
Elly Schlein a Roma, al voto per il referendum dell'8 e 9 giugno 2025 (Ansa)
Perché al centrosinistra serve un federatore diverso da Schlein
Le conseguenze del referendum, la doppia morte del riformismo progressista, la fuga dal moralismo dogmatico
Occorre arrivare a un candidato autorevole, rispettato e capace di guidare una possibile coalizione alle politiche, un candidato certo gradito anche alla sinistra e quindi di mediazione, ma anche accettabile dal centro e dal vecchio Pd e aperto al dialogo con Forza Italia
I risultati dei referendum costituiscono la prima vera sconfitta politica subita dalla nuova sinistra italiana, una sconfitta pesante malgrado le mani avanti messe nei giorni scorsi da alcuni suoi dirigenti e resa ancor più tale dalla percentuale dei no, non trascurabile ai primi quattro quesiti e alta al quinto.
Il primo vero sconfitto è Landini, forse costretto a rinunciare all’ambizione politica e che dovrebbe sentire la responsabilità di lasciare la guida di una CGIL portata in un vicolo cieco. Il secondo è Schlein e il suo gruppo dirigente, per i quali il danno sembra però potenzialmente minore perché salda è la loro presa su un PD che gli è stato regalato da una parte del suo vecchio gruppo dirigente che non voleva rassegnarsi ad abbandonare la scena e credeva di aver trovato in loro il modo di sopravvivere alla morte politica del soggetto creato tra tante speranze da Veltroni nel 2007 contro il parere di una parte dell’apparato dirigente dei DS.
Quel partito democratico, che ambiva essere partito di maggioranza e di governo e il cui primo atto fu la rottura dell’alleanza con la sinistra che aveva a suo tempo causato la caduta di Prodi e i cui eredi sono oggi i maggiori alleati di Schlein, che in fondo ne è parte, si proponeva di rappresentare un blocco riformista e innovatore capace di guidare e rifare il paese. L’ambizione era nobile e in effetti, con l’inattesa vittoria di Renzi (un uomo della “sinistra democristiana”) alle primarie, il sogno di un centrosinistra moderno e riformista, capace di eliminare, anche inglobandole e dando loro un nuovo programma e un nuovo ruolo, le migliori energie del passato comunista, sembrò realizzarsi.
Il momento non poteva però essere peggiore. Sappiamo oggi che la crisi aperta dal 2007-2008, quando Veltroni lanciava slogan ispirati all’ottimismo, è stato l’inizio di un cataclisma che ha colpito e colpisce tutta l’Unione europea, sempre più debole politicamente, industrialmente e culturalmente, e in primo luogo l’Italia. Questa crisi ha posto fine al sogno ancorato alle speranze “progressiste” del passato e, causandone il tracollo, ha segnato al tempo spesso la fine di un riformismo diventato quasi un brutta parola perché associato a tagli dolorosi, come alle pensioni o ad altri privilegi riconfigurati come diritti, nonché quella del PD veltroniano e poi renziano (ma a ben vedere il successo del primo Renzi, poi redentosi, si spiega anche coi forti accenti “rottamatori”, e quindi para-populisti, dei suoi primi messaggi, il cui tradimento spiega la trasformazione dell’appoggio in delusione prima e ostilità poi).
Una doppia morte, quindi, del riformismo progressista in generale e del PD originario in particolare, che ha molto a che vedere con il diffondersi di aspettative decrescenti, l’invecchiamento progressivo della popolazione, il declino dello status dell’Europa e dei suoi “popoli”, la crisi della liberaldemocrazia e la preferenza per la chiusura che ciò ha generato. Questa preferenza è stata confermata dal risultato del referendum sulla cittadinanza, anch’esso un grave errore politico ancorché almeno ispirato da buone intenzioni e non dal desiderio di regolare i conti col riformismo che anima la nuova sinistra. Ma con le buone intenzioni non si può fare politica e la sconfitta, pesante, renderà ancora più difficile trattare razionalmente un problema cruciale (confesso a proposito che è stato l’unico referendum per cui ho votato, e a favore, per dare un segnale di apertura pur sapendo che è sbagliatissimo considerare l’immigrazione materia referendaria, e avendo piena coscienza del fatto che i nuovi cittadini di oggi e domani sono meno facilmente integrabili di chi è venuto in Italia nei 20 anni successivi al 1991 e che quindi ogni misura relativa alla concessione della cittadinanza dovrà tener conto di questo dato).
Ma torniamo alla doppia morte del riformismo progressista e del vecchio PD. Essa aiuta a capire l’improbabile deriva vittoriosa dell’Opa ostile organizzata da chi sperava così di mantenere il controllo del partito e lo ha regalato invece a quella che ho chiamato una “nuova sinistra”, molto diversa però dalla precedente—ancora marxista e non pacifista—che si diede questo nome più di mezzo secolo fa. Il suo tratto caratterizzante, che affonda le sue radici nell’ultimo Berlinguer, cosciente del fallimento del comunismo ma ostile ad abbandonare il sogno dell’alterità e quindi a diventare socialdemocratico, mi sembra essere un moralismo dommatico e poco intelligente, frutto—come già nel caso di Berlinguer—di una sconfitta che non è stata causa di riflessione, e quindi incapace di capire la realtà e agire in essa per modificarla per il meglio. E’ un moralismo che ha molto a che fare con la para-religione dei diritti, anche individuali e non più solo sociali (e quindi almeno in questo più moderna della social-democrazia) affermatasi in Italia negli anni Settanta, col pacifismo, l’ambientalismo e i facili quanto radicali giudizi su quello che ci circonda.
