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l'editoriale del direttore

Le dieci sfide che attendono Meloni dopo le elezioni in Abruzzo

Claudio Cerasa

L’Abruzzo è importante, ma l’orizzonte dell’esecutivo è ancora lungo. Crescita, attrattività dell’Italia, rapporti con l’America, l’Europa e   l’Ucraina, industria e innovazione, giustizia: su questi temi deve decidere cosa farà da grande la presidente del Consiglio  

Onda o non onda? Resistenza o resilienza? Ripresa o delusione? I risultati delle elezioni in Abruzzo non sono ancora ufficiali. Ma a prescindere dai numeri definitivi delle nuove consultazioni regionali, consultazioni molto diverse rispetto a quelle della Sardegna, sia per il sistema elettorale che ha impedito il voto disgiunto, sia per la presenza di un’opposizione che si è presentata magnificamente compatta, sia per la presenza di un elettorato che almeno in partenza era sensibile più al richiamo della destra che a quello della sinistra, consultazioni vinte in ogni caso nettamente dal centrodestra con sette punti di distacco sugli avversari, un dato è certo e riguarda la necessità da parte della presidente del Consiglio di decidere cosa vuole diventare da grande. Le regionali sono importanti, ovvio, misurare il consenso è cruciale, chiaro, ma l’orizzonte del governo è ancora lungo, le regionali hanno un peso, le europee pure, ma la maggioranza meloniana ha il dovere, anche durante la lunga campagna elettorale, di guardarsi allo specchio e di provare a capire cosa c’è che, Abruzzo a parte, ancora non funziona.

A voler essere sintetici e schematici potremmo limitarci a individuare dieci sfide.

Sfida numero uno: la crescita. L’Italia di Meloni cresce più di molti paesi del G7 ma l’Italia di Meloni non è ancora uscita dalla sua ambiguità sul Pnrr. Cosa ha intenzione di fare il governo per non rassegnarsi a ciò che sta accadendo, ovverosia grande bravura nel farsi dare i soldi dall’Europa e incapacità diffusa nello spendere quei soldi? E cosa ha intenzione di fare il governo per sfruttare la bonaccia economica determinata dalla messa a terra di una parte dei soldi del Pnrr, che hanno aiutato l’Italia, insieme al dispendioso Superbonus, ad avere una crescita superiore al previsto?

Sfida numero due: l’attrattività. L’Italia, anche grazie alla politica estera trasversalmente apprezzata di Meloni, gode di una buona reputazione all’estero, la stabilità del governo è un elemento in grado di offrire garanzie sul futuro, ma finora il governo più che attrarre capitali, più che attrarre investimenti, più che attrarre multinazionali si è fatto riconoscere e, per così dire, apprezzare per aver messo in fuga alcuni giganti dall’Italia. Primo caso: Intel. Secondo caso: ArcelorMittal. Che fare?

Sfida numero tre: Trump. La candidatura dell’ex presidente americano sarà sempre più un elefante nella stanza per Meloni ma la capacità di non seguire la linea Salvini, di non indossare cappellini trumpiani durante la campagna elettorale, di non mostrare segnali di cedimento rispetto alla posizione mainstream assunta dal governo italiano sui grandi dossier di politica estera sarà la vera cartina al tornasole per comprendere se le svolte moderate di Meloni sono vere o dettate dal semplice algoritmo dell’opportunità.

Sfida numero quattro: l’Ucraina. Il sostegno convinto, sincero, forte, genuino offerto dal governo Meloni all’Ucraina è uno dei fiori all’occhiello della stagione meloniana ed è stato anche il passepartout che ha permesso alla presidente del Consiglio di far dimenticare ai suoi partner europei le scorribande populiste del passato. Ma più la campagna elettorale americana andrà avanti e più sarà chiaro che l’impegno dell’Europa nel sostenere l’Ucraina dovrà essere maggiore rispetto a quello che è oggi. E più questa consapevolezza sarà evidente e più Meloni dovrà decidere se continuare a schierare o no l’Italia all’avanguardia della difesa di una democrazia ferita.

La sfida numero cinque è quella che riguarda il posizionamento in Europa e questa sfida non ha solo a che fare con il sostegno che Meloni darà a chiunque vincerà le elezioni in Europa (nella larga coalizione che con ogni probabilità andrà ad appoggiare il prossimo presidente della Commissione, il partito di Meloni ci sarà) ma ha anche a che fare con il posizionamento che Meloni sceglierà di avere tra le famiglie europee. E per quanto possa essere politicamente interessante muoversi da cerniera tra il fronte europeista e quello euroscettico, prima o poi Meloni dovrà rendersi conto che un paese guidato da un partito che non ha familiarità con le grandi famiglie europee è un paese che potrà dire poco nelle partite che contano (sull’Expo, sulla Bei, sull’Autorità antiriciclaggio, sul Tribunale dei brevetti, l’Italia, quando ha avuto la possibilità di giocare una partita, l’ha sempre persa).

La sfida numero sei è quella che riguarda l’innovazione e anche qui le ambiguità mostrate da Meloni sono purtroppo infinite e l’attenzione dedicata al dossier innovazione (che questa settimana sarà al centro del G7 fra Trento e Verona) è pari a zero. Qualche numero? Eccolo. Il pil dedicato alla ricerca e allo sviluppo dall’Italia meloniana è sceso dall’1,5 per cento del 2022 all’uno per cento del 2023 (media Ue 2,1 per cento). Gli investimenti in Pmi innovative sono scesi nel 2023 da 2 a 1 miliardo. La quota di venture capital presenti in Italia è un quinto rispetto a quella inglese. Le startup innovative che sono nate nel 2023 sono state il 3,6 per cento in meno rispetto all’anno precedente.

La sfida numero sette riguarda la giustizia, uno dei terreni su cui il governo potrebbe mostrare i muscoli, mostrare capacità di visione, mostrare di avere coraggio ma dopo quindici mesi di governo la rivoluzione meloniana è avvenuta a metà: il garantismo è un mantra dell’esecutivo, e questo è positivo, ma le riforme garantiste che contano sono ancora lontane nel tempo, e senza una volontà politica del presidente del Consiglio di sfidare apertamente la repubblica delle manette, del voyeurismo, delle procure, i passi avanti che l’Italia potrebbe fare, nel riequilibrare il rapporto tra il potere giudiziario e quello legislativo, resteranno solo buone intenzioni.

La sfida numero otto riguarda la capacità che mostrerà Meloni di voler prendere di petto i grandi dossier industriali del nostro paese e di metterli nella giusta carreggiata sapendo bilanciare le tentazioni nazionaliste con le prerogative del mercato. Al centro di questa agenda, ovviamente, c’è ancora il caso Ita, c’è il disastro di Tim, c’è il futuro di Ilva, ci sono le molte privatizzazioni annunciate, c’è il destino di Mps e c’è la necessità di saper agire su un doppio binario: uscire fuori dalla logica assistenzialista del modello della cassa integrazione eterna, già sperimentata con fallimenti vari dai governi precedenti su Ilva, ed entrare in un mondo nuovo all’interno del quale lo stato fa da supplente al mercato solo quando il mercato non riesce a fare il suo lavoro.

La sfida numero nove riguarda un tema delicato, che si trova spesso al centro dei conflitti latenti con il Quirinale, e quel tema ha a che fare con la qualità delle nomine del futuro. Nomine di primo piano (Cdp, Ferrovie, Anas, Aisi). Nomine più di routine (gli ambasciatori, sui quali capita non di rado che vi siano frizioni con il Colle più alto). Nomine nel sottobosco dell’establishment di stato (la cultura). Nomine di fronte alle quali Meloni dovrà dimostrare di aver imparato dagli errori del passato e di aver capito che differenza c’è tra volersi affidare prima di tutto al criterio della competenza e il volersi affidare prima di tutto al criterio della lealtà.

La sfida finale è una sfida più politica, verrebbe da dire politicistica, ed è una sfida al centro della quale vi è il futuro della premier: per decidere cosa fare da grande occorre decidere cosa fare anche del proprio partito, decidere cosa fare del partito significa voler decidere cosa fare con la classe dirigente del futuro e decidere cosa fare da grande nei prossimi mesi significherà per Meloni decidere se proiettare o no il proprio partito verso un predellino delle libertà, verso un futuro più da conservatori che da post fascisti. L’uscita dall’Abruzzo è importante, ma l’uscita dalla stagione delle ambiguità, per Meloni, lo sarà ancora di più.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.