Recovery

Pnrr rimodulato. Per la Ragioneria dello stato mancano ora 15 miliardi

Carmelo Caruso

I progetti definanziati dal Pnrr rischiano ora di pensare sul bilancio dello stato come voce investimenti e di essere computati come ulteriore debito. L'angoscia del Ragioniere, Mazzotta

Abbiamo “vinto” in Europa, ma rischiamo di non avere “cassa” in Italia. Abbiamo festeggiato in fretta. Siamo certi che la rimodulazione del Pnrr sia stata un successo? Ci sono i soldi per pagare le opere uscite dal piano, ma che saranno finanziate da altri fondi collegati? Alla Ragioneria dello stato la risposta sarebbe “no”. La Commissione Ue ha dato il via libera alle modifiche proposte dal governo. E’ nato il nuovo Pnrr di  Fitto-Meloni, il guaio è che la vecchia culla dobbiamo pagarla noi. A debito. Il fabbisogno per compensare le opere definanziate ammonterebbe a circa 15 miliardi: è ora l’angoscia della Ragioneria. Peseranno sul bilancio ordinario e sono “investimenti”. E’ la voce che Meloni e Giorgetti vogliono scorporare dal Patto di stabilità. Se non avverrà ci sarà un impatto sui conti della legge di Bilancio, il peggioramento del saldo. Abbiamo sbancato o finiamo sbancati?


Senza nulla togliere alla fatica del ministro Raffaele Fitto, che ha presentato il nuovo Pnrr rinegoziato, è giusto ricordare che il Parlamento deve ancora conoscere i contenuti. Alla Camera, Enzo Amendola e Piero De Luca, del Pd, partono dai numeri: “Meloni non ha ottenuto 20 miliardi in più. Il conto esatto fa 2,8 miliardi. E’ corretto dire che Meloni ha rimodulato solo il dieci per cento del Pnnr”. Entrambi chiedono di sapere che fine abbia fatto il miliardo destinato all’Ilva, se ci saranno ancora le risorse per il Ccs di Ravenna, la bioraffineria. Poi ci sono le promesse fatte. Oltre ad aver rinegoziato i progetti, l’Italia si è impegnata a varare leggi ancora più severe sulla concorrenza. Sale il numero di milestone e target da raggiungere, da 527 a 614, aumenta la parte destinata a imprese come Eni, Snam, Enel e molte delle opere energetiche sono quelle da sempre vituperate dai piccoli sindaci, compresi quelli di destra. Che il Pnrr dovesse essere rimodulato era convinzione pure del governo Draghi. E’ un’opera di pulizia messa in conto dalla stessa Commissione Ue che ha  aggiunto un capitolo di spesa. Si chiama RePower Ue ed è un fondo dedicato alla transizione energetica. Il governo Meloni ha chiesto, da questo capitolo, 19,2 miliardi, ma la Ue ne ha concessi 11,2. Questi otto dei 15 mancanti vanno trovati e il modo è tutto da inventare. Quando Meloni ha capito che sugli asili nido, tagliati dal vecchio Pnrr, oltre a mettersi contro i comuni, si sarebbe messa contro anche i genitori, è subita corsa ai ripari. Ha annunciato che le opere definanziate saranno coperte da fondi collegati. E’ un cestino di acronimi che ormai tutti citano. Sono i fondi per lo sviluppo regionale (Fesr), i fondi per lo sviluppo e la coesione (Fsc) ma ci sono pure quelli del Piano nazionale per gli investimenti complementari (Pnc). Meloni ha promesso di attingere a questi strumenti e ad altri. Il problema è che, ad esempio,  se i fondi sono per il sud non è facile destinarli alle opere del nord. Sulla carta il denaro ci sarebbe, peccato che i dirigenti della Ragioneria dello stato facciano una distinzione tra competenza e cassa. Una cosa è ricevere la competenza, un’altra è la cassa, erogarli. La competenza è la possibilità di spenderli, la cassa è la possibilità concreta di pagare gli enti che a loro volta pagano le aziende. Per le opere  uscite dal Pnrr, ma che non erano state cantierate (esempio lo stadio di Firenze) è facile, mentre per le opere già in corso, che vengono spostate su altri fondi, si apre una grande questione. Solitamente la cassa dei fondi pubblici viene impiegata negli ultimi anni, a realizzazione quasi conclusa. Se l’opera è iniziata del 2024, la cassa si impegna del 2027. Passano circa tre anni. Ma se le opere iniziate vengono spostate dai fondi Pnrr a fondi pubblici, bisogna anche anticipare la cassa. Alla Camera durante le audizioni sulla legge di bilancio più di un deputato aveva sollevato la questione e la risposta sarebbe stata: “Ne parliamo dopo, quando il piano sarà rinegoziato”. Lo stato della cassa lo conosce il Ragioniere dello stato, Biagio Mazzotta, e un altro dirigente. E’ Pier Paolo Italia, direttore dell’ispettorato generale per la contabilità e la finanza pubblica. I dirigenti del Mef e quelli di Fitto si sono parlati? Hanno ragionato su questo spostamento? Alla Ragioneria dicono di no. Oggi, a Chigi, dovrebbe tenersi una cabina di regia Pnrr per approfondire. Le strade rimangono due: o le spese le copre lo stato, con il suo bilancio (e al Mef, viene escluso) o le coprono gli enti locali. Anche questa via sembra impraticabile. Sarebbe stato più semplice se tutto fosse rimasto come prima. La struttura del Pnrr a inizio legislatura è stata separata dalla Ragioneria, dal Mef, dove si è sempre trovata. Da allora la Ragioneria è avvelenata con Fitto. Veleno, a parte, siamo di fronte a un tema di programmazione generale e di impatto sui conti. Uno stato può sempre trovare le risorse. Per carità. Si possono operare tagli ai ministeri e naturalmente si può fare ulteriore debito. Ma qui si torna alla grande partita del Patto di stabilità, attesa per l’8 dicembre. L’Italia sta lottando  per togliere dal computo del debito la voce investimenti e fa di tutto per mostrarsi rigorosa, seria. Cosa accade se questo denaro uscito dal Pnrr  finisce sul bilancio come “investimenti” e “debito”? Non serve dire che si sfascia tutta la costruzione della legge di bilancio e che si ribalta nuovamente il rapporto di forza. Fino a pochi giorni fa, Meloni e Giorgetti dicevano che piuttosto che votare un nuovo Patto di stabilità, che non scorpora gli investimenti, che non tiene conto del nostro debito, ci saremmo tenuti il “vecchio”. Con il vecchio patto e con gli investimenti maggiori c’è poco da fare gli spacconi. Nel tennis abbiamo vinto la Coppa Davis, ma rischiamo di consegnarla  alla Lagarde come pegno.
 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio