editoriali
Il dibattito surreale sull'autonomia
Destra e sinistra danno il loro peggio su un dossier che potrebbe unire. Vie per uscirne
La legge sull’autonomia differenziata punta a dare attuazione alla riforma costituzionale del 2001, varata dal centrosinistra, in cui è stata cancellata la gerarchia tra i livelli di governo. L’articolo 114 oggi vigente dice che “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato”, prosegue affermando che comuni province regioni ecc. “sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Lo stato non è più sinonimo della Repubblica, ne è una delle componenti al pari delle autonomie locali e regionali. La riforma dell’articolo 116 ha inoltre stabilito che le regioni a statuto ordinario possono ottenere funzioni speciali di autonomia nelle materie oggetto di potestà legislativa concorrente e in alcune altre, tra le quali l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente e i beni culturali. La Costituzione, inoltre, stabilisce che le regioni dispongono di potestà regolamentare in ogni materia non riservata in via esclusiva allo stato e che possono legiferare anche in quelle riservate se ottengono una delega.
L’attribuzione alle regioni di questi nuovi poteri è prevista dalla Costituzione in modo esplicito: la legge in discussione definisce la procedura di attuazione di queste norme, stabilite a suo tempo proprio dal centrosinistra che ora sostiene che queste norme sono incostituzionali. Ovviamente, se fosse richiesta di cassarle, la corte costituzionale non potrebbe far altro che richiamarsi al testo costituzionale in vigore. Le regioni hanno il diritto di chiedere un ampliamento delle loro competenze e lo hanno fatto (comprese l’Emilia e Romagna e la Campania a suo tempo) ed è ragionevole definire criteri e procedure per stabilire se concederle e come. Naturalmente si può dubitare della riforma costituzionale, ma non si può non osservarla. Questo dovrebbe indurre a avviare una discussione sul merito evitando di utilizzare toni esasperati e pregiudiziali. Argomenti concreti di discussione, peraltro, non mancano di certo.
C’è un altro principio costituzionale che va osservato, quello della garanzia dei livelli minimi di prestazioni cui hanno diritto tutti i cittadini, indipendentemente da dove risiedano, e questo principio deve essere reso compatibile con il nuovo sistema di poteri che deriverebbe dall’ampliamento richiesto da alcune regioni. In pratica, come peraltro ha stabilito una sentenza della Consulta del 2001, ciò si traduce nella garanzia di spesa corrispondente a questa esigenza. Nella legge sull’autonomia differenziata questo concetto è stato ribadito, affermando che si tratta di “diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale”. Sul principio non ci sono divisioni, ma non è chiaro come si faccia a ottenere questo risultato, che non corrisponde alla situazione reale, anche in assenza di nuove norme sui poteri regionali. Si può discutere se le evidenti disparità nel godimento dei diritti sociali tra le diverse aree del paese dipenda dalla distribuzione delle risorse (che vengono tutte o quasi dallo stato in assenza di sostanziali poteri impositivi delle autonomie) o dal modo in cui le regioni e le altre autonomie le utilizzano.
Formalmente la legge non modifica la distribuzione delle risorse: alle regioni che ottengono nuovi poteri verrebbero erogate direttamente le somme che ora lo stato usa per esercitare quelle funzioni, ma siccome il sistema attuale non garantisce l’equa fruizione dei diritti non si capisce perché e come le cose cambierebbero in meglio con l’autonomia differenziata. Naturalmente nessuna legge può risolvere il divario tra nord e sud e l’idea che la centralizzazione dei poteri sia in grado di farlo non sembra fondata su nulla e non corrisponde all’esperienza di questi ultimi decenni. D’altra parte la procedura per la approvazione dei singoli trasferimenti di poteri alle regioni che li chiedono è molto articolata, richiede il parere della conferenza stato-regioni e votazioni parlamentari, il che consentirà di valutarne nel merito le eventuali conseguenze negative sull’equilibrio territoriale (o meglio sull’eventuale accentuazione dello squilibrio che è attualmente in atto). Tutto ciò dovrebbe indurre a un confronto di merito, che però richiede più impegno e più competenze di una semplice esaltazione o demonizzazione acritiche e pregiudiziali, ma è questo che passa il convento della politica italiana.
L'editoriale del direttore