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La nostra Africa

Il viaggio di Mattarella in Costa d'Avorio e Ghana. Tutti i Piani Mattei che funzionano già 

Davide Perillo

Nel suo viaggio in Africa il presidente della Repubblica potrà verificare la presenza degli italiani sul campo. Dagli impianti energetici di Eni al lavoro di ong come Sant’Egidio, Avsi, e i salesiani: tutto il patriomonio-know how della cooperazione

 Si può partire da Gordon, 33 anni, nato in Sud Sudan, angolo di mondo che visto da qui non offre futuro. È emigrato in Kenya, ha perso i genitori, ha venduto pesce al mercato per pagarsi gli studi, è scappato di nuovo, in Uganda. Poi ha incontrato il Cuamm, una ong italiana. Oggi fa l’ostetrico nel suo paese, “e sono orgoglioso di lavorare per la mia comunità”. Oppure da Gladys, 21 anni, ugandese di Kampala, che aveva lasciato gli studi perché veniva picchiata in classe ed è cresciuta “odiando tutto e tutti”. Finché ha trovato altri professori che l’hanno accolta, “mi hanno fatto sentire a casa e scoprire il mio valore”. Adesso studia per diventare insegnante, e ringrazia la scuola e la non profit italiana che la sostiene, Avsi. Di storie simili te ne raccontano tante, da queste parti. Sparse per un continente che ci ostiniamo a guardare come un enorme monolite, mentre è una galassia di mondi diversi. E accomunate da poche, grandi cose. Gente che si è messa lì con loro, accompagnandone la crescita passo a passo, per anni, e che è andata davvero ad aiutarli “a casa loro”. Non per esorcizzare la paura di barconi e migranti, ma perché è l’unico modo per far crescere l’Africa. È l’Africa non “monolitica”, ma che può crescere solo attraverso pratche “non predatorie” che il  presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrerà nel suo viaggio iniziato ieri in Costa d’Avorio e in Ghana, durante il quale, oltre ai rispettivi presidenti, che lo avevano invitato, e alle realtà di questi paesi avrà la possibilità di verificare sul campo la presenza  degli italiani, dagli impianti energetici di Eni e il lavoro di ong  come Sant’Egidio, Avsi, i salesiani. 


Si può discutere a lungo sul Piano Mattei, presentato in pompa magna a fine gennaio da Giorgia Meloni  in un vertice che ha raccolto a Roma 46 paesi africani e rilanciato dal recente viaggio in Egitto. Si può obiettare che ha contorni vaghi, che i 5,5 miliardi promessi in realtà erano in gran parte già destinati alla cooperazione, che persino qualche diretto interessato ha avuto da ridire (“avremmo preferito essere consultati”, ha detto Moussa Faki Mahamat, presidente dell’Unione africana). Ma un fatto è certo: parlando di “approccio non predatorio”, di “cooperazione da pari a pari” e di un “futuro nostro che dipende dal loro”, la premier ha riconosciuto che la partita dell’Africa ci riguarda, e si gioca a casa loro. Ed è la stessa partita che si stanno giocando da tempo altri italiani, le ong e il mondo del volontariato e della cooperazione. Per capirne la portata, conviene partire dai tanti “Piani Mattei” in atto da anni, innestati su una presenza radicata e diffusa. 


Secondo Open Cooperazione, portale indipendente che raccoglie dati sugli aiuti allo sviluppo, nel 2022 (ultimo anno disponibile) in Africa si registravano 451 presenze locali di Ong e simili “made in Italy”, con 1.401 progetti seguiti, molto spesso assieme a partner locali. Ovviamente le associazioni sono di meno (tante sono attive in più Paesi), ma i numeri danno l’idea. E sono solo quelle registrate. Ci sono poi decine di realtà minori, i gemellaggi estemporanei, le infinite storie di aiuti innestate da vicende personali, un inventario impressionante. Se la Cina sta occupando il continente con soldi e infrastrutture, se Turchia e paesi del Golfo provano a imitarla e se la Russia, ancora più prosaica, usa i mercenari della Wagner per marcare i suoi spazi, l’Italia ha sul campo la diplomazia del volontariato: ben oliata, molto attiva, spesso efficace e con punte di eccellenza. Mattarella, e Meloni, lo sanno. 


