l'intervista

“Elkann ha distrutto Repubblica”. Parla Carlo De Benedetti

Salvatore Merlo

I passaggi della vendita del Gruppo Gedi, dalla fine della Fiat all’acquisizione di Rep. "Alla fine la venderà con la Stampa: ci sono contatti. Conte? È peggio di Meloni”. Si sono comprati la sinistra con un giornale? “Sì, guardate Landini”. Un pomeriggio a Dogliani a casa di CDB

Dogliani. “John Elkann è riuscito in quattro anni a distruggere il gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in circa quindici anni. Un massacro incomprensibile nei suoi scopi”. Dice così Carlo De Benedetti mentre volta in su il palmo, riunisce a punta le dita, e la sua mano oscilla su e giù a indicare commiserazione, a esprimere il platonico e sprezzante interrogativo: ma come cavolo è possibile? “John ha venduto tutti i quotidiani locali, che andavano bene. Poi ha devastato pure Repubblica, che ancora si aggira tra i quotidiani italiani con la maestà malinconica delle rovine. Mi dispiace moltissimo. È straziante. Addirittura avevano messo ad amministrare i giornali uno che allo stesso tempo si occupava della Juventus. Carta e palloni. Non so se mi spiego. A quel gruppo dirigente ho visto fare cose che manco nella ‘cena dei cretini’: dicono ‘digital first’ ma non hanno investito un centesimo in serie acquisizioni sul digitale, mentre hanno annientato la carta”. Ma, scusi, Ingegnere, se è così perché Elkann ha comprato il gruppo che ora si chiama Gedi? Non si compra mica una cosa per sfasciarla, per distruggerla. O sì? “Dipende. Elkann sostanzialmente ha comprato i giornali soltanto per coprire la fuga di Stellantis dall’Italia. Per coprire la deindustrializzazione e la smobilitazione degli impianti produttivi automobilistici di un gruppo che ormai è francese. Per il resto, di come vanno questi giornali mi pare evidente che non gli importi nulla”.

 

Insomma in realtà John Elkann si è comprato la sinistra italiana? “Vogliamo contare il numero di interviste in cui Maurizio Landini, il segretario della Cgil, parla su Repubblica di Stellantis e della scomparsa della Fiat dal nostro paese?”. Anche Radio Capital ora sta per essere venduta. “È la dismissione, le ripeto, mi pare evidente. Io capisco soltanto che a opera conclusa alla fine venderanno pure Repubblica e la Stampa. So che ci sono contatti”. Con la famiglia Angelucci, che edita il Giornale, Libero e il Tempo? “Non penso che venderanno a loro. Credo che Elkann stia pensando a un’espressione internazionale.  Anche se c’è da dire che se Repubblica continua a essere gestita così non so nemmeno cosa resterà da vendere”. Ma lei, avendo visto come sono andate le cose, si è pentito di avere ceduto il gruppo Espresso a Elkann? “Guardi che l’hanno venduto i miei figli, io ero contrario. Dal loro punto di vista, Rodolfo e Marco, hanno fatto la cosa giusta liberandosi di un gruppo che li obbligava a schierarsi”. E mentre parla dei figli, De Benedetti lo fa col tono dolce di chi chiarisce gli equivoci e concilia i dissidi: “Guardi che loro non hanno sbagliato. Vede, i miei figli sono refrattari alle passioni politiche. Io sono diverso. Ognuno ha il suo carattere e le sue predilezioni. E poi devo dire che visto col senno di poi, dal punto di vista finanziario ed economico, la vendita dell’Espresso è stata la cosa giusta. L’operazione aveva un senso”.

