Città dello sport di Calatrava (LaPresse) 

Tra dietrofront e burocrazia

Grandi opere più difficili dell'Abruzzo. Una rassegna di casi di scuola

Fabio Bogo

In Italia quasi tutte le opere infrastrutturali hanno un percorso accidentato che alla fine si risolve in indicibili ritardi o nell’abbandono dei cantieri, con enorme spreco di denaro pubblico. Dal G8 del 2009 alla ricostruzione dopo il terremoto, fino all’autostrada della Dc e al Giubileo

Scena prima. Proprio sessant’anni fa, nella primavera del 1964, iniziavano in Egitto i lavori per salvare i templi di Abu Simbel dalle acque che li avrebbero sommersi con la costruzione della diga del lago Nasser, 157 chilometri cubi di acqua deviati dal Nilo. Si trattava di costruire una barriera che proteggesse le gigantesche statue e il complesso del quale erano a guardia, tagliare i colossi dei faraoni in arenaria alti 22 metri, sminuzzare il tempio costruito nel XIII secolo avanti Cristo in più di mille blocchi e ricostruirlo identico in posizione più elevata di 65 metri. L’impresa, a cui contribuì l’italiana Impregilo (oggi in WeBuild) e i cavatori di marmo delle Alpi Apuane, vide impegnati duemila operai in 40 mila ore di lavoro. L’opera, giudicata di una difficoltà eccezionale e a cui guardava tutto il mondo, fu completata in quattro anni. Dal 1968 i colossi di Abu Simbel guardano sereni il lago che li avrebbe invece cancellati dalla terra.
 

Scena seconda. Nel 2005, in vista di un evento, i mondiali di nuoto del 2009 a Roma, si immaginano impianti destinati a cambiare e modernizzare il volto della Città Eterna. Fiore all’occhiello è la Vela di Calatrava a Tor Vergata, concepita nell’insieme di infrastrutture che avrebbero dovuto costituire una nascente città dello sport. Grande entusiasmo per l’idea ambiziosa, affidata all’italiana Vianini, del gruppo Caltagirone. Che ad oggi resta ancora un’idea. La città dello sport non è mai stata realizzata e la vela di Calatrava è stata abbandonata in corso di costruzione. Sarebbe dovuta costare inizialmente 60 milioni, subito diventati 250 aggiornando le stime di spesa. Troppo. Si decise allora di spostare le piscine per i Mondiali di nuoto al Foro Italico, spendendo altri 50 milioni. Oggi la Vela di Calatrava è ancora incompiuta, assiste ai lavori della sua manutenzione e spera nell’ultimo progetto di rilancio, legato – guarda un po’ – a un evento, il Giubileo del 2025. Ma intanto da 19 anni è un segnapasso sul Grande Raccordo Anulare.
 

Quattro anni per i templi di Abu Simbel in Egitto, grazie anche al lavoro italiano. Diciannove, e ancora non bastano, per la vela di Calatrava, pure affidata al lavoro italiano. È un caso? No. Perché quasi tutte le opere infrastrutturali italiane hanno un percorso a dir poco accidentato, che alla fine, spesso per esaurimento dei fondi disponibili, per repentini dietrofront politici, per lungaggini burocratiche, si risolve in tempi indicibili di ritardo o in vergognosi abbandoni dei cantieri, con enorme spreco di denaro pubblico. E di distruzione di reputazione sul fronte degli appalti domestici. E allora non è un caso che, mentre le imprese italiane si aggiudicano lavori importantissimi all’estero, dimostrando la propria eccellenza, i giganti stranieri non facciano altrettanto in Italia. Guardano, studiano, analizzano. Poi salutano e non ci provano nemmeno: è troppo complicato.