Il Cuamm, per cominciare. Medici con l’Africa – e occhio a non sbagliare preposizione, perché ci passa un mondo. È lì dal 1950, oggi lavora in 8 paesi della fascia subsahariana e gestisce progetti di assistenza sanitaria che tradotti in numeri vogliono dire 3.500 operatori formati, 22 ospedali, 214 mila parti assistiti nel 2022, 2.346.000 pazienti aiutati. Il direttore generale è don Dante Carraro, 66 anni, sacerdote e cardiologo. Arrivato al Cuamm nel 1994, due anni dopo decise che l’Africa sarebbe stata la sua vita. “Ero a Dubbo, in Etiopia, e ho visto un bambino morire di tetano. Terribile: si bloccano i muscoli e soffochi un po’ alla volta mentre rimani lucido. Quegli occhi non me li dimenticherò mai”. Si commuove ancora a raccontarlo Del Piano Mattei parla con la prudenza di chi ha visto buoni segnali, ma aspetta i fatti: “Migranti a parte, l’Africa era scomparsa dai radar: ora se ne riparla”. Anche le promesse sui fondi, italiani ma soprattutto europei, se diventano fatti possono spostare molto: “Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, ha annunciato 150 miliardi di investimenti e ha detto che l’Europa vuole parlare con l’Africa, e non all’Africa: anche questo è da apprezzare”. Però? “Quando parli di Africa, in realtà hai davanti 54 paesi. Ognuno fa storia a sé. Se non stiamo attenti a declinare bene gli interventi nel singolo contesto, persino i soldi rischiano di fare danni. In passato è già successo”. 


Uno degli apporti più importanti che possono arrivare dalle ong è proprio questo: la conoscenza del territorio. Capillare, profonda, fatta di relazioni costruite nel tempo. “Quando sei lì da anni e sei serio, la gente ti conosce, impara a stimarti e fidarsi. Se serve ti protegge, anche. In questo senso sì, siamo una diplomazia pratica: molto discreta, ma che messa in sinergia con le istituzioni può dare un grande contributo”. Esempi? “Penso alle università. Noi abbiamo un rapporto stretto con una quarantina di atenei italiani. Facciamo corsi sulla salute globale. Formiamo medici che poi, per finire la specialità, partono e fanno un anno giù. Tutti ci dicono: è un modello virtuoso, noi abbiamo il know-how, ma voi conoscete i sistemi sanitari, gli ospedali, i funzionari: i nostri medici che si inseriscono lì diventano più efficaci”. Così come solo dal basso si intercettano bisogni e soluzioni che da qui non vedremmo mai. “Prenda Ondjiva, Angola: lì lavoriamo in un ospedale da 220 posti letto che serve un territorio enorme e 250 mila abitanti. Giriamo i villaggi per fare vaccinazioni e visite volanti. E ci siamo resi conto che quando le donne incinte devono partorire, non è detto che arrivino in tempo: troppi chilometri e pochi mezzi. Allora abbiamo costruito le waiting house, dei piccoli appartamenti vicino all’ospedale: due settimane prima del parto, le accogliamo lì. Stanno insieme ad altre donne, sono seguite. E al momento della nascita, sono vicine”. Investimento minimo, ma ha ridotto la mortalità infantile del 55 per cento. “E’ la frugal innovation: con pochi soldi ti inventi una modalità, provi, la studi. Se funziona, la puoi replicare”. Ma devi essere lì, per pensarci e per farla crescere. “Lo sviluppo deve essere endogeno”, dice don Carraro: “Deve nascere dalle comunità locali e va sostenuto con la discrezione di chi mette al primo posto non il suo interesse, ma quello del partner”. E l’Italia ha due risorse decisive per spingerlo: “Conoscenza e capitale umano. Un sapere ingegneristico e sanitario di primo livello, e giovani medici preparati e con un approccio umano. Se vogliamo avere risultati, non dobbiamo scimmiottare quello che fa la Cina: dobbiamo partire da lì”. 


