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la riflessione

Una riforma per arrestare il declino

Michele Salvati

La crisi delle democrazie liberali genera, a destra e  sinistra, risposte populiste che non risolvono il problema. Una riforma costituzionale relativa al rafforzamento del primo ministro, se condivisa, darebbe inizio a una vera Seconda Repubblica

I partiti di democrazia liberale dei paesi capitalistici avanzati sono in serie difficoltà a partire dalla Grande Recessione del 2007-2008, e l’Italia assai prima di allora: i consensi elettorali che essi ricevono continuano a ridursi. La ragione principale risale da ultimo alle trasformazioni del sistema economico internazionale (globalizzazione e rivoluzione tecnologica) che questi partiti avevano assecondato, causando disagi e sofferenze diffuse, e non soltanto tra i ceti più poveri della popolazione. Di qui il successo di nuovi partiti nazionalisti e populisti, o il rafforzamento di tendenze nazional-populistiche all’interno di partiti che in precedenza sostenevano principi di democrazia liberale. Si tratta dunque di una crisi grave, di sistema: è in crisi il sistema politico che ha organizzato il confronto democratico nell’Occidente liberale del dopoguerra.

 

Una risposta nazionalista e populista aggraverebbe la crisi, sia a livello internazionale che nazionale. A livello internazionale accentuando restrizioni commerciali e conflitti politici, invece di alimentare uno sforzo comune mirato all’attenuazione delle minacce che incombono sull’intero pianeta. A livello nazionale una risposta nazionalpopulista non risolverebbe i problemi sociali ed economici che provocano la protesta politica: le “soluzioni” proposte da movimenti populisti o sono impossibili da attuare, o aggraverebbero le difficoltà del paese se fossero attuate. Il che è inevitabile, essendo disegnate allo scopo preminente di ottenere un facile consenso da parte di cittadini arrabbiati e confusi e senza tener conto delle difficoltà che incontrerebbe il governo nella loro attuazione.

 

Questo avviene anche se resta in vita, o viene ancor più accentuata, la divisione tra destra e sinistra, una divisione permanente e inevitabile in un confronto politico democratico. Ma in un contesto liberaldemocratico, come si verificava in tempi ormai lontani, il confronto avveniva tra partiti che avevano in comune una valutazione realistica su quanto un governo nazionale fosse in grado di fare per riformare aspetti insoddisfacenti della situazione del paese, o quantomeno questo valeva per i partiti che raccoglievano consensi sufficienti per governare. E, ancor più importante, avveniva in condizioni in cui un continuo miglioramento del benessere dei cittadini non era minacciato. Quando un sistema politico nazionale deve affrontare una situazione che, rievocando il grande libro di Polanyi, potremmo definire come la “Grande Trasformazione 2”, il confronto destra/sinistra non funziona più nella modalità ben temperata della democrazia liberale: la destra e la sinistra, per prevalere elettoralmente, tendono ad acquisire caratteri populisti.

 

Le forme e i modi in cui ciò si manifesta variano molto da paese a paese, a seconda della competitività dell’economia e del radicamento storico della democrazia liberale. Tra i maggiori paesi europei, l’Italia è particolarmente fragile sotto entrambi gli aspetti ed ha risentito della crisi assai prima e in modo più grave degli altri. Già alla fine del secolo scorso, in condizioni politiche ed economiche favorevoli per le liberaldemocrazie europee, nella nostra si è verificato un crollo simultaneo del precedente assetto politico e un collasso a mala pena sventato del suo sistema economico-finanziario. E questo è avvenuto perché la crisi di sistema della liberal-democrazia si associa in Italia a problemi economici e politici di antica origine e più gravi di quelli che incontrano altre grandi liberaldemocrazie. Problemi che, nei trent’anni successivi allo sventato collasso dei primi anni 90, non sono stati superati e, anzi, si sono aggravati.

 

Ricreare a livello nazionale modalità di funzionamento proprie di un sistema politico “ben temperato”, capaci di resistere nelle difficili condizioni internazionali odierne, credo sia un compito che una destra e una sinistra liberaldemocratiche dovrebbero anteporre ai loro tradizionali obiettivi di parte, nella consapevolezza che alternative populistiche non consentirebbero di raggiungerli e avvierebbero il paese verso una situazione di declino economico e sociale. Prima di affrontare il caso italiano, credo però sia opportuno accennare a un obiettivo che non discende in modo necessario dai caratteri definitori di una democrazia liberale, ma a questi dev’essere associato se trattiamo di paesi, e dell’Italia in particolare, che fanno parte dell’Unione Europea.  


La crisi di sistema della liberal-democrazia si associa in Italia a problemi economici e politici di antica origine. La natura dello scorpione iscritta nel Dna di ogni partito. L’elezione diretta del premier secondo la legge costituzionale proposta dal governo. Condivisibile? Se ne parlerà dopo le elezioni



I caratteri definitori di una democrazia liberale si riferiscono solitamente a un singolo stato nazionale sovrano, che agisce in un contesto internazionale di una pluralità di stati simili, e di per sé non forniscono indicazioni cogenti sull’opportunità di legare un gruppo di tali paesi in una federazione cui essi conferiscano aspetti importanti della loro sovranità. Per ragioni ben note, questo è quanto è avvenuto in Europa e il problema di quali aspetti della sovranità conferire, in quali tempi e in quali modalità – se ambire ad un obiettivo finale di Stati Uniti d’Europa o fermarsi assai prima – è per i paesi che fanno parte dell’Unione Europea un problema politico che è altrettanto importante di quelli di un assetto liberale e democratico. Chi scrive è convinto che cessioni di sovranità, come anche alleanze internazionali vincolanti, possano contribuire al successo della democrazia liberale, purché gli stati che le sottoscrivono rispettino rigorosamente, nel loro ordinamento interno, i caratteri di una democrazia rappresentativa e l’assetto istituzionale di uno stato di diritto liberale.

 

Abbiamo così definito i caratteri di una destra e di una sinistra democratico-liberali alle quali i paesi dell’Unione Europea dovrebbero tendere, nella convinzione che si tratti di un confronto politico inevitabile in democrazia, e di un conflitto fecondo quando è perseguito nelle modalità ben temperate precedenti alla crisi. E nella speranza – debole ma non nulla – che tale modalità di confronto si riveli possibile in singoli paesi anche nelle turbolenze prodotte dalla rivoluzione tecnologica, dalla mondializzazione dell’economia e dal modo in cui i regimi liberaldemocratici le hanno affrontate. Dobbiamo ora sottoporre queste convinzioni e speranze al test particolarmente difficile del caso italiano.

 Riavvolgiamo il nastro. La maggiore gravità della crisi italiana è dovuta a due regioni principali: (a) al più debole radicamento storico, e di conseguenza a una minore condivisione tra le forze politiche e negli elettori, di una concezione liberaldemocratica; (b) alla minor competitività dell’economia, ciò che a partire dagli anni 90 del secolo scorso provocò e continua oggi a provocare una crescita del reddito pro-capite minore di quella, già modesta rispetto al passato, dei paesi con i quali ha senso confrontarci.  Queste due ragioni principali sono strettamente collegate: l’insufficiente condivisione di una concezione liberaldemocratica è alla radice di un conflitto destra/sinistra improprio ed esasperato e di scelte di politica economica e sociale che ostacolarono il compito, già difficile, di governare un paese in cui era in corso una profonda trasformazione strutturale. E continuano a ostacolarlo oggi. Ma vediamo meglio.

 

Au fond, la prima ragione, (a), risale alla permanenza nel nostro paese di concezioni politiche che trascinarono nel secondo dopoguerra i conflitti ideologici che avevano travagliato alcuni dei maggiori paesi industrialmente avanzati nella tragica fase storica che fece seguito alla Prima guerra mondiale. Questa è la grave anomalia d’origine del sistema politico dell’Italia repubblicana. In due dei maggiori paesi sconfitti nella Seconda, Germania e Giappone, concezioni ostili alla liberaldemocrazia cessarono rapidamente di avere una forte rilevanza politica. Così non avvenne in Italia e la Costituzione di compromesso che venne adottata per la neonata Repubblica – aggiungo subito “fortunatamente”, rispetto ad alternative assai peggiori – ne permise la sopravvivenza sino alla crisi politica ed economica degli ultimi anni della Prima Repubblica.

 

Questo però, (b), ebbe costi pesanti sulla continuità della crescita economica. Economisti e storici politici ed e economici hanno ricostruito questa lunga storia e qui non posso che rimandare all’imponente letteratura, anche se ci limitiamo a quella seria, che si è accumulata in proposito: faccio solo un riferimento all’Annale Feltrinelli curato da Franco Amatori (L’approdo mancato, 2016) perché, oltre a esempi illuminanti della politica economica del dopoguerra, contiene una mia succinta interpretazione generale della stessa. Ma proprio perché la storia è lunga (per fare l’esempio più evidente: l’anomalo debito pubblico che ancora oggi ci opprime si forma durante la Prima Repubblica, e la cosiddetta Seconda non è mai riuscita a eliminarlo), essa ha messo radici profonde nel paese e ha provocato adattamenti perversi. L’Italia è da tempo avviata in una traiettoria di declino e invertirla è molto difficile, anche da parte di governi di destra o di sinistra che oggi accettassero convintamente un orientamento liberaldemocratico, che largamente condividessero una diagnosi delle sue cause e rifuggissero da uno sterile scontro su quale forza politica ricada la maggiore responsabilità.


Forse non sarebbe neppure necessario un referendum confermativo e la riforma potrebbe avvenire esclusivamente per via parlamentare:  il referendum, in passato, è stato solo un modo di verificare la popolarità delle forze politiche che lo propongono o che l’avversano nel momento in cui il referendum si svolge


Invertire quella traiettoria non solo è difficile, ma è soprattutto molto lento, perché si tratta di un’impresa che, anche nelle migliori condizioni, occuperebbe molte legislature data la gravità dei guasti cui occorre porre rimedio: dopo una o due legislature soltanto, la gran parte degli elettori non si accorgerebbe affatto che, per loro, le condizioni di benessere sono migliorate. Anzi, è probabile che le misure che il governo assume, in un’ottica di risanamento di lungo periodo dell’economia, aggiungano motivi di sofferenza e insoddisfazione. Ripartirebbe allora una nuova ondata di delusione e di rabbia e i partiti che, per ragioni ideologiche o per calcolo tattico-politico, non avevano partecipato alla coalizione di governo difficilmente resisterebbero alla tentazione di adottare parole d’ordine populiste per sconfiggere quelli che al governo avevano partecipato. E’ avvenuto e avverrebbe ancora. La tentazione di approfittare della rabbia degli elettori per scalzare il governo in carica con proposte populistiche sarebbe molto forte, anche se tutte le forze politiche fossero consapevoli – e le più importanti non possono non esserlo oggi – che una volta al governo non riuscirebbero ad attuarle e che la loro adozione comprometterebbe il successo di una strategia riformatrice di lungo periodo.

 

Anche per partiti in cui fossero maturate queste convinzioni è irresistibile la natura profonda dello scorpione, quella che lo induce a pungere la rana mentre attraversano il fiume, anche se sa che affogherebbero entrambi. “Vincere le elezioni” con tuti i mezzi disponibili – demagogia e populismo tra questi – equivale a pungere la rana, ed è scritta nel Dna di ogni organizzazione partitica. C’è qualche modo di controllare una pulsione così forte? Il modo forse ci sarebbe ma è talmente improbabile che esito persino a formularlo. L’attuale governo ha avanzato una proposta di legge costituzionale sull’elezione diretta del primo ministro che è in corso di discussione nella commissione Affari costituzionali del Senato. L’iter di una proposta di legge costituzionale è lungo, complesso e scandito dalla Costituzione, ma non ha tempi rigidi. E’ probabile, ad esempio, che i partiti, prima di definire in modo ultimativo la propria posizione, oggi vogliano almeno attendere i risultati delle prossime tornate elettorali, regionali, comunali ed europee: risultati che potrebbero alterare notevolmente i rapporti di forza interni all’alleanza di governo e tra i partiti di opposizione. 

 

Allo stato attuale del confronto, una decisione condivisa da una larga maggioranza parlamentare sembra molto difficile, anche se nello schieramento di governo e in quello di opposizione ci sono forze che la auspicano. Ma l’esito delle prossime elezioni potrebbe modificare la situazione: il rafforzamento dei poteri del primo ministro era nel programma originario del Partito democratico, e una designazione chiara di chi gli elettori hanno scelto come premier potrebbe aversi appena chiuse le urne, anche se in modo diverso da quello previsto dall’attuale progetto governativo. Se, all’interno del Pd, prevalesse una diversa valutazione dei costi/vantaggi che comporta l’attuale tentativo di alleanza con i 5 Stelle di Conte; se, tra i partiti di governo, si registrasse un buon successo di Forza Italia; se la premier si decidesse ad accentuare il suo profilo di statista – di “Thatcher all’italiana” – non è impossibile che una larga maggioranza parlamentare possa essere raggiunta.

 

Se ciò avvenisse (… ma quanti “se”!) potrebbe avviarsi un processo di regime change, e una riforma costituzionale condivisa darebbe inizio ad una vera Seconda Repubblica. La riforma sarebbe suggellata dall’accordo delle principali forze politiche: da una destra e di una sinistra consapevoli che il conflitto improprio ed esasperato del passato impedisce di attuare le riforme necessarie per invertire il declino del paese e potrebbe avviare entrambe verso la dialettica più moderata che le comuni convinzioni liberaldemocratiche consentirebbero. Forse non sarebbe neppure necessario un referendum confermativo e la riforma potrebbe avvenire esclusivamente per via parlamentare: questo consentirebbe di evitare il coinvolgimento dei cittadini su un argomento che alla gran parte di loro non interessa: il referendum, in passato, è stato solo un modo di verificare la popolarità delle forze politiche che lo propongono o che l’avversano nel momento in cui il referendum si svolge, ed è difficile evitare che questo avvenga anche in futuro.

 

Qualora un largo accordo trasversale non venisse raggiunto, il progetto governativo potrebbe prevalere già a livello parlamentare o a seguito del referendum confermativo. In entrambi i casi la conflittualità tra le forze politiche aumenterebbe, specialmente se fosse necessario un referendum che mobilitasse in modo partigiano gran parte dell’elettorato: si tratterebbe infatti di un progetto in cui potrebbe riconoscersi solo uno dei due grandi orientamenti ideologici della dialettica democratica di un paese capitalistico avanzato. Le conseguenze politiche sarebbero però negative anche se si andasse al referendum e il progetto di riforma governativo venisse sconfitto, perché ciò confermerebbe la permanenza di posizioni inconciliabili anche tra partiti di destra e di sinistra che dovrebbero riconoscersi in un comune credo democratico liberale. In entrambi i casi si sarebbe persa una grande occasione. 

 

E in ogni caso, anche se l’occasione non venisse persa, si tratterebbe solo di un inizio e le difficoltà maggiori sarebbero solo rinviate. I partiti che hanno promosso l’accordo costituzionale iniziale si troverebbero subito di fronte il problema di tornare a combattersi nelle successive prove elettorali e poi di perseguire i loro diversi programmi di governo nel contesto di un nuovo clima di bipolarismo “ben temperato”. 

 

 Questo però richiede che la vittoria elettorale di una coalizione non sia interpretata, da chi l’avversa, come un evento drammatico e irreversibile. In particolare, il nuovo clima richiede che le politiche perseguite dalla coalizione di destra debbano essere intese come correzione parziale di quelle perseguite dai suoi avversari, e viceversa: dunque una correzione che non smentisce la linea politica liberal-democratica che il paese persegue. Correzione, non rovesciamento. Solo in questo caso una dialettica democratica intensa non contrasterebbe con l’obiettivo di una (lenta) rimozione degli ostacoli che stanno causando il declino del nostro paese. (Sono rimasto un veltroniano fuori tempo massimo? E’ molto facile obiettare al mio ragionamento che Veltroni si confrontava con Berlusconi, nel quale impulsi liberali erano ben presenti, anche se confusi e contraddetti da esigenze di sopravvivenza politica ed economica. Oggi il Pd si confronta con un ceto politico in buona misura composto da ex fascisti, in molti dei quali una cultura liberale è del tutto assente, nonostante il coraggioso, ma fallito, tentativo di Gianfranco Fini. Era assente anche nel ceto politico di provenienza Pci, e il lungo travaglio dopo la svolta di Occhetto, continuato anche dopo la formazione del Partito democratico, dà un’idea dei tempi necessari se un partito non liberale non vuole o non può tagliare nettamente i ponti con i suoi vecchi quadri e militanti. Ma i tempi stringono, le condizioni economiche si fanno sempre più sfavorevoli ed è sempre più necessario che l’anomalia d’origine del sistema politico italiano venga estirpata alla radice. E’ questo che mi ha indotto a firmare il documento, sottoscritto da liberali di destra e di sinistra, che auspica una riforma costituzionale condivisa, anche se dubito fortemente che ciò possa avvenire. Ma nulla deve dev’essere lasciato intentato. Il pallino, oggi, è nelle mani Giorgia Meloni. A chi l’avversa politicamente, mentre auguro di riflettere a fondo sulle conseguenze della riforma costituzionale auspicata, raccomando di non rendere inutilmente – ripeto, inutilmente – difficile il compito che la premier deve affrontare).

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