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Quando il Pd “torna in periferia”

Marianna Rizzini

Un riflesso condizionato che può non essere la soluzione ai mali: “È la prima tappa di un grande progetto nazionale che io avevo promesso per riportare la presenza dei democratici nelle periferie", ha detto Zingaretti

Roma. “Torniamo in periferia per restarci”, ha detto il segretario del Pd e presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, riaprendo la sezione di Casal Bruciato, il quartiere che era stato teatro, dieci giorni prima, di una rivolta popolare (con CasaPound in prima fila), in seguito all’assegnazione di una casa a una famiglia rom. Dice che non è uno spot, Zingaretti, che vorrebbe anche spostare la sede del partito dal centro alla Tiburtina: “E’ solo l’inizio, ed è la prima tappa di un grande progetto nazionale che io avevo promesso per riportare la presenza dei democratici nelle periferie… non quando c’è l’evento drammatico, ma 365 giorni l’anno”.

 

E però finora, in questi anni non trionfali per il centrosinistra romano e nazionale, la trasferta democratica in periferia è sembrata proprio questo: un riflesso condizionato e un rito catartico, quando non un inseguimento momentaneo dell’indignazione generica anti-élite, quando l’evento drammatico, appunto, è piovuto sulla testa. E’ successo nell’inverno del 2014, all’esplosione di Mafia Capitale, quando l’allora commissario del pd renziano Matteo Orfini aveva prefigurato la resurrezione dalle ceneri al Laurentino 38: “Un partito non può funzionare così, deve essere raso al suolo e ricostruito. Nel Pd dobbiamo tornare a fare politica, anche a prendersi grida e insulti”, aveva detto il solitamente compassato Orfini in piedi su una sedia, arringando la folla. Erano i giorni dell’annunciata “mappatura dei circoli” (con Fabrizio Barca), ed erano anche i giorni in cui, nel Pd, a dispetto dell’unanimità apparente, c’era chi si predisponeva a organizzare la futura defenestrazione di Ignazio Marino. Le periferie come luogo retorico dell’emergenza si inabissavano per fare posto alla polemica interna (e ohimè, nel 2016, veniva eletto non un altro sindaco pd, ma la grillina Virginia Raggi).

 

Alla vigilia delle elezioni politiche 2018, toccava sempre a Orfini il cerino della periferia (stavolta Tor Bella Monaca: “Non è la location di uno spot elettorale”, diceva l’allora presidente del Pd che un mese fa, a Torre Maura, parlava di una “Roma decadente e rabbiosa” che “è anche figlia nostra”). E, dopo la sconfitta del 4 marzo 2018, era il Maurizio Martina neosegretario a convocare la sua prima segreteria “simbolica” a Tor Bella Monaca. Intanto il Pd, a Roma, moltiplicava gli accenni alla “legalità” – anche partecipando ai “caffè della legalità”.

 

Legalità: altra parola che, come “periferia”, è considerata spesso (automaticamente?) catartica. Sarà vero? C’è chi pensa che sarebbe meglio, oltre che alle Europee di domenica, prepararsi alla futura campagna elettorale per il sindaco: e la periferia, tirata fuori dal cappello come sporadico aglio contro il vampiro delle folle inferocite, a questo punto potrebbe non bastare.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.