“La cooperazione con l’Africa non è che inizia il 29 gennaio (il meeting diRoma, ndr), ha una storia lunga”, osserva Giampaolo Silvestri, segretario generale di AVSI, una delle organizzazioni con radici più forti nel continente (dove lavora in 15 paesi, segue 178 progetti e sostiene a distanza 11.641 bambini). “Ed è una storia che non coinvolge solo la politica, ma associazioni, volontari, missionari. Sono lì da sessant’anni”. Eì bene ricordarlo, perché “l’approccio dei governi può essere predatorio, quello della società civile no”. Ma c’è un tratto italiano della cooperazione, qualcosa che ci distingue? “Due cose, direi. Uno: in genere, siamo multi-stakeholder”. Parola bruttina, per dire che “in un progetto tiriamo dentro tanti soggetti: le Ong, le università, le diaspore, le imprese, le amministrazioni locali… Poi, gli italiani riescono a entrare di più nella realtà: hanno un approccio meno formale. Cercano di capire, di inserirsi nelle dinamiche locali”. I motivi? “Forse non avere un gran passato coloniale aiuta, non so”. Di sicuro, ha aiutato la tradizione missionaria: “I grandi ordini religiosi, come i saveriani o i comboniani, negli anni hanno creato decine di scuole e ospedali. Questo crea relazioni e fa crescere un certo modo di fare. La cultura nasce così”. 


All’idea del Piano Mattei, Silvestri attribuisce un merito: “Ha dato una visione positiva dell’Africa: se fino a ieri era vista solo per il tema delle migrazioni, quindi come un problema, adesso è cambiato l’approccio. Sappiamo che c’è qualcosa di positivo che possiamo fare assieme a loro”. Ma il Piano può avere successo solo a due condizioni: “Che sia un’iniziativa del paese, non solo del governo, e che valorizzi le esperienze positive, faccia uno scale up di quello che funziona per replicarlo”. Con una priorità su tutte: “L’educazione. Dobbiamo partire da lì: investire per mandare i bambini a scuola e i ragazzi all’università. E non si tratta solo di spedire soldi: l’educazione funziona se è relazione, accompagnamento. A costruire una scuola ci metti poco; ma una volta che l’hai costruita, ci devi mettere insegnanti che abbiano cura del rapporto con gli studenti, che lavorino per accompagnarli alla scoperta del loro valore. E per avviare progetti così, servono organizzazioni come le nostre. I piani fatti solo tra governi spesso si concentrano sull’istruzione, sull’insegnare a leggere e scrivere: è fondamentale, ma l’educazione è qualcosa di più ampio”.  Silvestri racconta di Gladys, appunto. Di un contesto come l’Uganda, dove Avsi aiuta scuole, centri di formazione professionale e una realtà che forma insegnanti non solo locali. “Ma di esperienze così ne abbiamo tante. Tra i progetti-bandiera indicati nel Piano Mattei ce n’è uno che seguiamo noi, in Costa d’Avorio. Lavoriamo in più di 700 scuole per formare i professori (Mattarella visiterà proprio una di queste scuole, la “Vidri Canal” di Abidjan, ndr), e abbiamo avviato 150 biblioteche mobili, che girano il paese. Se si riesce a farne un modello e moltiplicarlo su scala, i benefici aumentano”. 


