i due profili

Sul Mes Giorgia Meloni e Giuseppe Conte sono uguali e interscambiabili

Luciano Capone

Il premier che ha firmato la riforma del Mes non vuole votare la sua ratifica ora che è all'opposizione. E la premier che quando era all'opposizione si batteva contro, ora si appresta a votarla. Quando la politica internazionale diventa una commedia molto italiana

La situazione sul Mes non è ancora grave, ma di sicuro non è seria. Deve essere surreale, soprattutto nel resto d’Europa, vedere l’ex premier che ha firmato la riforma del Mes non voler votare a favore della sua ratifica ora che è all’opposizione e, dall’altro lato, la premier che quando era all’opposizione si batteva contro la riforma del Mes ormai prossima a chiedere il voto a favore della sua ratifica. Da ormai un anno gli altri 19 paesi dell’Eurozona, che hanno prima firmato e poi ratificato il trattato, assistono a questa poco edificante commedia all’italiana in cui Giuseppe Conte e Giorgia Meloni, così diversi, sono perfettamente uguali e interscambiabili. 

 

Uno dei passaggi più surreali di questa vicenda è stato il voto, lo scorso 22 giugno, con cui la commissione Esteri della Camera ha approvato il testo base del disegno di legge di ratifica del nuovo Mes. L’approvazione è passata con i soli voti favorevoli di Pd, Azione e Iv, con la maggioranza che si è data alla latitanza e il M5s all’astensione. Con queste parole coraggiose, tratte dal miglior repertorio di Nino Frassica, Giuseppe Conte annunciava il voto del suo partito: “Ci assumeremo sempre la responsabilità delle nostre posizioni: noi ci asteniamo e aspettiamo il dibattito in aula per chiarire la nostra posizione, che non è una posizione di favore nei confronti del Mes”. 

 

Per Conte, quindi, assumersi la responsabilità vuol dire astenersi perché contrario a un accordo che lui stesso ha negoziato e firmato. E prima di apporre la firma a nome dell’Italia, Conte aveva anche chiesto il voto del Parlamento, il 9 dicembre 2020, elogiando l’accordo raggiunto: “La riforma del Mes incorporava l’introduzione del backstop comune al Fondo di risoluzione unico, a partire però dal 2024. Il governo italiano ha agito per ottenere l’introduzione anticipata di tale meccanismo, nel presupposto di rispettare alcuni obiettivi di riduzione del rischio bancario”, disse alla Camera parlando di un “obiettivo cardine per il nostro paese”.

 

A parti invertite è la stessa situazione in cui si trova Giorgia Meloni, che ancora l’1 marzo 2022, cioè pochi mesi prima di insediarsi a Palazzo Chigi, alla Camera descriveva il Mes come un meccanismo “per stringerci ancora il cappio intorno al collo”: “Sulla riforma del Mes annuncio che la nostra opposizione sarà totale!”. Ora, da presidente del Consiglio, Meloni è molto meno categorica e dice che “sul Mes vedo un dibattito molto italiano e molto ideologico”. Che il dibattito sia “molto italiano” è vero, ma nel senso inteso da Stanis La Rochelle in “Boris”: approssimativo e raffazzonato.

 

Più precisamente, è un dibattito che riguarda l’Italia ma se ne parla anche fuori, come può testimoniare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti visto che la ratifica è una delle prima cose che gli viene chiesta a ogni Eurogruppo. Ed è anche vero che il dibattito è “molto ideologico”, ma qui l’ideologia è quella antieuropeista dei partiti italiani e, nello specifico, della destra meloniana e salviniana: se 19 paesi su 20 dell’Eurozona hanno ratificato tranquillamente la riforma del Mes, qual è il paese dove domina l’ideologia? Sono gli altri 19 paesi che fanno del Mes un “totem” o è l’Italia che ne fa un tabù?

 

“Forse bisogna interrogarsi sul perché, in un momento in cui tutti facciamo i salti mortali per reperire le risorse, nessuno voglia attivarlo: questo sarebbe il dibattito da aprire”, dice Meloni. Che, evidentemente, non ha capito a cosa serve il Mes: un’istituzione che fornisce assistenza finanziaria ai paesi dell’Eurozona che si trovano in una situazione di crisi finanziaria che minaccia la stabilità dell’unione monetaria. È una fortuna, quindi, che a nessuno serva l’aiuto del Mes. È lo stesso principio per cui l’Italia, pur essendo il settimo detentore di quote del Fmi con oltre 15 miliardi di Dps, non chiede una linea di credito. Tra l’altro era questa, il ricorso ai Diritti speciali di prelievo del Fmi al posto del Pnrr, una delle idee di Giorgia Meloni quando era all’opposizione che ha prontamente archiviato una volta arrivata al governo.

 

A Palazzo Chigi Meloni ha copiato da Conte anche lo stratagemma della “logica di pacchetto”, escogitata dall’ex premier a partire dal 2019 per far ingoiare il rospo al M5s. All’epoca Conte legava la firma del Mes a un patto che includeva le garanzie della Bei, il supporto Sure e l’Unione bancaria. Dopo quattro anni, Meloni mette la ratifica del Mes in un “pacchetto” con la riforma del Patto di stabilità in un senso meno rigido, l’Unione bancaria, la presidenza della Bei. Ovviamente non ne ha ricavato quasi nulla, come hanno dimostrato ieri le comunicazioni della premier alla Camera in vista del Consiglio europeo di domani.

 

Non esiste alcuna “logica di pacchetto” a Bruxelles. È un espediente molto italiano. Conte e Meloni sono perfettamente uguali: guidano partiti che si sono presentati alle elezioni chiedendo lo smantellamento del Mes e una volta al governo si sono trovati a dover fare il contrario. E così si lanciano in acrobazie politiche per tentare di salvare la propria faccia, rinunciando a salvare la faccia dell’Italia. Anche questo è molto italiano.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali