Le catene di Ilaria Salis lo scorso gennaio - foto Ansa

L'editoriale del direttore

Tilt su tilt: spezzare le catene dell'ipocrisia di destra e sinistra sul caso Salis

Claudio Cerasa

Di fronte ai polsi e al collo legati della maestra detenuta in Ungheria, il circo mediatico e politico è impazzito ed è riuscito con una certa costanza e poco senso del ridicolo a mostrare il peggio di sé. I due cortocircuiti che mostrano le ridicole posizioni (bipartisan) sulla vicenda

Spezzare le catene di Ilaria Salis è ovviamente importante, ma non è meno importante di spezzare le catene delle ipocrisie che si sono andate a intrecciare in modo perverso sul caso della maestra detenuta in Ungheria. Riavvolgiamo il nastro e proviamo a fare chiarezza. Le immagini di Ilaria Salis in ceppi sono un pugno in un occhio per chiunque ami lo stato di diritto. Ma di fronte a quelle immagini vergognose, il circo mediatico e politico è impazzito, è uscito fuori di testa, è andato in tilt ed è riuscito con una certa costanza e poco senso del ridicolo a mostrare il peggio di sé. È andata in tilt la sinistra, come ha raccontato bene ieri sulle nostre pagine Salvatore Merlo, la quale sinistra tradendo la sua stessa identità ha trasformato in un’eroina un’attivista (con manganello) che meriterebbe di essere valutata non solo per quello che sta patendo nelle carceri ungheresi ma anche per quello che ha fatto prima di finire nelle carceri (spiace per Zerocalcare, ma picchiare i propri avversari politici con un manganello non è antifascismo: è solo violenza). Il cortocircuito della sinistra, però, riguarda anche altro e riguarda una serie di ipocrisie che si indovinano con facilità osservando la postura assunta dall’opposizione di fronte al caso Salis.

 

 

Non si può essere a favore delle garanzie dei carcerati ungheresi ed essere indifferenti rispetto alle non garanzie dei carcerati italiani. Ma soprattutto non si può essere a favore delle garanzie per le Salis ungheresi ed essere indifferenti rispetto al mancato e sistematico rispetto delle garanzie per tutti coloro che in Italia si trovano ad affrontare un sistema giudiziario che tratta gli indagati, i sospettati e gli imputati con metodi che forse farebbero rabbrividire anche gli stessi ungheresi. Essere davvero sensibili rispetto alle garanzie di un imputato durante un processo significa esserlo sempre, non solo quando quell’indagato è rilevante per questioni politiche, perché aiuta cioè una parte politica a dimostrare quanto sia malvagio un alleato del proprio nemico politico, e per essere davvero a favore delle garanzie, quando si parla di giustizia, bisognerebbe esserlo anche su tutto ciò che gli adoratori di Ilaria Salis scelgono sistematicamente di non vedere. Si può essere preoccupati per la gogna in aula subita da Salis e non essere preoccupati per la gogna quotidiana inflitta a chi subisce un processo in Italia? Si può essere preoccupati per l’immagine terribile delle catene ai polsi di Salis e non essere preoccupati per l’immagine terribile di un sistema giudiziario che crea infinite occasioni per distruggere la vita dei sospettati con mezzi ben più letali di un guinzaglio? Si può essere preoccupati per le condizioni delle carceri ungheresi e non essere preoccupati per le condizioni di quelle italiane che come documentato ieri da Ermes Antonucci sul Foglio versano in uno stato più drammatico di quello ungherese (da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata istituita, nel 1959, fino al 2021 l’Italia è il terzo paese ad aver ricevuto più condanne, 2.466, dopo Turchia e Russia, l’Ungheria ne ha ricevute 614; l’Italia è stata condannata 9 volte per tortura, l’Ungheria mai; 297 volte per violazione del diritto al giusto processo, 21 l’Ungheria; 33 volte per trattamento inumano e degradante, 38 l’Ungheria).