Lumache e record

I Romani, i Medici, i Dogi, i Papi, gli urbanisti del ’500 e del Risorgimento: l’Italia è un paese bellissimo, ma difficile da fruire.  Perché, in un quadro sempre incerto e frammentato, da anni i nuovi progetti nascono e spesso si fermano a metà strada. Adesso gli occhi sono puntati sul Ponte sullo Stretto di Messina, che ha avuto il via libera politico, con la fortissima sponsorizzazione del ministro dei Trasporti e Infrastrutture Matteo Salvini, e quello tecnico, da parte della società Stretto di Messina. Costo previsto 14 miliardi di euro, inizio lavori stimato entro il 2024, obiettivo quello di aprirlo al traffico stradale e ferroviario nel 2032. Se ci si riuscirà (ed è già partito lo scontro tra chi lo vuole e chi lo esecra, con l’immediato battesimo di un’inchiesta della magistratura sulla trasparenza dei tempi annunciati) ci saranno voluti 31 anni per vederlo funzionare. Il primo progetto finanziato risale infatti  al 2001, e l’appalto è aggiudicato quattro anni dopo: si pensava di realizzarlo entro cinque anni e 10 mesi e di spendere 3,88 miliardi di euro. Non sarà così: il progetto muore nel 2006, quando cambia la maggioranza di governo (Prodi a Palazzo Chigi sostituisce Berlusconi), rinasce nel 2008 (Berlusconi a Palazzo Chigi sostituisce Prodi), sparisce nel 2012 con la liquidazione della società Stretto di Me ssina (Mario Monti sostituisce Berlusconi a Palazzo Chigi). Ora ritorna con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il Ponte è fermo, ma in realtà ha già  un record: quello della strada fatta. Non dei lavori, però. Ma delle decine di chilometri percorsi con le proprie gambe dai commessi che hanno portato avanti e indietro i faldoni (migliaia di pagine) dei progetti per farli visionare al ministro e al premier di turno. 
 

Non male. Così, mentre politici e ingegneri discutevano e litigavano, altrove si lavorava. Nello stesso arco di tempo in cui in Italia ci si è posti il problema di collegare Calabria e Sicilia (le prime ipotesi risalgono al 1968) la sola Turchia di ponti che attraversano il Bosforo e collegano l’Europa all’Asia ne ha costruiti tre. L’ultimo, il Yavuz Sultan Selim, lungo 2.164 metri, largo 59 metri, 8 corsie autostradali e due binari, è stato inaugurato il 26 agosto 2016. Appena tre anni di lavoro per completarlo. E nel consorzio di imprese che lo ha realizzato c’era, guarda un po’, un’impresa italiana: la Astaldi, confluita poi nel 2021 in WeBuild.
 

Nemo propheta in patria, dunque? Non è sempre così, ma spesso sì. Perché ci sono anche grandi opere italiane che vengono realizzate in tempi record. Ma deve esserci un’emergenza che azzeri tutte le obiezioni e compatti politica (nazionale e locale), tecnici, ambientalisti e cittadini. Il crollo del Ponte Morandi a Genova lo è stata. Il 14 agosto del 2018 una porzione di 200 metri del viadotto crolla, provocando 43 vittime. Due anni dopo il Ponte è di nuovo in funzione: Il miracolo ha un nuovo nome (Genova San Giorgio), grazie a un nuovo progettista (Renzo Piano); a un commissario (il sindaco di Genova Bucci); a un decreto che ha superato gli ostacoli in Parlamento; al sano realismo che ha mandato subito nel cestino proposte surreali che lo volevano uguale al Ponte di Galata a Istanbul, con un secondo livello di ristoranti sotto le corsie di scorrimento (copyright Danilo Toninelli); ai 1.200 operai reclutati per il lavoro dalla cordata Salini-Fincantieri-Italferr. Insomma, a Genova si è avuta la prova che le grandi opere si possono fare nei tempi giusti, con la squadra giusta e obiettivi condivisi. Ma la ricostruzione del Ponte Morandi è purtroppo un caso abbastanza isolato. Sono più le lumache che le lepri nella grande fiera delle infrastrutture. E spesso i guai iniziano ancora prima di iniziare. 

