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In acqua straniera, la mia ombra: Ingeborg Bachmann a Roma

Andrea Venanzoni

Il rapporto con la città eterna della poetessa, cantrice della capitale. Un perenne carnevale dei sensi e della miseria, della grandezza e di una quiete irrisolta

Quei marmi, come rifugio dell’anima. In ogni verso, in ogni sua riga di prosa c’è il senso di uno smarrimento, di una deriva così centrata da trascendere ogni singola barriera e da rendersi fascio di luce e di ombra.  In questo tramonto, poco lontano da via Giulia, tra petali cremisi di ultime speranze, la poetessa Ingeborg Bachmann contempla ciò che è stato. Ha già vissuto a Roma, lungamente. Negli anni cinquanta. Corrispondente d’eccezione per giornali tedeschi e per la radio di Brema.  Appassionata e disincantata al tempo stesso cantrice di questa città, mutila e spiritualmente ancora aperta, annerita dalla foschia della guerra. Con analitica dovizia, passa in rassegna gli eventi e gli avvenimenti più rilevanti. Rilevanti, sia ben inteso, per la sua cristallina sensibilità.  La cronaca nera che già in quei proto-albori della società dello spettacolo impestava e squassava le viscere del popolino, col delitto Montesi e la salma annegata, così plastica, così armonica, fotografata sulla sabbia di Torvaianica, in un gemellaggio postumo con la posa funebre di Sylvia Plath. Il corpo proteso in avanti, le gambe parallele, quasi marziali, e la girandola stordente delle indagini, i nomi illustri e altisonanti caduti dentro e poi di volta in volta usciti.  Il caldo, rarefatto, la linea azzurra d’orizzonte, e le dune di macchia mediterranea in uno spazio malarico, due uomini fissano un piccolo crocifisso malmesso, di canne intrecciate, infisso nel ventre ocra della sabbia. “L’aria è afosa, /schiuma la luce di acidi e fermenti, / grava sulla palude nero il velo di zanzare”. L’orgia carnografica di nomi rutilanti, caleidoscopio di esistenze irrisolte che nel caos cercano la propria conformazione e la propria icona traslucida.  Politica, narcisismo, figli di una Roma bene, sessualità deviate e sadiane, la spiaggia, sempre, con i suoi ricordi di risacca e di brezza profumata di salsedine e una nobiltà falsata che pure, nella giovanissima Repubblica, ancora lasciava vanto del proprio passaggio. La Roma della Bachmann è un perenne carnevale dei sensi e della miseria, della grandezza e di una quiete irrisolta. Caotica, vociante, frizzante, colma di gelidi silenzi, questa Roma, su cui lo sguardo della poetessa si appunta con divertita ed emozionante partecipazione, è un laboratorio di osservazione, un campo largo che si apre sull’Italia intera e sull’Europa.

Le catastrofi che squassano la Campania, la dolce vita capitolina, l’espansione tentacolare della mafia che dal profondo Sud inizia a mettere radici sempre più evidenti nel cuore della Capitale, lambendo, e più che solo lambendo, la vita politica, il moralismo nel partito comunista, tra scappatelle familiari di bordello e le conseguenti purghe burocratiche. Mascherandosi dietro lo pseudonimo Ruth Keller, la Bachmann percorre in lungo e in largo il brulicare intenso di vita in una città in cui tutte le identità si rendono una cosa sola con quelle statue e quei lineamenti porosi di chiese e rovine e lavori industriali che cercano di condurre ad un ammodernamento infrastrutturale, Termini, la metro B, patetica nella sua scarsità di corse e nel suo sferragliare, di un agglomerato che respinge, per suo stesso statuto costitutivo, qualunque ipotesi di modernità. Gli scritti “romani” della Bachmann sono stati raccolti e pubblicati dalla Quodlibet nel volume “Quel che ho visto e udito a Roma”, originariamente uscito nel 2002 e che poi ha conosciuto ulteriori edizioni riviste e aggiornate nel 2013 e nel 2022.

Uno spaccato rilevante, cronachistico ma delizioso nella forma e nella prosa usata, e purissima biografia di una autrice, autentica donna europea, che giunta in Italia per amore vi rimase sublimando l’amore per un uomo in amore per l’eternità. Dagli anni sessanta, infatti, la Bachmann si trasferì definitivamente a vivere nella Città eterna. E qui, nella sua casa di via Giulia, nel 1973, assopita in una alchimia di sofferenza e di frammenti di memoria, si farà letteralmente fiamma, nello strazio che sempre è divisa araldica di ogni vero poeta. “Su una terra straniera / tra rose e ombre/in un’acqua straniera / la mia ombra”.

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