  

Però i figli di Silvio Berlusconi non vendono. “Marina  è innamorata di suo padre, ha sempre avuto una sorta di venerazione per lui. Marina sa benissimo che Mediaset è vecchia, che non reggerà la concorrenza delle grandi piattaforme internazionali come Netflix. Eppure non vende perché quella è la creatura di suo papà. Anche se forse, guardi, è anche vero che non ci sarebbe nemmeno a chi vendere perché probabilmente oggi non c’è nessuno che se la compra quell’azienda. E finché fa utili, e Mediaset ancora ne fa, per la famiglia Berlusconi vendere non avrebbe molto senso”. A proposito: cos’ha pensato il giorno in cui è morto Silvio Berlusconi, il suo nemico di una vita. “Nemico mai. Avversario, sì. L’avevo sentito al telefono due giorni prima che morisse. Sapevo che stava male, e lui, pur affaticato, al telefono mi snocciolava una tiritera sul partito liberale di massa che aveva costruito”. Ancora smaniava, il Cavaliere, con nella voce fantasie e moine quali continuava a dettargliele l’antica abitudine di affascinare. “Io lo ascoltavo. E stavo zitto, anche se come può ben immaginare non ero d’accordo su nulla”. Quindi vi sentivate spesso? “No quasi mai, anzi direi proprio mai. Ma quella volta l’ho vissuta quasi come un addio, e quindi l’ho voluto chiamare. Anche se questo non cambia niente di ciò che io penso della sua influenza, negativa, sul paese e sulla politica”. Eppure De Benedetti respinge il velenoso bruco del rancore che risale la memoria a scatti gibbuti, e dice: “I tempi della guerra che fu si sono ormai consumati, spartiacque tra la poca vita che resta e il nulla che incombe”. Un’esistenza ubriacante, quella del Cavaliere. A proposito: la morte di Berlusconi può portare alla nascita di una destra “normale” con Giorgia Meloni? “Questa destra non mi pare tanto normale. E Meloni non mi piace per niente”. Eppure a un certo punto scopriamo che c’è qualcuno che all’Ingegnere piace persino meno. “Se dolorosamente costretto a scegliere tra Meloni e Conte, sceglierei Meloni”.

  
Seduto sul divano a ramage assortiti di casa sua, a Dogliani, a metà strada tra Alba e Cuneo, in questo grande soggiorno affacciato sui vigneti del dolcetto (“ma io il vino non lo produco anzi non ho nemmeno la terra”) a ottantanove anni Carlo De Benedetti è ancora “la tigre” come lo chiamavano ai tempi in cui era amministratore delegato della Fiat, quando era implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli. Una delle grandi peculiarità del suo carattere è l’immediatezza nel giudizio, la spontaneità propria dell’ariete, una spontaneità che è voglia di cimento, gusto della sfida. Sfida alla quale non si sottrae mai, nemmeno durante un’intervista che accetta di non rileggere, e nel corso della quale anzi si lascia attirare, consapevolmente, nella grotta delle confidenze: Ingegnere, la crisi di Repubblica è la metafora della crisi del Pd? “Le gabbie della politica non chiudono che pappagalli, e anche un po’ spennati”, risponde. La Tigre. Ecco, ma dica la verità Ingegnere: Elly Schlein è una tremenda delusione. “Guardi, io Schlein l’ho appoggiata e anche aiutata in qualche modo. Pensavo che fosse la persona di cui il Pd aveva bisogno. Pensavo fosse un cambiamento vero, non il modo di Dario Franceschini per restare al potere. Ma ora non voglio esagerare. Dare addosso alla Schlein è troppo facile. Il partito non c’è più da prima di Schlein, e io per la verità non so nemmeno che politica esprima ormai. Credo nessuna. Non sta nemmeno facendo un’opposizione comprensibile. E non voglio manco elencare le cose che stanno sbagliando, che sono tutte minuzie. Il Pd mi sembra un partito esangue, ecco. Mi ricorda la Dc alla fine della sua parabola, si aggrappa a tutto pur di restare al governo: il Pd si è aggrappato al movimento Cinque stelle e poi addirittura a Salvini. Loro hanno governato persino con Salvini. Quindi una persona sola, e Schlein è molto sola, può davvero tenere insieme le catene di un micro potere come quelle che la sinistra ha costruito negli ultimi vent’anni? Temo di no”. 