Un bob in salita

Un plastico esempio dell’approssimazione con la quale spesso vengono fatte certe scelte, astraendole dal contesto generale, è quello della pista da bob di Cortina, impianto previsto per le Olimpiadi invernali del 2026. Si tratta di attrezzare una discesa di 1.200 metri nel bosco, facendo rivivere la gloria di quella intitolata a Eugenio Monti. Opera di bandiera, più che di utilità, perché i praticanti del bob in Italia sono una cinquantina. Ma il Veneto non vuole rinunciare a quel poco che i Giochi le riservano (oltre a bob e skeleton a Cortina si faranno solo sci alpino femminile e curling, tutto il resto lo mangia la Lombardia), e ne fa una questione di principio: si deve fare. I bandi di gara restano però deserti (sarebbe dovuta costare più di 125 milioni), il tempo scorre inesorabile verso la data ultima dei collaudi (per autorizzare discese a 120 chilometri orari in curva sul ghiaccio servono controlli severi), gli ambientalisti denunciano il prossimo scempio di 400 larici, il Comitato Olimpico Internazionale si mette di traverso ed emette il suo verdetto: “Quella pista non va fatta, si trasferiscano le gare in impianti già funzionanti all’estero”. Niente da fare. Il governatore del Veneto Luca Zaia la vuole; la Lombardia guarda con sufficienza, gode delle disgrazie altrui e si tiene strette le gare a lei assegnate; il ministro delle Infrastrutture Salvini lascia il compagno di partita Zaia sulla graticola per poi intestarsi la soluzione. E all’ultimo giro di orologio c’è un’impresa italiana, la Pizzarotti di Parma, che presenta – è l’unica – l’offerta per un progetto light e si aggiudica i lavori. Che saranno completati con soldi pubblici, nonostante giuramenti di tenore opposto del ministro leghista. L’onore dell’Italia forse è salvo, il lavoro magari un po’ meno, visto che la Pizzarotti spiegando le sue prossime attività aveva ventilato l’impiego di 90 tecnici e operai specializzati norvegesi, maestri del freddo, per completare i lavori. Che dovrà essere operativo in 625 giorni (ai cinesi per le Olimpiadi di Pechino 2022 ne sono serviti quasi 900). Vedremo come finirà la telenovela, per il momento va registrato che il giorno dell’avvio annunciato dei lavori il cantiere era deserto di tecnici e operai ma circondato da centinaia di attivisti ambientali che protestavano contro l’abbattimento delle piante. Qualche giorno dopo le motoseghe sono partite, ma l’impressione è che la discesa del bob sia comunque una salita.

Il regalo degli eventi

Non siamo solo un paese di santi, eroi e navigatori. L’Italia è anche il paese degli eventi. Sono le grandi occasioni, soprattutto quelle internazionali che ci vedono protagonisti, che smuovono l’immobilismo sul fronte delle opere, grandi o piccole, e che rianimano una nazione poco propensa all’innovazione strutturale e tanto meno alla manutenzione dell’esistente. Perché gli eventi portano finanziamenti e generano un dinamismo troppo a lungo sopito. Un dinamismo che ci fa realizzare grandi progetti utili, ma anche altri superflui, lenti nella costruzione e costosi.
 

Se le Olimpiadi di Roma nel 1960 sono state capaci di rinnovare il volto di una città che usciva malconcia dalla guerra e di lasciare opere viarie ancora oggi fondamentali, i Mondiali di calcio del 1990 sono stati invece un insieme di luci e ombre. Spendendo l’equivalente odierno di quasi 5 miliardi di euro furono ammodernati stadi come San Siro a Milano e ne furono costruiti di nuovi come il San Nicola a Bari. Ma furono spesi soldi anche per il Delle Alpi di Torino, che fu progressivamente abbandonato e poi demolito definitivamente nel 2009, e per il Sant’Elia di Cagliari, abbandonato nel 2017. I Mondiali di Italia 90 permisero di realizzare a Bari l’utile tangenziale, attesa da decenni, ma furono anche responsabili della balzana decisione di costruire l’hotel Milano, un ecomostro tra il capoluogo lombardo e Ponte Lambro, mai completato e abbattuto nel 2012, e di realizzare  due stazioni ferroviarie con una storia emblematica nel panorama mondiale della rotaia. Roma Farneto, a poche centinaia di metri dallo stadio Olimpico, è costata 15 miliardi di lire ed è stata aperta per otto giorni durante le competizioni: abbandonata e poi usata come centro sociale, oggi è nuovamente recintata e le Ferrovie non pensano di riattivarla a causa di lacune strutturali. Roma Vigna Clara, altro snodo dei collegamenti ferroviari cittadini per i campionati di calcio, è stata come Farneto usata per otto giorni e poi dimenticata per 32 anni. Riaperta solo nel 2022, adesso finalmente funziona: ma è sotto attacco perché le corse sono troppo poche rispetto alle esigenze del bacino di utenza.

Il G8 in acque sporche

La manna degli eventi, dicevamo. Ed eccone uno che ha prodotto cose da lasciare a bocca aperta. È il 2009, e all’Italia tocca il vertice del G8. Nel 2007 si decide la località.  Ancora toccato dal ricordo del disastro di quello di Genova nel 2001, con la città sconvolta dai disordini tra black bloc e forze dell’ordine, con morti, feriti e pestaggi, l’esecutivo guidato da Romano Prodi decide di puntare sulla Maddalena, in Sardegna. Il posto è isolato, se ne sono appena andati dalla base gli americani con navi e sommergibili, c’è un porto dove ospitare su navi da crociera i grandi della terra in arrivo con i loro staff. Aggiungiamoci un po’ di retorica (“si paga un debito storico con la Sardegna”) e si comincia. Ma si parte subito male, perché le elezioni portano a un cambio di governo e nel 2008 il premier Silvio Berlusconi deve correre per rispettare i tempi. E il commissario nominato per accelerare le opere, Guido Bertolaso, non riesce a fare i miracoli necessari. Anche perché i 740 milioni inizialmente stanziati per le opere accessorie vengono in gran parte revocati.
 

Che fare? Con un colpo di teatro la sede viene spostata all’Aquila, che tre mesi prima della data di inizio del G8 è stata colpita un violento terremoto. Così si  evita una brutta figura, si stornano milioni a favore della ricostruzione post sisma, si raccolgono fondi dai primi ministri presenti. E la Maddalena e la Sardegna? Rimangono con il classico cerino in mano. Le opere fatte si stanno ancora oggi sgretolando sotto il vento di maestrale, il porto turistico non è mai nato, la recinzione è quasi del tutto crollata e – ciliegina sulla torta – la società Mita del gruppo Marcegaglia, che si era aggiudicata la gara per trasformare l’arsenale militare in un resort di lusso e che poi è scappata, ha incassato 39 milioni di risarcimento dallo stato  perché ha scoperto che nei fondali davanti al resort c’era una discarica mai completamente bonificata. Dove ancora oggi giacciono arsenico, mercurio, piombo, antimonio e altri metalli pesanti. Sarebbe stato un bagno salutare per gli ospiti dell’albergo di lusso…