La scuola. Lo dicono tutti quelli che lavorano sul campo: per mettere in ordine di importanza i punti chiave indicati dal Piano (istruzione, salute, agricoltura, acqua ed energia), si comincia da lì. In un convegno romano di fine febbraio che ha raccolto più ong a discutere di Africa si parlava proprio di questo: “Educazione, emergenza comune”. Si citava Amartya Sen, Nobel per l’economia: “Per costruire un paese, costruisci una scuola”. E si fornivano numeri che dicono molto. Entro il 2050, un abitante del mondo su 4 sarà africano: il continente sarà popolato da oltre un miliardo di under 18, ovvero il 40 per cento dei minori di tutto il mondo. La differenza la farà quanto e come saranno istruiti. Anzi, la fa già: in Africa, oggi, il figlio di una madre che sa leggere ha il 50 per cento di probabilità in più di sopravvivere, il 50 per cento di chance in più di essere vaccinato e il doppio di probabilità di andare a scuola. “L’istruzione è la soluzione di tanti altri problemi”, faceva notare Laura Frigenti, direttrice generale di Global Partnership for Education, l’organizzazione di partenariato internazionale che ha aiutato a studiare 160 milioni nel mondo, organizzatrice dell’incontro: “E’ nella scuola che tanti bambini ricevono l’unico pasto del giorno, trovano vaccinazioni e servizi sanitari. Ma tante volte è anche il posto dove viene data loro la possibilità di guarire le ferite della guerra, dei traumi, dei campi profughi. Di ritrovare barlumi di normalità”. E’ “un trampolino”, aggiungeva. Possiamo darci tutti gli obiettivi che ci pare, “ma se non c’è capitale umano sufficiente, non potranno mai essere realizzati”. E allora è lì che si torna. Ai Gordon, alle Gladys e a chi li sta aiutando “a casa loro”. 


Come Intersos. Seconda ong italiana per entrate nel 2022 secondo Open Cooperazione (109,4 milioni; davanti ha solo Save The Children con 148,1), terza sia per dipendenti e collaboratori (3.744) che per progetti implementati nel mondo (268), in Africa presidia 10 Paesi, lavorando sulle emergenze umanitarie, ma non solo. Uno dei fondatori, Nino Sergi, dopo esserne stato a lungo la guida, oggi è presidente emerito. Anche lui ai governi che guardano all’Africa chiede di non ripartire da zero, ma da quello che c’è: “Bisogna ritrovare le radici di quanto è già stato ottimizzato negli anni precedenti. Evitando di ricominciare da capo, come talvolta la politica è tentata di fare”. Senza paternalismi e senza quello “sguardo pietistico che è rigettato dalle nuove generazioni africane, perché indica un atteggiamento di superiorità. La partnership esprime reciprocità: a doppio senso, perché siamo anche noi ad avere bisogno del continente africano”. Pure lui sottolinea che sarebbe un delitto non coinvolgere fino in fondo nella partnership con l’Africa “il sistema Italia: università, imprese, organizzazioni delle diaspore… E le ong, che spesso hanno acquisito conoscenze dei paesi come pochi altri”. Sergi lo chiama “il made in Italy formato solidarietà”: “La cooperazione italiana è ben vista perché è frutto di buone relazioni diplomatiche, di qualità, di cittadini africani che si sono formati da noi e poi, nei loro paesi, sono diventati ministri, governatori o imprenditori”. È quello che gran parte della cooperazione italiana dice da tempo. Sergi ricorda le discussioni sulla modifica delle leggi in materia, vent’anni fa: “Le ong che avrebbero dato vita alla rete Link 2007 dicevano che l’Italia ha un ruolo importante: quello del dialogo e della cooperazione. È la nostra via per difendere gli interessi nazionali, anche economici e commerciali. La cooperazione deve diventare il fondamento di ogni rapporto internazionale. I princìpi del Piano Mattei, per come li hanno declamati a Roma, non sono così lontani, no?”. In effetti, no. Ma questa volta a parlarne sono l’Italia, l’Europa e il G7.
 

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