 

 

Le catene dell’ipocrisia da spezzare non sono ovviamente solo a sinistra ma sono anche a destra. Alcuni esponenti del governo hanno rimproverato l’opposizione per aver strumentalizzato il caso Salis (lo ha detto Antonio Tajani) e per aver cercato di costringere il governo italiano a intromettersi nella giurisdizione di un altro paese (lo ha detto Carlo Nordio). Ma quello di cui il centrodestra non si è accorto, in modo goffo, è che ad aver politicizzato la storia di Ilaria Salis non è stata solo l’opposizione: è stata anche la maggioranza. Provate a rispondere a questa domanda: se il governo in questione non fosse guidato da un beniamino di Meloni e Salvini, l’esecutivo italiano avrebbe utilizzato lo stesso approccio timido, prudente e poco muscolare come quello mostrato oggi? Se il paese in questione non fosse l’Ungheria di Orbán, e se fosse stato un paese guidato da un leader di sinistra, il governo di destra non avrebbe usato un caso del genere per dimostrare quanto siano pericolosi e illiberali gli amici della sinistra?
 

Matteo Renzi ha colto maliziosamente il punto quando ha detto, due giorni fa, che Giorgia Meloni dovrebbe essere realmente patriota e spiegare a Viktor Orbán che o l’Ungheria rispetta la regole dello stato di diritto o nessun euro delle tasse degli italiani deve finire a Budapest come invece accade oggi. Ma in questa storia c’è evidentemente di più e c’è la volontà del governo di non forzare la mano per non dover fare i conti con alcuni dati di realtà che non si possono evidenziare se si vuole trasformare un paese guidato da un leader illiberale in un proprio alleato strategico. Il dato di realtà riguarda il fatto che il caso Salis non è rilevante in sé ma è rilevante in quanto è la punta di un iceberg più grande, che riguarda non solo lo stato di diritto delle carceri in Ungheria. Quel che il governo italiano non vuole vedere non è dunque il singolo caso dell’attivista in catene ma è il caso più grande di una democrazia incatenata che i finti amici della libertà non vogliono denunciare.
 

Non si può essere difensori del garantismo solo quando fa comodo, solo quando cioè i diritti violati riguardano soggetti che hanno idee simili alle proprie. Non si può essere difensori della libertà solo quando gli atti illiberali da combattere sono quelli che si manifestano nel mondo della sinistra. Non si può essere nemici dei regimi illiberali e poi chiudere gli occhi di fronte agli alleati politici che sulla libertà ci passano sopra con la ruspa. Non si può chiedere all’Europa di fare di più, di essere più forte, di essere più credibile e farsela poi addosso quando si tratta di dover alzare la voce con chi, come Orbán, l’Europa fa di tutto per disgregarla. Non si può accusare la sinistra di essere nemica della libertà quando alimenta il politicamente corretto della cultura woke e poi abbassare lo sguardo quando i valori non negoziabili della libertà vengono violati quotidianamente da un leader amico.
 

Spezzare le catene di Ilaria Salis è importante, giusto, e quei ceppi ai polsi fanno indignare a prescindere da ciò che Salis rappresenta e a prescindere da ciò che Salis ha combinato. Ma spezzare le catene dell’ipocrisia, sul caso Salis, significa ammettere due verità. Alla sinistra interessa la maestra con le catene solo perché quella maestra aiuta la sinistra a dimostrare che Meloni ama così tanto Orbán da non avere il coraggio di alzare la voce con il suo amico (in giro per il mondo ci sono 2.600 italiani detenuti da altri paesi, ma i detenuti che fanno gola alla sinistra sono solo quelli che aiutano a dimostrare quanto i propri avversari siano marci). Alla destra invece interessa molto buttarla in vacca sul caso Salis, accusando la sinistra di strumentalizzare la storia, perché non ha il coraggio di ammettere che il garantismo può difenderlo solo quando a finire alla gogna è qualche suo amico, perché non ha il coraggio di riconoscere che la destra nazionalista la libertà la difende solo se a violarla sono i suoi avversari e perché non ha il coraggio di fare i conti con una verità dolorosa ma che comunque esiste: l’incapacità di rinunciare a un pezzo della propria identità sfascista denunciando con forza le oscenità commesse da un illiberale di nome Orbán. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.