Terremoti e lavori al rallentatore

 L’addio alla Maddalena come sede del G8 ha però favorito L’Aquila, che ha visto arrivare un po’ di risorse in più per essere diventata nuova sede, e altre dalle donazioni fatte dai capi di stato e di governo presenti durante i lavori. Tutto liscio in Abruzzo allora? Mica tanto. È una classica storia di post terremoto italiano. All’Aquila la terra trema il 6 aprile del 2009, scattano l’emergenza dei soccorsi e quella della ricostruzione. Ma se la prima è come sempre tempestiva e generosa, la seconda è come sempre estremamente complicata. Lo dimostra la fotografia scattata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila il 31 agosto del 2023, a 14 anni dal sisma. E’ l’ultima disponibile: su 758 interventi di ricostruzione pubblica quelli conclusi sono 363, il 47,9 per cento. Rimanevano in attesa 113 collaudi, 123 opere erano nella fase di attuazione, 132 in progettazione e 27 ancora in programmazione. I lavori hanno avuto un’accelerazione negli ultimi tempi, ma sotto il Gran Sasso l’orizzonte è ancora pieno di gru. Ad Amatrice invece la terra trema nel 2016, in due occasioni, ad agosto e poi a fine ottobre. Solito scenario di distruzione, Amatrice è rasa al suolo ed altri paesi come Accumoli e Pescara del Tronto sono praticamente cancellati. I morti sono 239. Come procede la ricostruzione dei paesi sconvolti dalle scosse? Sicuramente non è veloce, se la premier Giorgia Meloni lo scorso agosto visitando le zone colpite dal sisma in occasione del settimo anniversario ha parlato di “ferita aperta”, di “ritardi da colmare”, di “ricostruzione incompiuta che procede a rilento”. Non poteva essere diversamente se si pensa che in quattro anni si sono alternati tre commissari alla ricostruzione: Vasco Errani, Paola De Micheli e Piero Farabollini. E e che solo nel 2020 si è avuta una continuità di indirizzo con la nomina di Giovanni Legnini, che rimane in carica per un triennio e imprime una forte accelerazione agli interventi. Ora commissario è Guido Castelli, che ha raccolto il testimone: conosce bene il territorio, sta operando, ci sono grandi aspettative.

Il fuso orario della politica

È la politica, nazionale o locale, a decidere cosa fare e a cercare di dettare i tempi. Col suo fuso orario però. E spesso le colpe di ritardi e incompiute derivano proprio da lì. “L’Italia è affetta dalla sindrome di Penelope, una malattia mortale – chiosa Renato Brunetta, oggi presidente del Cnel e più volte ministro. “E’ una miopia, è egoismo dei policy maker – sostiene – essa fa sì che ogni volta che arriva un governo nuovo, questo decide che tutto ciò che ha fatto il predecessore era sbagliato e ricomincia da capo. Questo, insieme alla breve durata media dei nostri governi e alla qualità media discendente della pubblica amministrazione, porta alle opere incompiute”.
 

L’elenco di quelle rimaste sulla carta, a metà o ferme all’ultimo chilometro è lungo e surreale. E qualcuna si perde nella preistoria politica. Chi si ricorda di Flaminio Piccoli, Mariano Rumor e Toni Bisaglia? Corrente dorotea e Dc oggi dicono poco ai più giovani, ma i tre leoni democristiani hanno per anni rappresentato il potere dominante in Italia. Ed è con loro al comando che nasce l’autostrada Trento-Vicenza-Rovigo, subito battezzata Pi-Ru-Bi, acronimo delle iniziali dei tre cavalli di razza dello Scudo crociato. Il progetto è del 1968, i primi lavori nel 1972, Piace alla Dc, non la vuole l’opposizione, litigano le regioni, insorgono gli ambientalisti;  e così negli anni si procede a sprazzi, realizzando tronchi ma non completando il tracciato ipotizzato, non si parte da Trento e non si arriva a Rovigo. Come sempre adesso si promette di completarla, ma di fatto dopo 56 anni non è ancora finita.
 