  
Già si parla di un altro segretario. Di un federatore. Un papa straniero. Mai nulla di nuovo, di inaspettato, di sorprendente tra le celesti sfere del centrosinistra: tramontano le Pleiadi, l’Orsa sparisce, persino la luna è coperta da nuvolaglia, ma sappiamo che domani ritroveremo il Pd alla ricerca di un salvatore della patria.  Già ci sono nomi che rimbalzano seccamente sui più aggiornati pavimenti della sinistra, come una pallina da ping-pong sfuggita ai giocatori: Andrea Riccardi, Rosy Bindi, Paolo Gentiloni… “Non andiamo da nessuna parte. L’assurdo ha tante tonalità e gradazioni quante ne ha il tragico”, riprende De Benedetti. “Gentiloni è intelligente, molto perbene, e assai rispettato a Bruxelles. Ma mi auguro per lui che non voglia prendere in mano il partito”. E perché? “Perché non è adatto, e credo lo sappia bene lui per primo: lui è uno straordinario uomo di governo. Ma non è cosa sua infilarsi in quel giro di schiaffi che è il Pd”. Ma perché la sinistra cerca sempre un nuovo Prodi? “È una cosa un po’ comica, in effetti. E ripetitiva. Prodi fu un’operazione di successo, ma non si può eternamente ripetere quello schema. Non si può andare avanti con lo sguardo  fissato sullo specchietto retrovisore, sul passato. Perché si va a sbattere”. Ma esiste oggi un federatore? “Boh, io non ne conosco. Ci sono persone all’interno del Pd che io rispetto molto, ma non hanno, come direbbe Berlusconi se fosse ancora vivo, il quid”. Provenzano? “Mi piace. E mi piace anche Bersani che è uscito dal Pd ma ci sta ritornando. Lui combina popolarità e bonomia. È stato anche uno dei ministri più liberali che l’Italia abbia mai avuto. È grazie a lui se oggi esiste un mercato libero dell’energia”. Va bene, ma mica si può tornare a Bersani. “Non sto dicendo questo. Sto soltanto dicendo che non vedo energie nel Pd, l’ultimo che aveva un grande talento (dissipato) è stato Matteo Renzi”. Enrico Letta? “Bravissima persona, che si è fatta macerare dal rancore”. 

  
Beh, scusi, allora c’è Giuseppe Conte. Lui può federare il centrosinistra, tra l’altro il Pd lo ha pure spiegato in ogni modo ai suoi elettori: Conte è il “riferimento fortissimo” come diceva Nicola Zingaretti. “Contrariamente a quello che pensavo all’inizio, Conte è molto abile”, risponde De Benedetti con uno sguardo che nasconde, sotto un innocente pagliaio, un sottilissimo ago di malizia. “Conte è un vero democristiano pugliese che si è impossessato del Movimento cinque stelle: ha fatto fuori tutti quelli che avevano contribuito al successo grillino in maniera sistematica. Ed è riuscito in questo capolavoro senza in realtà impegnarsi mai in nulla. Voglio dire che al di là di ciò che sembra, Conte non prende mai davvero posizione su quasi niente. Eppure appare come una voce critica nei confronti della sinistra, ma pure nei confronti della destra. Strano personaggio. Fin qui sottovalutato, anche da me”. Allora è lui il federatore? “Non credo. Conte non è soltanto un uomo senza bandiere, è un uomo senza ideali. Senza princìpi. Si è rifugiato nel pacifismo, che politicamente equivale a zero. Il pacifismo o lo pratica il Papa, che è il portatore per chi ci crede d’una concezione armoniosa della società, oppure non è niente. Non può essere certo Conte il pacifismo. Lui è uno che ha passato la vita a fare l’aiutante allo studio legale Alpa. Inoltre Conte non è mai entrato in fabbrica in vita sua, non sa cosa sono i lavoratori. Come può fare il leader della sinistra? Insomma, voglio essere chiaro: il suo è stato un percorso senza prospettiva, Conte non è una soluzione né per la sinistra né per il paese. Anzi. A me un po’ Conte inquieta”. E tuttavia potrebbe anche succedere che Conte diventi quello che oggi non è, il leader del centrosinistra. Sul serio. Se lei dovesse scegliere tra Conte e Giorgia Meloni chi sceglierebbe? “Scelta comunque dolorosa, ma sceglierei Meloni. Di cui penso malissimo”. Ma comunque è peggio Conte? “Ma certo. Conte o comanda lui o contribuisce allo sfascio del Pd. Ed è un camaleonte capace di tutto”. 


