L'avvocato della premier

Fini difende Meloni contro tutti: "Premierato legittimo. Il Mes lo approverà"

Carmelo Caruso

Partecipa al convegno sul premierato e sono già prove di campagna antireferendum. Sfida Bertinotti che parla "di golpe bianco" e consiglia alla premier di cambiare legge elettorale

La vecchia Repubblica ha processato la nuova. Il premierato è in pratica un parlamenticidio, il presidente della Repubblica viene colpito al cuore. Se non fosse stato per Fini, il gip Gianfranco Fini, la premier veniva condannata alle elezioni a vita. Per l’ex presidente della Camera, il “pm” Fausto Bertinotti, “questa riforma è un colpo di stato bianco, qui si chiede l’eutanasia del Parlamento. Questa costruzione ha un’ambizione alta. Siamo di fronte a un’ipotesi fondativa regressiva”. Fini: “Non la promuovo, non la boccio, ma la riforma non può essere demonizzata”. L’avvocato vero, quello che doveva difendere Meloni, il giurista che ha scritto la riforma, Francesco Saverio Marini, al momento della chiamata, non si trovava: “Professore? Dov’è il professore?”. L’aula di questo processo (verbale) era la saletta dei gruppi parlamentari. L’evento è stato organizzato dall’Asp (Associazione stampa parlamentare) e dall’Associazione ex parlamentari. La presiede Peppino Gargani, sei legislature con la Dc,  88 anni, ed è più tonico di Giovanni Donzelli. Quattro presidenti della Camera come relatori. Zaffate di dopobarba. L’idea: ragionare sulla riforma della premier. Era stato Fini, il giorno precedente, in  Via della Scrofa, a darci la dritta, e pure un etto di chiacchiera: “Il Mes? come volete che finisca. Verrà approvato”. 

 

Ci salverà la convegnistica. Le scolaresche costrette a partecipare, il decano del Pd, Luigi Zanda, che porge il braccio ad Anna Finocchiaro. Enzo Bianco c’è sempre. Non si perde un evento. Finiamo accanto a un democristiano che a ogni intervento dice: “E’ tutta colpa del listino bloccato”. L’ex presidente del Senato Carlo Scognamiglio ha ancora lo stesso loden del 1994. Casini finisce invece per litigare con Fini perché, se ci fosse stato il premierato, “sai bene, non ci sarebbe stato il governo Monti che io e te abbiamo contribuito a formare”. Ma questo è il riassunto. Alle dieci di mattina, ascoltare il professore Enzo Cheli parlare di “scompenso tra potere di vertice e base rappresentativa” è un po’ come entrare in doccia e scoprire che la caldaia si è guastata. Meloni è sicura di volerlo questo premierato? E’ pronta a sfidare la corazzata Bertinottikin? Sono già scene da resistenza. L’inossidabile Gargani a cui la riforma non va per nulla giù ha convocato tre quarti della Seconda Repubblica. Fini, l’ospite più atteso, che prende posto, puntuale, avverte: “L’altra mezza Repubblica arriva dopo”. Indossa un vestito di flanella blu, colore notte stellata Van Gogh. Il cappotto è sempre quello del giorno precedente. Nero. L’istruttoria è affidata all’ex parlamentare Cinzia Dato che nel ruolo di giudice è perfetta. Saluta pure il pubblico e il giovanissimo Leonardo Cesaretti, che avrà non più di 17 anni, già “alfiere della Repubblica”, uno che punta a un seggio nel Meloni IV. Gli ex parlamentari che sono una lobby potentissima, e che il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, definisce un “patrimonio del paese”, hanno invitato pure l’ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli. Marta, di anni 15, finisce nella stessa fila di Calogero Mannino e del generale Mori. Nelle altre, così come fossero loggionisti, siedono Andrea Manzella, Mario Segni, il presidente dell’Agcom, Lasorella. Il Cheli, ancora, interroga la platea: “Meglio una Costituzione operante o disattesa?”. Dopo un’ora il nome più citato è Costantino Mortati, perché “come dice il Mortati”. Lo segue a ruota il “Calamandrei”. Quando prende la parola Mariapia Garavaglia siamo già in piena campagna antireferendaria. Potrebbe fare la segretaria del Pd: “Quando c’eravamo noi, i governi cadevano, ma i parlamenti continuavano a lavorare. Se hai la maggioranza non chiedi continuamente la fiducia. Questa riforma non verrà fatta nel nostro nome”. Coro: “Bravaaaa”. Bertinotti a quel punto fa capire che lui il federatore della sinistra lo può fare, se serve, e che con la riforma si rischia di andare “verso “una democrazia autoritaria che sradica totalmente il suo futuro dalle radici democratiche e antifasciste della repubblica”. Casini, che è sempre “Furby”, ce l’ha con la lingua della destra perché “possiamo fare tutto ma non diciamo che non cambia nulla”. Il povero Fini non ci sta. A dire il vero, quando inizia a parlare, si abbassano pure le luci. Casini: “Vuole l’atmosfera”. Risate. A Fini dispiace che Meloni abbia guardato a Parigi anziché a Berlino, vale a dire al modello tedesco che aveva incassato l’apertura del Pd, ma non per questo, dice, “ho cambiato opinione sul presidenzialismo”. In sala comincia il brusio perché si comprende che Fini sta per rovesciare la sentenza a favore di Meloni: “Condivido ben poco di quello che è stato detto finora e l’opzione semipresidenziale è un’opzione legittima. La Costituzione non può essere considerata un totem, nella seconda parte si può modificare.  Non mi riconosco nella critica aprioristica. Ovviamente se rimangono le liste bloccate si crea un cortocircuito”. Sono passate  tre ore e la fila alla toilette misura quanto il circuito di Imola. In quelle segrete stanze Fini viene valutato “voto 8”. Lui che intanto si chiude il cappotto spiega ai giornalisti rimasti che “Meloni ha fatto bene a presentare la legge, tanto ci “vogliono quattro letture”, che non è vero che si limitano i poteri del capo dello stato e che se “il premierato porta alla nuova Repubblica non c’è nulla di male”. Dell’avvocato d’ufficio di Meloni, Marini,  nessuna notizia. Fortuna vuole che c’era il gip Fini, l’altro Mortati, il giudice del premierato preliminare.

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio