La manifestazione dei lavoratori Atac, Cotral e Tpl a Toma, lo scorso 16 giugno (foto LaPresse)

Il comportamento dei sindacati Atac è il sintomo della malattia dell'azienda

Giuseppe De Filippi

L’idea che tutto sia legato al potere politico locale e ai suoi addentellati ha svuotato di qualsiasi logica produttiva e perfino economica le relazioni industriali della municipalizzata

Ora non gli vanno bene neanche i grillini. I sindacati più combattivi (a volte con un tasso di aggressività inversamente proporzionale al numero degli iscritti) all’interno della scassata Atac hanno chiuso con l’idea di farsi spingere dal vento che cambiava grazie a Virginia Raggi. Hanno assistito un po’ sbigottiti, perfino loro che ne hanno viste abbastanza, ai repentini cambi di guida dell’azienda dei trasporti, e degli assessori competenti, e nello stesso tempo non hanno potuto registrare nessun cambio nella dirigenza e nel middle management, ovvero tra i loro principali bersagli polemici.

   

Insomma perfino i battaglieri frequentatori di Arene gilettiane e di qualunque altro spazio in cui si possa urlare contro le vergogne delle amministrazioni si cominciano a sentire stanchini. Hanno ingaggiato una lotta con Bruno Rota (in cui primeggiava la Faisa Confai di Claudio De Francesco, uno dei pochi a non aver mai ceduto alla moda 5stelle) da cui non sono usciti né vincitori né vinti, anche se l’ex Atm è tornato nel suo nord. Da un nord appena più est ne è però arrivato un altro, sempre di indicazione casaleggiana. “Vedremo che sa fare, il giudizio è facile e veloce: dare prova di eliminare le influenze del Campidoglio di tipo clientelare e mettere ordine nella prima e seconda linea dirigenziale dove si annida l’incompetenza più dannosa”, ci dicono dall’interno dell’azienda. Mentre ancora De Francesco, forte di quattro partecipazioni in Arene gilettiane, è pronto a dare battaglia sulle retribuzioni dei dirigenti e sulla loro permanenza in incarichi nei quali, dice, non si sono mostrati all’altezza. “Negli ultimi 5 anni – ci dice assertivo – hanno messo a gara acquisti per 2,5 miliardi senza comprare neanche un bus”.

    

La situazione dei rapporti interni all’azienda è sfuggita di mano. Il fiorire di microsigle sindacali è il sintomo della malattia interna. L’idea che tutto sia legato al potere politico locale e ai suoi addentellati ha svuotato di qualsiasi logica produttiva e perfino economica le relazioni industriali di un’azienda che comunque impiega quasi 12.000 persone. Se perfino l’eroina della rivolta di base contro ogni rappresentatività indiretta, Micaela Quintavalle, ammette di essere entrata in Atac grazie a interessamento sindacale (“avevo un curriculum fenomenale ma senza quell’aiuto mai sarei entrata”) allora si capisce che il corto circuito interno tra rappresentanza, protesta e gestione non dà scampo. E ora anche Quintavalle, già naturaliter grillina, vista Raggi all’opera, prende le distanze.

   

Mancano le relazioni industriali, e manca anche un progetto (in attesa di capire cosa propone il nuovo arrivato Paolo Simioni, già però costretto a fare i conti con il Cda appena reintrodotto). Per i piccoli sindacati non ci sono amici, appunto perfino Raggi li ha delusi, ma ora c’è un nuovo nemico: il referendum radicale. Anche se per la verità gli scioperi “contro la privatizzazione dell’Atac” già scandivano i venerdì (recentemente si è passati al giovedì). I promotori sono il quartetto di base: Faisa, Orsa, Sul, Usb. Loro proclamano, altri aderiscono. Come il sindacato di Quintavalle, dal nome impegnativo e un po’ da libro Urania, di “Cambia-menti M410”. Che felicemente si acconcia a mettere in atto ciò che altri hanno proclamato. Forte comunque dei suoi 120 iscritti (all’interno ne dichiarano però 300) che danno la base di consenso con cui Quintavalle accede alla ribalta televisiva e alle innumerevoli proposte di candidatura (tutte rifiutate, dice lei, in nome di una scelta per la libertà di azione e di pensiero).

  

In tutto ciò il sindacato più rappresentativo in Atac resta la Cisl, che dichiara circa 2800 iscritti, ma dai suoi vertici ci viene raccontata la grande fatica quotidiana dei delegati per provare a tenere insieme una forma ragionevole di rappresentanza. Qui è tutto infiammabile, ci dicono metaforicamente (senza riferimenti alla recente moda dei flambus). Alla Cisl parlano di lavoratori disorientati dai troppi errori aziendali, e anche loro ripetono il mantra della distruzione dell’azienda per mano della politica locale. Si parla di turni di lavoro regolati male, di mezzi disastrati e di totale mancanza di interlocuzione con il Campidoglio. La sindaca? Boh, e chi la sente?

   

Si è fatto un feticcio, buono per scioperare ma nient’altro, del Regio Decreto del 1931 sul lavoro degli autoferrotranvieri. Ne sentirete parlare perché viene definitivamente cancellato con varie novità legislative, tra cui la legge Madia. Ma, ci spiegano alla Cisl, in realtà gran parte dei suoi articoli erano stati abrogati da norme successive e soprattutto dal recepimento di contratti nazionali.

   

Mentre sempre la legge Madia incombe su Atac dal lato del debito, perché impone la procedura fallimentare per le municipalizzate con più di 500 milioni di debito e Atac è fuori assai, con il suo bel miliardo e 300 milioni di debito. Da qui l’idea di Faisa: scorporiamo di nuovo il trasporto locale aziende così ciascuna avrà un debito sotto la soglia Madia e anche la gestione se ne avvantaggerebbe. Fantafinanza capitolina? Probabile, ma ormai tutto può essere tentato. Il referendum, dicevamo, coalizza i piccoli e anche i confederali, ma forse meriterebbe qualche spiegazione in più il suo vero intento cioè la messa a gara dei servizi di trasporto pubblico locale e non la pura e semplice privatizzazione (ora come ora trovalo un privato che voglia buttare soldi in quel delirio societario). Eppure, a sorpresa, tra lo sciopero settimanale e il sindacalismo arenato (nel senso gilettiano) c’è un singolare attaccamento all’azienda tra i lavoratori. Almeno li ha salvati dalle sirene grilline. In attesa che qualcuno lo usi per trasformare davvero il baraccone in qualcosa di funzionante.

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