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Addio setta populista

Il patto stracciato con la Cina rafforza Meloni e ha un ricasco sul G7 

Claudio Cerasa

La presidente del Consiglio continua a desalvinizzare il governo con il consenso di Salvini. Tre buone ragioni per essere contenti per la cancellazione della Via della seta

La seta è importante, la setta lo è ancora di più. La notizia della cancellazione dello scellerato memorandum d’intesa firmato nel 2019 dall’Italia con la Cina, ai tempi del governo gialloverde, mette di buon umore per tre ragioni diverse.

La prima ragione riguarda i numeri e sui numeri c’è poco da dire. Il memorandum firmato con la Cina non è stato dannoso solo per ragioni strategiche (l’allora governo gialloverde lo firmò, rendendo l’Italia l’unico paese del G7 ad avere un accordo del genere, per rendere il nostro paese più autonomo dall’asse atlantico: quando si dice la lungimiranza) ma è stato dannoso anche per ragioni economiche perché non ha prodotto un risultato che sia uno. Nel 2022, a tre anni dalla firma, l’export italiano nei confronti della Cina ha toccato i 16,4 miliardi (Francia 23,7; Germania 107), il disavanzo commerciale ha toccato quota 41 miliardi (Francia 25 miliardi; Germania 23 miliardi), gli investimenti bilaterali hanno toccato quota 5,7 miliardi (Francia 10,1 miliardi, Germania 14 miliardi), gli investimenti italiani in Cina hanno toccato i 15 miliardi (la Germania 112, la Francia 38). Sintesi: rischio di subordinazione ai cinesi, tentazione di disallineamento dalla Nato, affari zero. Bilancio: un disastro.

La seconda ragione riguarda un tema di reputazione dell’Italia che ancora una volta dimostra in ambito internazionale di aver trasformato l’esperienza gialloverde nel simbolo genuino di tutto ciò che non sarà più l’Italia. Mai più filocinese (anche se una delle contropartite politiche dell’uscita dalla Via della seta ottenute dalla Cina è quella di non avere un G7 in Italia tarato per demolire la Cina). Mai più meno atlantista (vedi il sostegno incondizionato all’Ucraina). Mai più anti europeista (vedi il successo ottenuto sul Pnrr). Mai più nazionalista (no ai porti chiusi, sì agli accordi sull’immigrazione con Bruxelles). Mai più minacciosa per i mercati (legge di Bilancio cauta, spread sotto controllo). Mai più inaffidabile agli occhi dei partner (e anche la firma sul Mes prima o poi arriverà).

Il terzo spunto utile su cui ragionare riguarda il gioco di specchi all’interno del quale si trovano Meloni e Salvini. E al lettore attento non sarà sfuggito un dettaglio non da poco.

Se è vero che la credibilità dell’Italia è legata in buona parte alla capacità mostrata in questi mesi dal nostro paese di allontanarsi il più possibile dalla stagione dei disastri gialloverde non si può sorridere di fronte alla presenza di un governo all’interno del quale vi è un vicepremier che ripetutamente ha accettato di cancellare alcune iniziative approvate tra il 2018 e il 2019 da un governo di cui era sempre vicepremier (parliamo di Salvini naturalmente). E’ un gioco di specchi, per Meloni, che attraverso la rimozione del passato non si limita solo a mostrarsi affidabile, e a dire mai più, mai più governi populisti come quelli, ma arriva a fare qualcosa di più: certifica, semplicemente, di essere un argine al populismo passato e presente del suo alleato, mostrando al proprio alleato, sempre lui, sempre lo stesso, quanti applausi riceve ogni volta che il governo, il loro governo, fa un passo per desalvinizzare l’Italia, con il consenso anche dello stesso Salvini. E’ un gioco di specchi, naturalmente, un gioco all’interno del quale lo stesso Salvini può giocare la parte del leader che matura, e che accetta di correggere i suoi errori del passato, e del leader che non ci sta, interpretando il ruolo di quello che dice mi farò in quattro per evitare che questo governo diventi una costola del Pd. Ma il gioco di specchi che si indovina osservando con curiosità e senza pregiudizi cosa si nasconde dietro la scelta saggia di rompere il memorandum d’intesa con la Cina è un gioco all’interno del quale l’uscita più importante che si manifesta non è l’allontanamento dalla Via della seta cinese ma è l’allontanamento ulteriore del governo dalla via della setta populista. Ben scavato, vecchie talpe.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.