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L'editoriale del direttore

Sull'economia è finita la pacchia. Meloni ha due strade per cavarsela (ma una mette i brividi)

Claudio Cerasa

Fino a pochi mesi fa, l’Italia aveva il vento in poppa, ora non è più così. Crescita, lavoro, produzione industriale: qualche piccolo campanello d'allarme, che, anche se non drammatico, non può essere trascurato

L’Europa è attrattiva. E l’Italia? L’Europa cresce. E l’Italia? L’Europa crea lavoro. E l’Italia? L’Europa conquista gli investitori stranieri. Ok, e l’Italia? Nelle ultime settimane, l’economia italiana ha registrato alcuni piccoli campanelli d’allarme. Nulla di drammatico, certo, ma qualche problema esiste e per quanto si possa essere ottimisti sul nostro futuro vale la pena mettere insieme i puntini.

La prima notizia è quella arrivata ieri dall’Istat: l’economia italiana, nel secondo trimestre del 2023, trimestre durante il quale l’Eurozona è cresciuta dello 0,3 per cento, è calata più del previsto (-0,4 per cento al posto del -0,3 stimato a luglio).

La seconda notizia è quella giunta due giorni fa: dopo sette mesi di crescita, a luglio l’occupazione, che nell’Eurozona è aumentata dello 0,3 per cento, è diminuita di 73 mila unità rispetto al mese precedente.

Il terzo dato è quello arrivato a inizio agosto: a giugno, rispetto all’anno precedente, la produzione industriale dell’Italia è calata dello 0,8 per cento (e nella media del secondo trimestre il livello è calato dell’1,2 per cento rispetto ai tre mesi precedenti).

Il tema è dunque alla luce del sole. Fino a pochi mesi fa, l’Italia aveva il vento in poppa (nell’ultimo biennio il pil italiano è aumentato dell’11,7 per cento, più di quello mondiale). Oggi il vento in poppa non c’è più (il Mef ha stimato per la fine del 2023 un pil a più 1 per cento, le stime dell’Istat di ieri dicono che il valore acquisito al momento è più basso: 0,7 per cento).

E’ colpa di Meloni? E’ colpa di questo governo? Parte del rallentamento dell’economia potrebbe essere stato generato dalle conseguenze della politica dei tassi alti della Bce (quando i tassi aumentano, il ricorso al credito è più costoso ma quando l’inflazione è troppo alta una leggera decrescita è il minore dei mali). Ma scaricare sull’Europa brutta e cattiva ogni responsabilità legata alle prime difficoltà italiane è un gioco pericoloso e maldestro, perché mai come oggi l’Italia di Meloni dovrebbe iniziare a chiedersi non cosa può fare l’Europa per noi ma cosa può fare l’Italia per se stessa. Una prima domanda importante che potrebbe porsi Meloni è come sia possibile che l’Italia stia tornando ai livelli di crescita pre Covid in presenza di un piano di investimenti europeo da circa 200 miliardi il cui impatto stimato sul pil è di dodici punti in quattro anni. E la risposta a questa domanda purtroppo è sconfortante ed è in un altro dato offerto dall’Istat, che ieri ha segnalato un calo dell’1,8 per cento degli investimenti fissi lordi, dato che segnala anche l’incapacità dell’Italia di spendere i soldi che l’Europa le versa. Una seconda domanda importante che potrebbe porsi Meloni è che cosa stia facendo l’Italia per attrarre investimenti in un momento in cui le grandi potenze economiche mondiali stanno ricalibrando le proprie risorse (ieri il Financial Times ha dato conto di deflussi senza precedenti che arrivano dalla Cina: ad agosto, scrive Ft, gli investitori stranieri hanno venduto azioni cinesi per un valore record di 12 miliardi di dollari). E la risposta anche a questa domanda non è confortante. A parte un timido tentativo di riformare il codice degli appalti, il governo Meloni negli ultimi tempi ha dedicato buona parte delle sue forze ad alimentare messaggi non esattamente incoraggianti per chi sogna di investire in Italia. Prima brandendo la sciabola contro i profitti extra. Poi invitando le grandi multinazionali a non rompere troppo le scatole (agenda Adolfo Urss). Una terza domanda, più generale, è che cosa abbia fatto in dieci mesi Meloni per la crescita. La risposta, onesta, è che fino a oggi il governo ha fatto molto poco (e i risultati si vedono). Ma per rispondere a questa domanda occorrerà aspettare qualche mese. E occorrerà capire se di fronte a una contrazione del pil dell’Italia, il presidente del Consiglio sceglierà di usare con forza l’unico strumento in grado di evitarla (il Pnrr) o sceglierà di spendere e spandere cercando nemici esterni su cui scaricare i problemi. Come avrebbe detto un tempo Meloni: caro governo, sull’economia la pacchia è finita.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.