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Il problema

Milano sarebbe all'asciutto, a farla esondare è la demenzialità nimby

Maurizio Crippa

La storia paradigmatica del Seveso, un'impresa tentata già dai romani, e delle vasche di laminazione che nessuno vuole

"Una città che esonda”, scrivevamo sul Foglio ben cinque anni fa (e già allora gli allagamenti, a contarli dal 1975 quando sindaco di Milano era ancora Aldo Aniasi, per dire la preistoria, erano più di cento). Cercavamo di spiegare – perché la storia è milanese, ma la logica è tremendamente nazionale – che “il Seveso è un caso politico”. Non idrologico, non di dissesto del territorio, non di cambiamento climatico. Politico: di cattive amministrazioni, di politiche localistiche miopi, di mentalità sgangheratamente nimby anche se spesso travestita da ecologismo. Giovedì notte, un forte temporale, subito rubricato “nubifragio” nelle titolazioni eco-ansiose, ha provocato un’altra esondazione a Milano nord, il solito sottopassaggio-martire con due metri d’acqua. E tutti a puntare il dito su qualsiasi bersaglio, tranne che verso sé stessi.

La faccenda è un po’ seria e tragica. La Milano novecentesca si è ingrandita sotterrando sotto la sua espansione industriale vorace vari corsi d’acqua: il Seveso, l’Olona, i Navigli. In caso di improvvise piene – il Seveso è quasi più un torrente, imbizzarrisce spesso – i guai escono dai tombini. Sistemare il Seveso era stata impresa tentata già dai romani, non una faccenda facile. E costosa: nel 2010 entrò nella metropolitana e fece un danno da 70 milioni. “La vera calamità di Milano è il sindaco Moratti”, strillò la sinistra. Poi arrivarono loro e tutto è restato come prima. Nemmeno Italiasicura di Renzi ottenne nulla. Per il Seveso, e da anni, sono state progettate ben quattro vasche di laminazione, invasi artificiali che si riempiono in caso di piena. Bene, ad oggi solo una è in funzione, quella di Senago. Ma è stata una lotta di anni contro divieti, proteste, ripicche. Alla fine, per costruirla, si sono dovuti realizzare anche assurdi e costosi “lavori compensativi”, cioè la realizzazione di un parco pubblico con annesso velodromo. Per evitare una piena? Ma che importa ai locali: l’esondazione colpisce Milano – la ricca e odiata dai comuni della banlieue – se vogliono i lavori, paghino.

Questa è la logica, e l’interferenza dei colori delle amministrazioni è un eterno gioco a rimpiattino che neanche il livello del governo romano (grandi opere e infrastrutture) riesce a vincere. Poi c’è il coté ecologista. Anni di polemiche perché il Seveso arriva inquinato dal Comasco: quindi dalle vasche emanerebbero miasmi e malattie. “Fare oggi la vasca vorrebbe dire creare una fogna a cielo aperto, tra l’altro sotto il livello della falda, e ci sarebbe dunque il rischio inquinamento. Noi pensiamo che le vasche non siano risolutive”. Ergo: o Como paga le bonifiche a monte, o le paga Milano a valle. Al tutto si aggiunge l’ideologia idiotamente nimby. Quella che se dici “vasca” risponde: “Bisogna prima pensare alla deurbanizzazione”. Quest’estate il tremendo Coordinamento comitati torrente Seveso è andato un’altra volta sul sito della seconda e cruciale vasca, nel Parco Nord tra Milano e Bresso, un progetto che finalmente dovrebbe essere pronto nel 2024, e ha cacato un’altra volta i soliti dubbi, che sono solo dei niet: e la manutenzione della vasca? E il ricircolo dell’acqua? E la salute pubblica? E perché mai a casa nostra? “Non abbiamo avuto le risposte che aspettavamo – hanno detto gli attivisti – abbiamo visto da vicino un’enorme voragine cementificata con livelli di polvere alti e odore acre dovuto alle vasche di raccolta di liquami. Le nostre preoccupazioni sono state confermate”.

MM, la spa del comune di Milano che gestisce le opere, garantisce che per svuotare (dopo l’uso) la vasca occorrono al massimo 40 ore, e per la pulizia tre giorni: non fanno in tempo nemmeno ad arrivare le zanzare. Ma che gli frega, agli ecolò? Lo abbiamo purtroppo visto anche in Romagna: meno si realizzano opere sui corsi d’acqua, meno ci si affida a tecniche di controllo e pulizia e più le esondazioni peggiorano. Se le vasche del Seveso fossero tutte attive (e dovrebbero esserlo da anni, ma per le altre due è nebbia fitta), starebbe meglio Milano e anche il territorio intorno. E qui ci siamo limitati al fiumiciattolo che viene da Como. Poi ci sarebbero l’Olona, il Lambro e una manciata di torrenti sconosciuti a chi cammina sull’asfalto come il Pudiga o il Redefossi. Ma che gli frega, ai nimby?


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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"