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L'incredibile sorpasso del Pd. Morto ovunque tranne che nel Lazio

Valerio Valentini

Alle regionali la corazzata pentagrillina arriva seconda, 10.000 voti indietro. Rimpalli tra Raggi e Lombardi

Roma. Un parlamentare del Movimento sbuffa innervosito: “Ma che è, oh? Co’ tutti ‘sti ‘effetti’, sembra che siamo tutti contagiati da Pizzarotti”. E forse non avrebbe tutti i torti, nel prendersela col tic giornalistico ormai diffuso, se non fosse però che anche all’interno del M5S si ragiona, di fatto, seguendo la stessa semplificativa logica: da un lato l’“Effetto Raggi”, dall’altro l’“Effetto Lombardi”. E’ così che lo stato maggiore grillino, non solo romano, legge i risultati del doppio voto del 4 marzo. E a metterla giù nella maniera più diretta, candidamente cinica, ci pensa Daniele Frongia: “Siamo soddisfatti per il dato delle politiche e delusi per quello delle regionali”. Semplice, essenziale.

  

E’ il giudizio condiviso da tutti i vertici grillini, quello dell’assessore allo Sport della Capitale. E in effetti sforzandosi appena un po’ nella canonica prestidigitazione da post-voto, alla fine il risultato su Roma e provincia, per quanto riguarda il voto per il rinnovo dei parlamentari, Virginia Raggi può rivenderselo come un suo successo. Certo, lei la fa forse un po’ troppo facile, quando dice che “a Roma il M5S ha ottenuto un risultato importante, in crescita rispetto alle elezioni politiche del 2013”. Il paragone con quanto accaduto cinque anni fa, in effetti, è fin troppo lusinghiero: dal 27,3 a poco oltre il 30 per cento, prendendo il dato della Camera. Proponesse un paragone con le amministrative del giugno 2016, quelle che l’hanno vista conquistare il Campidoglio, la sindaca resterebbe forse un po’ delusa: al primo turno, allora, votarono per lei il 35,2 per cento dei romani: in termini assoluti, il M5S ha perso 75.000 preferenze. E però è indubbio: chi prospettava un “Effetto Raggi” sulle politiche, pensava a un tracollo: tocca dire, invece, che se le politiche dovevano essere un test, Virginia l’ha superato strappando una discreta sufficienza.

  

Specie se poi – e qui si viene all’altro, di “Effetto” – si raffronta la sua performance con quella di Roberta Lombardi. Raffronto impietoso, per la Faraona, che vede la sua lista fermarsi, nella Capitale, al 22 per cento. Ed è di poco conforto notare che le preferenze dirette, per lei, arrivano fino al 26,4. “Di laziali che ci dicevano che avrebbero votato per il Movimento alle politiche, ma per Zingaretti alle regionali, ne abbiamo incontrati parecchi durante questi mesi”, confessa una deputata pentastellata. A conti fatti, sono almeno 117.000, stando ai primi calcoli. La Lombardi non si arrende, di fronte a queste evidenze. Smania, sbuffa, dice chi ci ha parlato. Rivendica come un successo personale le oltre 275.000 preferenze in più che lei ha riscosso come candidata, rispetto alla lista del M5S. Ma è poca roba, come giustificazione per un insuccesso che è palese: al punto che, per quanto riguarda le regionali, a Roma il M5S risulta la seconda forza, staccato di quasi 10.000 voti dal Pd.

   

E allora ecco che si incrociano nuovamente, i destini altalenanti delle due prime donne romane del Movimento, in un tourbillon di cadute e risalite che stavolta vede ora Virginia guardare dall’alto in basso Roberta. Tanto che lo si vede tutto, quel fondo di perfidia in quel laconico “grazie” che la sindaca ha rivolto all’ex deputata, poco dopo che quest’ultima, preso atto della batosta, aveva annunciato il suo ritorno alle mansioni di mamma.

  

Ha sbagliato tanto, la Lombardi, in questo suo pasticciato approssimarsi al voto. Tanto, se non tutto. Proprio mentre la Raggi, dopo un travaglio che sembrava infinito, al Campidoglio, riusciva a trovare, se non altro, una piena sintonia coi vertici del Movimento. I quali, ad esempio, si sono stupiti di come Virginia abbia saputo pazientare nel gestire la grana di Adriano Meloni. “Fosse stato per lei – dicono i consiglieri comunali pentastellati – lo avrebbe rimosso due mesi fa, l’assessore allo Sviluppo economico”. E invece ha saputo aspettare, su consiglio di Di Maio, per evitare contraccolpi mediatici sul Movimento: la liquidazione arriverà a giorni, e a urne chiuse. E così, mentre una inattesa temperanza dominava la sindaca, e la faceva risalire nella considerazione di Casaleggio & Co., al contempo la Lombardi faceva sfoggio di somma scompostezza. “Sono stata lasciata sola”, si lamenta ora. Ma sola, le rispondono indirettamente i vertici del Movimento, è lei che è voluta restare. Con una campagna elettorale sbagliata, non solo nei toni, e mai davvero concordata coi vertici del Movimento. Gli emissari di Casaleggio la consigliavano, lei li snobbava rivendicando entrature dirette in via Morone. Quando decise di fare una mezza apertura a Sergio Pirozzi, Di Maio restò sbigottito. E non a caso non ci ha pensato neppure, ad accompagnarla in comizi ed eventi pubblici. E poi sui vaccini, immigrazione: tutte posizioni non concordate con la cerchia di quelli che contano. Resta, alla fine, la battuta che la senatrice di Genzano, Elena Fattori, si lasciò scappare quando la Lombardi protestò con Di Maio: “Non autorizzo – scrisse la Faraona al ‘gentile capo politico’ – alcun evento della campagna elettorale in cui sarà presente la senatrice”. E questa rispose, commentando coi suoi amici: “Ma chi te ce vòle?”.