sprona a effettuare tutte quelle azioni che risultano decisive affinché l’aggressore non possa conseguire il suo obiettivo – ovvero continuare a rifornire di armi l’esercito ucraino così che “il crimine non paghi” – dobbiamo anche, e molto rapidamente, attrezzarci perché a guerra conclusa la nostra capacità di deterrenza sia maggiore. I tanti sostenitori della via negoziale come alternativa a quella del sostegno militare all’Ucraina non capiscono (o fingono di non capire) non solo che la via negoziale è determinata nei suoi contenuti dagli esiti del campo di battaglia ma anche che la fine della guerra non sarà seguita da un disarmo generalizzato, ma esattamente dal suo opposto. A meno che invece di un armistizio non si giunga a una pace che comporti la totale sconfitta della Russia, la defenestrazione di Putin e il crollo o un radicale cambio del regime: tutte ipotesi al momento piuttosto improbabili.

 

In questo senso, almeno fino a quando la Russia (e in maniera diversa anche la Cina o l’Iran) resterà un dispotismo, la guerra dovrà essere ripensata all’interno delle democrazie. Ripeto, non per farla tornare a essere, antistoricamente e immoralmente, una procedura ordinaria con la quale modificare uno status quo insoddisfacente, annettersi porzioni di terra, cittadini e risorse altrui e cambiare con la violenza il destino degli altri popoli (cioè quello che Putin sta facendo in Ucraina) ma per non essere impreparati alle minacce poste dai dispotismi alle democrazie, per poter deterrere e rintuzzare l’azione dei bulli a livello internazionale. Nel pensiero e nell’agire delle democrazie, per quanto attiene alle loro relazioni reciproche, la guerra era stata semplicemente espunta. E così deve continuare a essere. Non ci può essere un posto della guerra nei rapporti di quelle comunità che condividono istituzioni democratiche rappresentative, economie di mercato e società aperte. Anche il grave conflitto in corso da un anno ci riconferma che le democrazie riescono a non farsi la guerra perché riescono a percepirsi reciprocamente non minacciose, anche quando le tensioni tra loro si fanno forti e la competizione possa rasentare la temporanea ostilità. Ma questa guerra ci conferma anche che la pace passa attraverso la democrazia e non viceversa, per cui fintanto che ci saranno dispotismi, le democrazie saranno sempre esposte alla potenziale minaccia di aggressione da parte delle non-democrazie e dovranno essere in grado di difendersi.

L’interdipendenza dei sistemi economici alza il costo della rottura provocata dalla guerra, ma non la rende impossibile

La guerra di Putin in Ucraina ci mette davanti a un dato fattuale che è la rottura di quasi ottant’anni di pace in Europa, e a uno concettuale che è la fine dell’illusione che l’espansione del capitalismo costituisse un sostituto funzionale della diffusione della democrazia per garantire la pace e la sicurezza del sistema internazionale. Quello che abbiamo visto con la guerra in Ucraina è che l’espansione del capitalismo e l’interdipendenza dei sistemi economici alza il costo della rottura provocata dalla guerra, ma non la rende impossibile. 

 

La conferma di un tale ammaestramento avrà conseguenze innanzitutto per l’Europa. Se l’Europa avesse avuto una sua credibile e autonoma capacità militare e gli strumenti politici per poterla mobilitare in caso di minaccia ai suoi confini, l’equazione di Putin avrebbe dovuto fare i conti con una variabile in più molto significativa. Dotarsi di uno strumento militare in grado di deterrere e difendere autonomamente l’Unione e i suoi Stati membri non implica per nulla l’ipotesi del decoupling rispetto agli Stati Uniti e alla Nato. Nel caso della guerra ucraina europei e americani condividono l’interesse a respingere l’aggressione russa e il fatto che la guerra costi oggettivamente molto di più alle economie europee rispetto a quella americana non fa venire meno questo dato di fatto, con buona pace dei marxisti alla matriciana del dibattito pubblico italiano, che sono semplicisticamente convinti che quelle economiche siano sempre e comunque le sole cause o le motivazioni esclusive di tutte le guerre. Il punto è che fin quando chiunque voglia minacciare l’Europa sa che la sicurezza di quest’ultima dipende sempre e solo dallo scudo offerto dall’alleato americano, quindi dalle decisioni degli USA, sa anche che deve solo considerare l’eventuale reazione di Washington e a un’aggressione, restando agli europei la sola scelta se allinearsi con gli Stati Uniti o suicidarsi. Un’Europa capace di difendersi anche da sola, potrebbe invece esercitare una deterrenza persino qualora l’America non ritenesse di frapporsi a un’azione offensiva russa nel vicinato dell’Unione. Nel 2014 l’Ucraina fu aggredita perché voleva avvicinarsi alla Ue, non alla NATO. Come sarebbero andate le cose se Putin avesse dovuto inserire nel suo calcolo le reazioni di un’Europa in grado di prestare assistenza autonoma all’Ucraina, o la prospettiva che truppe dell’Unione entrassero in Ucraina, non per combattere contro i russi, ma per stabilizzare la linea armistiziale e offrire protezione alla cittadinanza di quel Paese, a prescindere dall’atteggiamento americano, eppure sempre potendo contare sull’ombrello atomico USA come garanzia di ultima istanza? 

Le istituzioni, le idee e le modalità di esercizio del potere contano e fanno la differenza.

Mantenere il sistema politico internazionale un posto sicuro per le democrazie comporta necessariamente un costo. Proprio come esiste una valutazione di impatto ambientale che accettiamo faccia parte del calcolo economico in quanto principio per la difesa dell’ambiente, nel mondo post-24 febbraio dobbiamo imparare a valutare il costo della cooperazione con sistemi non democratici in termini di possibile ‘avvelenamento’ dell’ambiente politico internazionale. In questo caso il rischio non è che si possa creare un ambiente ostile alla sopravvivenza della specie umana, ma uno ostile alla sopravvivenza della “specie democratica”. Per noi europei, che viviamo sulla faglia dove le placche tettoniche dei dispotismi e delle democrazie cozzano ripetutamente, l’acquisizione di una simile consapevolezza è una questione vitale e non aggirabile. Con buona pace di quel realismo sciatto così diffuso nel nostro dibattito pubblico, “è pericoloso atteggiarsi a Machiavelli senza possederne la virtù”. Il regime politico interno, i principi e i valori sui quali si fonda, la statura intellettuale ed etica dei decisori e i mezzi con cui anche i medesimi fini possono essere perseguiti sono tutte cose che devono essere valutate da un’analisi realistica della politica internazionale e fanno la differenza tra civiltà e barbarie.

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