Scusi ma il gioco della torre mi piace: tra Salvini e Meloni invece chi butterebbe giù? “Butterei giù Salvini”. E perché? “Perché assomiglia a Conte. Solo che è più fesso”. Insomma Ingegnere, qua sembra che lei è diventato meloniano, gli si dice. Al che De Benedetti, caricando la voce di ironia: “No, ma il fatto che Meloni sia meglio degli altri  le dà la misura di quanto mi dispiacciano gli altri. Io di Meloni penso malissimo, ripeto. Certo, ha capito come si sta a tavola, è vero. Si è inginocchiata all’America, sì. Ha capito che per governare devi essere atlantista, occidentalista ed europeista, va bene. Ha pure preso una posizione giusta sull’Ucraina. Ma non mi fido. Voleva uscire dall’euro, considerava l’Europa un’associazione malefica. Meno male che è incoerente, verrebbe da dire. Meno male che si rimangia tutto. Ma quelli che le stanno intorno come sono? E una che si rimangia tutto quello che diceva prima non potrebbe rimangiarsi tra un po’ tutto quello che ha detto dopo? Inoltre vedo che sulle cose importanti per l’Italia, cioè su università, sanità e scuola, non ha fatto nulla. Nulla. In un anno di dominio totale. Nulla di nulla. E infine c’è una cosa che mi preoccupa. Cioè che Meloni domina tutto il sistema informativo. Basta guardare la televisione: la Rai è stata occupata e i canali Mediaset sono suoi. Praticamente contro la destra c’è soltanto La7, quanto a televisione. Mentre è nato un gruppo editoriale meloniano che adesso avrà anche una radio, visto che Elkann sta spingendo la sua dissipazione fino a vendere anche Radio Capital agli Angelucci. E chissà che non facciano pure una televisione. Un’altra. Questa concentrazione e questa compressione del pluralismo io la trovo preoccupante. E poi, glielo dico chiaro, io nel partito di Meloni ci vedo residui di destra fascista. Sarò esagerato, ma la penso così”. 

 
Il fascismo? “Sono disposto ad ammettere di avere un pregiudizio psicologico, quasi prepolitico, ma non posso nasconderlo. Per me resta insuperabile il ricordo della mia fuga in Svizzera quando ero bambino durante la guerra e dopo le leggi razziali. Non riesco a non pensare ai miei cugini massacrati a Mauthausen. Sono fatti che ti restano addosso. Ce li ho scritti sulla pelle. Dunque sono drasticamente contro la destra post fascista, lo ammetto. Per me quel periodo della vita è stato la dimostrazione che esiste il regno del male”. Ma Giorgia Meloni è nata nel 1977. “Lo so bene. E infatti dico queste cose sapendo che vanno aldilà di ogni ragionamento, ma il mio è un sentimento che ti resta addosso. E poi, guardi, Meloni non riesce a pronunciare la parola ‘antifascismo’, ma com’è possibile? Io riconosco alla presidente del Consiglio anche delle capacità e delle doti da leader, penso che si sia mossa bene in politica estera, ma non posso rimuovere il mio pregiudizio”. Su Israele e la Palestina è stata assai meno ambigua, diciamo, della sinistra. “La sinistra è storicamente filopalestinese. Io sono visceralmente filoisraeliano. Però considero Netanyahu una disgrazia. Israele temo si stia impantanando in un conflitto che non gli porterà nulla di buono, e si sta inimicando l’opinione pubblica internazionale. Il terrorismo si combatte con l’antiterrorismo, non con le bombe a tappeto”. 

  

Ripeto la domanda: non trova che ci sia ambiguità a sinistra? “Mi colpisce Landini, per tornare alla parte iniziale della nostra conversazione. Mi impressiona un sindacato che fa ideologia anziché occuparsi della scomparsa della Fiat, o dei salari. In Italia abbiamo i salari più bassi d’Europa, tra il 40 e il 50 per cento più bassi di quelli che ci sono in Francia e in Germania.  Quella del salario minimo era una proposta giusta del Partito democratico. In Francia e in Germania i sindacati non solo l’hanno ottenuto, il salario minimo, ma hanno poi ottenuto anche la rivalutazione dei salari. Il sindacato italiano, la Cgil, invece dove era? Manifestava a favore della Palestina, ecco che faceva Landini, non arrivando neppure a capire la differenza tra Hamas e palestinesi”. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.