Malgrado le tante differenze, mi sembra perciò possibile dire che in Italia si sta affermando una sinistra per certi versi simile a quella “congelata” degli anni Cinquanta, che però trovava nell’Unione sovietica e nel mondo socialista un forte punto di riferimento e la promessa che una società diversa fosse possibile. Quella sinistra era a suo modo un mondo a parte, in cui hanno vissuto milioni di persone, trovandovi valori, conforto e identità. Mi sembra che la stessa funzione potrebbe giocarla la nuova sinistra moralista di oggi, che potrebbe costruirsi, come aveva fatto quella, i suoi spazi istituzionali, amministrativi e culturali. I segnali non mancano, nelle università come nelle televisioni o nella stampa. Spero di sbagliare, ma in questa direzione sembra puntare la trasformazione di una Repubblica che paragona gli attacchi degli ucraini a una Pearl Harbor russa, come se la Russia fosse un paese pacifico attaccato a tradimento, e titola di un’Europa che “foraggia” di armi e soldi Kyiv.
A differenza della sinistra degli anni Cinquanta, paralizzata dalla guerra fredda, questa nuova sinistra potrebbe però vincere le elezioni, anche se solo per provare la sua incapacità di governare. Schlein, appena indebolita, dovrebbe per esempio essere la naturale beneficiaria delle prossime elezioni regionali e di quelle nelle grandi città, che potrebbero rafforzare la sua posizione. Certo il governo non mancherà di ostacolare questo cammino: lo annunciano le aperture sul terzo mandato di Fratelli d’Italia, tese certo a contentare la Lega ma anche a creare problemi al PD in Campania, e le discussioni su una possibile riforma elettorale tesa a abolire i collegi uninominali, che potrebbero garantire a un PD capace di fari accordi coi 5 Stelle un forte vantaggio, specie ma non solo nel meridione.
Tuttavia, le forze ostili alla destra-centro restano potenzialmente maggioritarie nel paese, e un leader di qualità potrebbe trovare il modo di farle convivere in una coalizione puramente elettorale e quindi di vincere anche alle politiche. In questa prospettiva chi sarà il leader della possibile coalizione di sinistra-centro è questione decisiva. Schlein vorrebbe esserlo, ma è difficile che l’elettorato centrista e quello del vecchio PD tradito convergano su di lei, e condurrebbe quindi probabilmente a una sconfitta, che sarebbe ancora più netta sotto la guida di Conte.
È per questo importante trovare una bandiera che più che riformista chiamerei di politica aperta e realistica già al prossimo congresso del PD, e darsi coraggio, come fa e bene la Picerno. Questo non tanto per strappare la guida del partito a Schlein, cosa per ora difficile in assenza di una sconfitta elettorale importante, quanto per arrivare col tempo a un candidato serio, autorevole, rispettato e capace di guidare una possibile coalizione alle politiche, un candidato certo gradito anche alla sinistra e quindi di mediazione, ma anche accettabile dal centro e dal vecchio PD e aperto al dialogo con Forza Italia.
Naturalmente questa coalizione non potrebbe avere un programma coerente, come in fondo non lo ebbe Prodi al di là dell’obiettivo euro, ma pure la coalizione di destra-centro ne è priva anche se per essa la cosa è meno grave perché naviga spinta dalla corrente di chiusura di cui abbiamo detto e ha in Meloni quello che è oggi senza dubbio il leader politico dalle qualità personali migliori che abbia l’Italia. Una vittoria di una coalizione di sinistra-centro non sarebbe insomma l’ideale, ma forse garantirebbe, in condizioni di minore tensione, a un nuovo soggetto riformatore (che può anche essere di nuovo il PD o un gruppo più ridotto ma capace di leadership) il tempo e lo spazio necessari per elaborare un discorso adatto al mondo nuovo e capace di parlare con chi ci vive.
Tutto questo è possibile se la pressione esercitata dagli eventi internazionali scenderà o per lo meno cesserà di aumentare. Se al contrario salirà, com’è possibile, il quadro muterà ancora e rotture e scelte radicali come quelle del 1946-48 saranno all’ordine del giorno. Che farà per esempio una Meloni già alle strette per le tensioni dei rapporti tra Europa e Stati uniti di Trump, se chiamata a scegliere tra i due? È evidente che non si tratterebbe di una scelta facile (perdere, anche se solo per un periodo, gli Stati uniti è una prospettiva terribile, che andrebbe, per quanto possibile, evitata), anche perché essa potrebbe essere legata a un peggioramento del quadro internazionale, economico e quindi sociale. L’economia, l’industria e la società italiane non potrebbero però che scegliere l’Europa e credo che troverebbero un leader disposto a guidarli, Meloni stessa se così vorrà, un dirigente della sinistra-centro, o persino una persona nuova. I giochi insomma si farebbero in quel caso davvero aperti.