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Meloni esce dalla Via della Seta e lascia i rapporti con Pechino all'Ue

Giulia Pompili

La decisione del governo è arrivata in un momento strategico, durante la visita dei leader dell'Unione europea in Cina, mancando la volontà dell'Italia di rinegoziare la sua posizione agli alleati di Bruxelles 

L’uscita soft, come voleva il governo di Giorgia Meloni, è avvenuta a metà. Perché alla fine la comunicazione formale dell’uscita dalla Via della seta, il grande progetto strategico lanciato dieci anni fa dal leader Xi Jinping, c’è stata. Con una nota verbale – che nel cerimoniale diplomatico è una lettera con cui comunicano ambasciate e dicasteri, fredda e impersonale – inviata quattro giorni fa al ministero degli Esteri di Pechino, il governo italiano è stato costretto a manifestare la sua intenzione di uscire dal progetto. E questo, come ha anticipato il Corriere della sera, nonostante per alcune settimane la Farnesina abbia cercato di negoziare con le controparti cinesi una modifica al testo del memorandum firmato il 23 marzo del 2019 dall’allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, in particolare il passaggio finale sul rinnovo “automatico” salvo comunicazioni.

 

 

Di regola, per i memorandum d’intesa, vale la regola opposta: si rinnova solo per esplicita intenzione delle parti. Ma Pechino, che usa la Via della seta come un’arma d’influenza politica sul lungo periodo – e di potenziale ricatto – ha volutamente inserito una modalità anomala, dove per essere svincolati serve una presa di posizione esplicita: una  stranezza sospetta che nessuno ha pensato di cambiare quattro anni fa, quando l’accordo fu firmato frettolosamente e sotto la spinta politica dei Cinque stelle. 

Né l’Italia – timorosa delle potenziali ripercussioni – tantomeno la Cina volevano che l’uscita da parte di Roma fosse particolarmente rumorosa, ed è probabilmente per questo che alla fine Meloni ha deciso di evitare non solo la sua missione in Cina, ma anche il dibattito parlamentare sulla questione, nonostante lo avesse annunciato formalmente durante il G7 di Hiroshima. Eppure la nota verbale sancisce un primato: l’Italia è il primo paese al mondo a effettuare il divorzio dal progetto simbolo di Xi Jinping, di recente rilanciato enormemente dalla leadership di Pechino. Qualche settimana fa anche le Filippine hanno deciso di abbandonare alcuni progetti d’investimento da parte cinese, etichettati sotto la Via della seta, ma solo l’Italia, negli ultimi dieci anni, ha abbandonato il progetto più grande, quello più propriamente politico. 

Sebbene ci fossero ancora una ventina di giorni prima della scadenza dei termini per comunicare l’exit, l’uscita con Pechino è stata ufficializzata in questo momento non a caso: sui media e nelle comunicazioni formali del ministero degli Esteri cinese, era il giorno dell’Europa e dell’accoglienza in Cina dei leader dell’Unione europea, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Charles Michel e l’Alto rappresentante Josep Borrell, che oggi a Pechino apriranno il primo summit Ue-Cina in quattro anni. Sin dal 2019 la politica estera dell’Ue nei confronti della Cina si è trasformata, e l’Italia aveva la necessità di non essere più considerata – anche in vista dei negoziati che ci saranno alla due giorni di Pechino – il ventre molle della politica cinese in Europa (adesso resta solo l’Ungheria). Inoltre, era difficile pensare di poter inaugurare la presidenza di turno del G7, il prossimo anno, senza aver dato un segnale forte ai partner e agli alleati di capacità di “de-risking” con la Cina, di consapevolezza e lontani dalle debolezze della politica estera portata avanti nel biennio 2018-2019 dal governo gialloverde. Essere chiari sulla Russia non basta più, come ha fatto capire il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, commentando la notizia con toni meno minimizzanti del solito: “Continuano a esserci ottimi relazioni e rapporti, pur essendo la Cina un paese che è anche un nostro competitor a livello globale”. Su Weibo, uno tra i social più usati in Cina, c’erano pochi sporadici commenti sull’uscita italiana (“Guardando il comportamento dell’Italia nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, chi oserebbe essere suo amico?”, recita uno; “perché abbiamo concesso all’Italia l’esenzione del visto d’ingresso in Cina?”, dice un altro), e i rapporti bilaterali tra Roma e Pechino, fanno sapere fonti della Farnesina, restano intatti, mentre tutta la questione strategica con la Cina viene ufficialmente subordinata all’Europa. Del resto, è stata proprio l’Europa, qualche mese fa, ad approvare il meccanismo anti coercizione economica che riparerebbe l’Italia da eventuali rappresaglie economiche cinesi.

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.