Il discorso

Mattarella, linea chiara su guerra e pace. Contro il "buonismo astratto"

Simone Canettieri

Le parole di fine anno del capo dello stato. L'appello ai giovani a essere protagonisti, i richiami contro la violenza. Sedici minuti senza frontali con il governo. Ma con piccoli richiami. A partire dalla lotta all'evasione 

"Care concittadine e concittadini". L'albero di Natale illuminato sullo sfondo. Parla in piedi per sedici minuti dall'uscio della sala Tofanelli del Quirinale. Ma attenzione: fa due passi in avanti, il presidente. Segno che non ha voglia di uscire di scena. Sergio Mattarella, 82 anni, nel suo secondo discorso di fine anno da presidente bis della Repubblica, pattina con attenzione fra politica e attualità, facendo in modo che le sue parole non diventino frecce nell'arco dell'opposizione e, di converso, sculacciate per il governo. La meccanica politica d'altronde è nota. Spoiler: non parla della riforma costituzionale che in qualche modo potrebbe toccarlo, Si spinge a dire - e questo è il massimo - che il voto non è una delega in bianco. E quindi, oltre a battere l'astensione in vista delle europee, occorre vigilare, o meglio partecipare.

Allo stesso tempo, il capo dello stato mette in fila una serie di priorità figlie dell'anno appena passato. C'è la spinta a una maggiore lotta all'evasione fiscale, tema sempre verde a queste latitudini, e poi gli affitti per gli studenti balzati alle stelle, ma anche le liste di attesa degli ospedali, senza dimenticare le tante Caivano d'Italia e il lavoro sotto pagato (argomenti che faranno brillare gli occhi alle opposizioni).

Mattarella si rivolge molto ai giovani nel suo discorso dopo i casi di femminicidio che hanno dominato le cronache: "Cari ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso, orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità. Penso alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete. Penso alla violenza che qualche gruppo di giovani sembra coltivare, talvolta come espressione di rabbia. Penso al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza; e del senso di abbandono".

E' la violenza il filo conduttore del discorso del capo dello stato - discorso registrato, quando sarà trasmesso il presidente della Repubblica si guarderà da casa dei figli, insieme ai nipoti - e quindi non si esce dalla guerra. A partire da quella in Ucraina. E qui le parole di chi fu anche ministro della Difesa sono nette quando parla delle "devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla". Sul medio oriente c'è spazio per ricordare "l’orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità". Ma anche "la reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti". Il capo dello stato, pensando a tutti i conflitti che pendono sul mondo, usa l'immagine di "macerie, non solo fisiche, che pesano sul nostro presente e che  graveranno sul futuro delle nuove generazioni".

Invoca la pace, il presidente della Repubblica. Ma sta attento a non entrare nel partito "dell'astratto buonismo". Perché "parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità. Sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace. Occorre che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti. Ma impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da rimuovere; e non la regola del prossimo futuro. Volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole". Il primo passo per la pace, insomma, deve arrivare da qui ha mosso la guerra. Da chi ha invaso, da chi ha calpestato i diritti.

E proprio sui diritti a voler essere maliziosi si potrebbe leggere un monito (parola d'obbligo in queste circostanze) quando l'inquilino del Colle mette al centro questa riflessione: "Quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”. Significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato. Ma, anche, che una democrazia si nutre, prima di tutto, della capacità di ascoltare. Occorre coraggio per ascoltare. E vedere - senza filtri – situazioni spesso ignorate; che ci pongono di fronte a una realtà a volte difficile da accettare e affrontare. Come quella di tante persone che vivono una condizione di estrema vulnerabilità e fragilità; rimasti isolati. In una società pervasa da quella “cultura dello scarto”, così efficacemente definita da Papa Francesco".

Mattarella è nonno e quindi sembra voler prendere per mano i giovani che "si sentono fuori posto. Disorientati, se non estranei a un mondo che non possono comprendere; e di cui non condividono andamento e comportamenti. Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di unirsi nel nome di uno sviluppo globale. In una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle loro speranze. Della loro capacità di cogliere il nuovo. Dipende da tutti noi far prevalere, sui motivi di allarme, le opportunità di progresso scientifico, di conoscenza, di dimensione umana".

Il finale è un sequel del discorso pronunciato prima di Natale davanti alle alte cariche dello stato a proposito dell'intelligenza artificiale: "Mutamenti che possono recare effetti positivi sulle nostre vite. La tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali. Adesso, con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, sta generando un progresso inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali.. Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona - e nella sua dignità - il pilastro irrinunziabile. Viviamo, quindi, un passaggio epocale. Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia. Qualcosa di importante. Con i nostri valori. Con la solidarietà di cui siamo capaci. Con la partecipazione attiva alla vita civile. A partire dall’esercizio del diritto di voto".

La cartoline di nonno Sergio arrivano a Cutro, all'Emilia Romagna alluvionata, alla Campania che rinasce a Casal di Principe. A voler essere politicisti fino all'ossessione ecco la frase che si presta a interpretazioni: "L’unità non come risultato di un potere che si impone".

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.