E che dire della Asti-Cuneo? In Piemonte si comincia a pensare a come alleggerire il traffico locale nel 1985 e il provvedimento legislativo risale al 1988. I lavori veri e propri partono però 10 anni dopo, si procede a rilento e ci si blocca su un quesito amletico a cui non si riesce a dare pronta soluzione: fare o no una galleria collinare? Parte il dibattito sulle varianti, poi sulle concessioni, poi sul sistema di pedaggio, poi sul collegamento con la Torino-Savona, con il contributo di governo, regione, Anas, Corte dei conti, Consiglio di stato, Commissione Europea, ministero dei Beni culturali, sovrintendenza. Gli ultimi aggiornamenti parlano di possibile chiusura dei lavori entro il 2024, cancellando, si spera, la ridicola situazione di un collegamento incompleto da più di vent’anni perché non si  sono terminati gli ultimi 10 chilometri su un totale di 90. 
 

Le autostrade comunque, si sa, sono opere complicate. Non solo dal punto di vista ingegneristico, campo nel quale la capacità tecnica italiana è di assoluto livello. Sono difficili per gli ostacoli esogeni. L’Autostrada del Sole, da Roma a Napoli, è stata costruita in otto anni, ma per bypassare il vecchio tracciato appenninico e fare la direttissima, o bretella che dir si voglia, tra Firenze e Bologna (59 chilometri) ce ne sono voluti invece 32. Nove sono serviti per i lavori veri e propri (42 viadotti, altrettante gallerie), ventiquattro per passare dalla prima idea progettuale all’ultima autorizzazione, schivando ostacoli e veti della politica locale e degli ambientalisti. E i costi sono passati dai 2,5 miliardi previsti nel 1997 ai 4,1 a consuntivo del 2015. Ma almeno è stata fatta, facendo risparmiare tempi e carburante a chi la percorre alternativamente al vecchio percorso. È sempre in panchina invece la Civitavecchia-Livorno, definita l’autostrada platonica, perché è nei sogni di tanti e lì rimane, in piena area onirica. Servirebbe a dotare la dorsale tirrenica di un completamento veloce tra Lazio e Liguria, ma sino ad oggi è servita soprattutto ad alimentare un dibattito dai toni culturali altissimi, anche perché le tocca attraversare la Maremma buen retiro di molti intellettuali di riferimento dell’arcipelago della sinistra. Che hanno alzato da subito un intenso ed efficace fuoco di sbarramento mediatico. Che ha permesso di rimandare alle calende greche la decisione su come e quando farla. Perciò se ne è discusso per almeno 40 anni, senza risultati. Poi, nel 2017 l’idea di una vera e propria autostrada sembra venire accantonata per sempre, per ripiegare su un potenziamento della consolare Aurelia. Come sempre un timbro lo mette il ministro Salvini: “Inizio lavori nel 2025”, Storia finita? Non tutti ci credono, anche perché bisogna trovare i soldi. Dove li prendiamo?

