“Ora basta, fate fallire subito Atac”. Parla Giavazzi

Luciano Capone

L'economista della Bocconi: “Se anche Rota molla, il concordato è inutile. Per tagliare il cordone clientelare non resta che il referendum”

Roma. “Atac delenda est”. Per liberare la città dall’esercito di dipendenti, dalle falangi sindacali e dal debito elefantiaco che tengono in ostaggio la città, secondo Francesco Giavazzi non ci sono alternative: “Atac deve fallire”. L’azienda capitolina dei trasporti, controllata dal Comune, è ormai al capolinea: ha un deficit strutturale di circa 100 milioni l’anno, un debito di 1 miliardo e 350 milioni, debiti nei confronti di fornitori – che hanno ormai interrotto il credito di carburante e pezzi di ricambio – per oltre 300 milioni, un parco mezzi vecchio e un servizio che funziona a singhiozzo. Bruno Rota, chiamato dall’Atm di Milano, ha detto che l’azienda è a un passo dal crac e ha gettato la spugna. Ora è stato nominato amministratore delegato Paolo Simioni, un amico personale dell’uomo inviato dalla Casaleggio Associati per gestire le partecipate di Roma, l’assessore Massimo Colomban.

 

E’ il nome giusto per attuare un piano industriale che garantisca sostenibilità ai conti dell’azienda? Chi può riformare l’Atac? “Nessuno”, dice al Foglio Francesco Giavazzi, economista della Bocconi: “Il punto non è trovare un manager capace, perché il vero problema è nel manico: finché l’azionista è il comune il problema non si risolve. In questi anni abbiamo visto vari controllori politici e di tutti i colori, di destra, di sinistra e ora del Movimento 5 stelle, e tutti hanno confermato l’incapacità o l’impossibilità di riformare le partecipate”. Più che il legame proprietario, è il cordone politico con l’azienda che impedisce una ristrutturazione? “I dipendenti sono tanti, 12 mila, sono una forza politica che blocca qualsiasi tentativo di efficientamento”. Come si taglia questo cordone? “Serve una soluzione drastica, e attualmente l’unica azione disponibile è i referendum dei Radicali che aprirebbe il mercato mettendo il servizio all’asta con una gara pubblica. Al comune non resterebbe che vendere l’Atac o liquidarla”.

 

E cosa succede? “Una nuova azienda o un nuovo azionista vince la gara e offre il servizio con una struttura dei costi e un modello di business sostenibili, molte delle risorse della vecchia azienda verrebbero recuperate”. E gli altri? “La cassa integrazione, come succede per le altre aziende, costerebbe certamente di meno che tenere l’Atac così com’è”. Non è proprio una strada semplice. Non si potrebbe percorrere, come ha suggerito anche l’ex dg Rota, la strada del concordato preventivo per evitare il fallimento? “Non è che quella è una soluzione indolore – dice Giavazzi – avverrebbe ciò che è accaduto in Alitalia, magari con degli amministratori che operano sotto la supervisione del tribunale. Ma in un’azienda in cui in realtà comandano i sindacati, non so come si fa”. Con un manager deciso. “Rota ci ha provato e non ci è riuscito. E lui è uno bravo, che all’Atm ha fatto molto bene”. E quindi, per superare i veti dei sindacati e i pressing politici non resta che il default? “Siamo in una situazione fuori controllo, l’unica soluzione è riconoscere il debito e metterla in liquidazione. Con il fallimento si cancellano tutti i contratti, arriva un nuovo azionista, magari svizzero o francese, che assume con contratti nuovi i lavoratori che servono, anche tra gli stessi dipendenti dell’Atac”.

 

Ma c’è un altro problema. Oltre che legati politicamente, il comune e l’Atac sono stretti in un abbraccio mortale dal punto di vista finanziario. Il comune vanta un credito da 500 milioni: se fallisce Atac, fallisce anche il comune. “Ma il punto è proprio questo – dice l’economista – Atac di fatto è già fallita. Come si fa a mettere a bilancio un credito verso un’azienda fallita? E’ meglio riconoscerlo. Tenere quel credito in bonis è un trucco, è inesigibile e dovrebbe essere svalutato. E’ un dato della realtà. Se Atac fallisse tutto sarebbe più chiaro, incluso per i cittadini”. Fallisce Atac e il bilancio comunale va in dissesto. Ci troveremo di nuovo alle prese con un Salva Roma? “Ritorniamo al peccato originale, il primo giorno del governo Renzi”. E perché? “Il giorno prima che Renzi giurasse al Quirinale venne di fatto bocciato il decreto legge che salvava Roma – ricorda Giavazzi – Renzi, senza averne alcuna responsabilità, si ritrovava così tra le mani la decisione del Parlamento di non coprire il debito della capitale e lasciarla fallire. Era lì, su un piatto d’argento, un’occasione politica che non ricapiterà così facile. Ma poi su pressione del Pd romano e dell’amministrazione decise di salvare Roma dai debiti. E ora siamo di nuovo allo stesso punto”. Resta il fatto che il fallimento non è una strada semplice, comporterà reazioni. “Certo, ci saranno proteste dei sindacati, magari anche scene di guerriglia urbana”. I cittadini rischierebbero di non trovare i mezzi pubblici. “Per un periodo ci sarebbero più disagi, ma non è che adesso siamo a Zurigo. La probabilità di trovare un mezzo pubblico già adesso non è altissima. I cittadini sono consapevoli che serve trasparenza: bisogna tirare una linea”. Non ci sono soluzioni migliori? “Deve fallire”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali