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Roma Capoccia

Un secolo di Cristina Campo

Andrea Venanzoni

Il 29 aprile ricorranno i 100 anni dalla nascita della scrittrice e poetessa, un ricordo vivido di raffinatezza e sensibilità letteraria

“L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero”. Risalendo lungo il costato dell’Aventino, fino al quadrato di edifici liberty conosciuto come piazza Sant’Anselmo, è inevitabile pensare a quanto Cristina Campo scrisse in “Attenzione e poesia”. E nel contrasto tra una Roma brulicante, dimentica di ogni attenzione, e questo verdeggiante sentiero di fiaba, ribolle il ricordo della lucente intensità di una figura, ‘trappista della perfezione’ come ebbe a definirla Guido Ceronetti, che non fu contro la realtà, ma solo contro il gramo spirito del tempo. “Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba”. Il 29 aprile ricorrono esattamente cento anni dalla sua nascita

 

Vittoria Guerrini nacque infatti il 29 aprile del 1923 a Bologna e assunse poi l’eteronimo Cristina Campo; nel nome della sua dolcissima amica Anna Cavalletti, piccola poetessa di sublime sensibilità perita, giovanissima, nel bombardamento alleato di Firenze del settembre 1943. Parte degli struggenti diari della Cavalletti sono stati pubblicati in “L’esatta divisione dell’aria” dalle Edizioni Cenere, che dal 29 aprile daranno vita a un percorso editoriale campiano. Cristina si trasferì a Roma, seguendo madre e padre, nel 1955, dopo quegli anni felici a Firenze che possiamo ammirare nel volume “Il mio pensiero non vi lascia” (Adelphi). A Roma visse, per ventidue anni di una vita purtroppo composta di soli cinquantatré. Un periodo denso, e dopo la morte dei genitori sofferto e a tratti straziante, come emerge da alcune lettere a Maria Zambrano e in quella ultima, lancinante lettera a Mita, del 4 dicembre 1975, da cui traspare il “rigetto di questa città ormai maledetta”. Figura in margine, aristocraticamente discreta ma del pari abbagliante in una bellezza poetica di raro spessore, e attorno cui vorticarono alcune tra le maggiori personalità del mondo culturale dell’epoca.

 

“Intellettuale cara ad Adelphi” la definisce Anna Ferrando in “Adelphi” (Carocci), e in certa misura fu madrina spirituale della casa editrice. Scrisse poco, “e le sarebbe piaciuto scriver ancora meno”. Fu scrittrice e poetessa, nel senso precisato da Guido Ceronetti; scrisse come certi artisti orientali dipingono, come certi anacoreti si inabissano nelle cavità del deserto - non predicando il silenzio, ma praticando il silenzio. Fiaba e poesia, traduzioni e lettere la rendono una personalità unica, portatrice di vocazione alla perfezione - di quella sprezzatura vissuta come intransigenza nel superare il compiacimento verso sé.

 

Chiunque abbia letto “Il flauto e il tappeto” (edito da Rusconi nel 1971, e oggi presente nel volume ‘Gli imperdonabili’, Adelphi), le sublimi poesie e le sue traduzioni da Williams, Weil, Donne, Hofmannsthal, Mörike, Eliot raccolte nell’evocativo La Tigre Assenza (Adelphi), l’intensità abbacinante dei suoi rigogliosi e vitali carteggi, ne è nato nuovo a sé. Cristina Campo fu figura enorme, per gioiosa e perfetta raffinatezza, per gentilezza d’animo feudale, per stile, per il nitore di smalti e arazzi che traboccano da parole cesellate con arte orafa - per i suoi versi sempre acuti, sempre incandescenti. “Aveva il dono di restringere il campo del presente…e di aprire finestre su paesaggi lontani”, ha scritto Alessandro Spina.

 

Cristina Campo fu bella. Bella come un silenzio. I suoi pensieri, splendidi. Pensieri che fecero aprire quella finestra sul nulla che Andrea Emo per trentottomila pagine, le trentottomila pagine de “I quaderni di metafisica”, aveva tenuto serrata – Cristina vi entrò dentro con grazia e luce di pleroma. “E’ morta, Cristina Campo è morta”, annotò su pagina di quadernetto il filosofo. Unico nome del tempo a lui coevo, in quel flusso di riflessioni - laconico ma potentissimo simbolo di consonanza filosofica e di vera amicizia. Generosa, come ricorda Cristina De Stefano nella sua bella biografia “Belinda e il Mostro” (Adelphi), oltre ogni dire. Soccorreva gli ultimi, viandanti, malati, infermi, li portava persino in casa per sfamarli, interessava medici per curarli. A piazza Sant’Anselmo, nella brezza del mattino, echeggia ancora il canto della sua voce d’argento che nei suoi cento anni la annuncia viva ed eterna - come ogni vero poeta. “E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura”.

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