I ritardi e i soldi

Ritardi, sempre ritardi. L’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori italiani, è rassegnata a convivere con le incertezze prodotte dalla politica (e non è solo sui cantieri che proietta i suoi effetti), ma è meno tollerante sulle complessità del sistema normativo, che alla fine ha un effetto disastroso: tranne rari casi non rende remunerativo fare opere pubbliche in casa. Tanto che nella sede di via Guattani si ricorda sempre un aneddoto: il presidente di un grande gruppo francese, Lafarge, che in visita in associazione ha commentato con ironica compassione: “Che brave che sono le imprese italiane, alla fine di tutto riescono perfino a guadagnare qualcosa”. Federico Ghella, vicepresidente Ance, la vede così. “In Italia c’è una scarsa progettualità sul futuro delle infrastrutture – dice – e questo allontana gli stranieri, che vogliono programmare le loro strategie guardando a orizzonti temporali medio-lunghi. Altro deterrente è l’incertezza in caso di controversie: anche qui spaventano le tempistiche incerte su contenziosi e risarcimenti. Infine il problema più grosso: i rischi sono tutti a carico delle imprese”. In pratica, spiega, il sistema è ingessato. Tra burocrazia asfissiante, continue richieste di valutazioni ambientali, prezzi bloccati, asfissiante obbligo di sottoporre all’Anac le varianti ai lavori, il margine di guadagno è da subito molto basso. E si annulla se crescono i costi dei materiali o si moltiplicano gli adempimenti. A molte imprese non resta che fermare i lavori: i cantieri chiudono. “Ed ecco allora il cimitero delle incompiute, o i ritardi decennali, perché non tutte le imprese hanno le spalle forti per farsi carico di costi in continua crescita”. Anche perché spesso alle gare partecipano imprese non solidissime, che magari vincono gare con forti ribassi d’asta e poi incrociano le dita. O altre che si sono sentite grandi perché hanno incassato tanto col Superbonus 110 per cento: non sempre però la scommessa funziona, e senza il paracadute del “gratuitamente” si va a gambe all’aria. Poca selezione dei committenti? Spesso non c’è di meglio da scegliere, perché i gruppi più grandi gli affari li fanno ormai quasi tutti all’estero: oggi lavorano in 70 paesi, ed il fatturato fuori casa supera i 17 miliardi di euro l’anno. L’Ance apprezza comunque i recenti progressi semplificativi del codice degli appalti e spera in uno sviluppo dei Collegi tecnici consultivi e nell’introduzione di Contratti collaborativi, come all’estero, dove definire sin dall’inizio il giusto margine di guadagno dell’impresa.

E poi arriva il Giubileo

In un sistema cosi incerto e caleidoscopico è allora una festa quando arriva un evento come il Giubileo, perché l’eccezionalità dell’occasione porta con sé misure straordinarie in materia di gare d’appalto. Quello del 2000, celebrato da Papa Wojtyla, è stato un successo grazie alla partecipazione di milioni di giovani e ha lasciato, grazie ai 2 miliardi stanziati ed alle procedure abbreviate, opere importanti alla città, come il risanamento dell’area antistante a Castel Sant’Angelo, il sottopasso del Gianicolo, gallerie sotto il Grande Raccordo Anulare, il raddoppio della Roma- Aeroporto di Fiumicino, il passante a nord-ovest che rende meno problematico raggiungere l’ospedale Gemelli, l’Auditorium delle Musica. Roma ha ringraziato, il lavoro un po’ meno (sono state create occupazioni a bassa produttività e basse competenze, dice Bankitalia), il turismo è cresciuto, i prezzi degli immobili pure. Purtroppo non si è riusciti a migliorare il sistema dei trasporti sotterranei. Le inchieste per gli appalti, alla fine, si sono concluse con poche condanne e molti nulla di fatto, se nulla di fatto può essere considerata la gogna a cui sono stati esposti tecnici e politici. Il Giubileo straordinario del 2015 indetto da Papa Francesco, invece, non ha dato i risultati attesi: pochi soldi e con il contagocce, tante opere rimaste incompiute: niente chiusura dell’Anello ferroviario, niente Ostello al posto dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. Ora ne arriva un altro, nel 2025. Diversi miliardi stanziati, più di 200 gli interventi previsti.
 

La città è un cantiere. È previsto il rifacimento di 500 km di strade, il miglioramento di marciapiedi e sagrati, la copertura integrale a 5G della città, pensiline digitali per l’Atac, nuovi treni per la metropolitana e una stazione a piazza Venezia, la riqualificazione di piazza San Giovanni e di piazza della Repubblica. Sui tempi però si addensano nubi. Il sindaco Gualtieri ha ammesso che il 42,5 per cento  delle opere a inizio febbraio era in ritardo sui tempi di marcia. Ma si va avanti per rendere la città più “pulita, solidale e inclusiva”. Frasi che ricordano il “Roma più bella e superba che pria” di Ettore Petrolini. Speriamo bene. Perché l’Expo è sfumata e il prossimo Giubileo sblocca-opere lo vedremo tra 25 anni.

Di più su questi argomenti: