Lo schiaffo della Libia a Meloni pone seri dubbi sulla strategia italiana in Africa

Valerio Valentini

Tripoli respinge, con un atto clamoroso, un nostro ambasciatore designato dall'Ue. Se ne avvantaggia la Francia, ma i patroti di FdI a Palazzo Chigi non dicono nulla. L'azzardo della Farnesina su Dabaiba non paga, il pastrocchio con Israele, il flop dell'Assemblea di Roma, gli sgarbi a Macron in Niger. Altro che Piano Mattei. Perché l'agenda africana della premier non funziona

Sarà pure, come dice Enrico Borghi, che “un desiderio non fa politica, e che nello iato incolmabile che caratterizza il Piano Mattei tra velleità e capacità si rischia di fare danni”. Però quello che succede a Tripoli, per l’Italia, è forse qualcosa più d’un errore. Con lessico patriottico si direbbe quasi: un’onta. E no, non solo per il pastrocchio diplomatico tra libici e israeliani che ha visto Roma come teatro del misfatto. C’è anche altro, ed è qualcosa di clamoroso, che si muove in questi giorni, a segnalare una certa distanza tra le ambizioni di Giorgia Meloni e la realtà africana. Succede infatti che un qualificato diplomatico italiano, Nicola Orlando, dopo aver vinto un concorso continentale ed essere stato scelto da Bruxelles come ambasciatore dell’Ue in Libia, si veda negato il gradimento dal governo di Abdulhamid Dabaiba, quello peraltro che l’Italia continua a sostenere con ostinata lealtà. Una bocciatura che ha del clamoroso, nella grammatica delle feluche. E che però dal governo patriottico, quello che vuole affermare la nuova centralità dell’Italia in Africa, viene accolta con un’alzata di spalle. E sì che ad avvantaggiarsi di questa bizzarria è, a quanto pare, un diplomatico francese.

Che  verrebbe spontaneo da dire: ma figurati, un francese? E vuoi che il governo non si faccia sentire? Vuoi che a Palazzo Chigi, ai vertici di FdI – laddove cioè si vive di paranoie gallofobiche, laddove si denuncia da anni il furto del confine sulla vetta del Monte Bianco, lo scippo di un tratto di mare a largo della Sardegna da parte di Parigi: è tutto vero, cioè è falso, ma vabbè – vuoi che insomma nessuno utilizzi la propria autorevolezza diplomatica,  noi che rivendichiamo la “strategicità” del Mediterraneo per l’occidente tutto, per chiedere spiegazioni a Tripoli del perché di una simile umiliazione? Eppure, niente. Benché Orlando avesse tutti i titoli per rivestire l’incarico di inviato speciale per l’Ue in Libia. Già impegnato  a Riad, in Afghanistan e a Tel Aviv, poi ambasciatore in Kosovo, quindi designato dall’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio come inviato speciale italiano a Tripoli, non a caso era stato lui a vincere il concorso bandito dall’Ue: e così, ad aprile scorso, l’Alto rappresentante dell’Unione, Josep Borrell, sceglie  lui. Lì, però, qualcosa s’inceppa. Quella che dovrebbe essere una mera formalità – l’espressione del gradimento ufficiale da parte del governo Dabaiba – viene  prima sospesa, poi negata. E così, dalla settimana scorsa, con la scadenza del mandato del diplomatico  spagnolo José Sabadall, in Libia non c’è un ambasciatore dell’Ue, un dato non secondario visto il peggioramento della situazione della sicurezza a Tripoli nelle ultime settimane. 

Il perché, in effetti, non è chiaro. Se si dovesse davvero dare credito ai pettegolezzi della Farnesina, secondo cui nello staff di Antonio Tajani c’è stato chi, dopo aver già dovuto accettare con  fastidio la sgradita nomina di Di Maio come inviato speciale europeo nel Golfo, avrebbe gradito ancor meno la promozione di un diplomatico che proprio dai collaboratori del ministro grillino era stato indirizzato verso Tripoli, ci sarebbe da concludere con tristezza che c’è chi, ai vertici del governo, ricorre al masochismo istituzionale come a un’arma di supposta furbizia. Forse allora per questo tocca accogliere come più concreta l’altra ipotesi. E cioè che siano stati gli apparati francesi a brigare con Dabaiba per propiziare la bocciatura di Orlando, favorendo così un diplomatico transalpino che, arrivato secondo nella graduatoria, si vedrà ora promosso.
E certo, se così fosse, ci sarebbe di che lamentarsi per questa concorrenza sleale operata ai danni dell’Italia dai dirimpettai francesi. Se non fosse, però, che un po’ tutta la strategia diplomatica del governo Meloni in Nord Africa, in questi mesi, e in definitiva buona parte dello spirito del Piano Mattei, “tradiscono una critica esplicita al modello di cooperazione francese”, osserva il renziano Borghi. E certo a Parigi non devono essere parsi apprezzabilissimi gli attestati di onorabilità dati da mezzo governo italiano a quei golpisti nigerini (“Gente affidabile, con cui si può parlare”) che nel frattempo bruciavano la bandiera francese e intimavano all’ambasciatore di Macron di abbandonare il paese.

E a colpire, in ogni caso, è la passività di Farnesina e Palazzo Chigi di fronte allo sgarbo senza precedenti di Dabaiba. Tanto più che proprio l’Italia è, se non l’unico, il più tetragono sostenitore del traballante governo di Tripoli. “C’è che al di là dei singoli episodi – dice allora Lia Quartapelle, deputata del Pd – a  porre seri interrogativi è tutta la strategia dell’Italia nell’area. A partire dalla Libia, certo: in cui l’errore sta nell’aver deciso di scommettere su uno dei contendenti in questa guerra fratricida, anziché profondere ogni sforzo per sedarla, quella guerra, ribadendo la condizione per noi non negoziabile di preservare una Libia unica e indivisibile”. Che poi quell’“our motherfucker” (citando Roosevelt) sia lo stesso che umilia il nostro  governo negando il gradimento a un diplomatico di lungo corso, dà il senso del paradosso africano in cui Meloni annaspa. 
Che è lo stesso che genera incidenti diplomatici come quello tra libici e israeliani (su cui Tajani sarà verosimilmente chiamato a riferire in Senato, alla ripresa dei lavori): incidenti che, sia pure nati per apparente avventatezza del ministro degli Esteri di Tel Aviv, Eli Cohen, “rischiano di delegittimare – insiste Quartapelle – le aspirazioni di protagonismo di un governo che, più o meno consapevole dei pericoli che si correvano, ha accettato di ospitare un incontro delicatissimo”.

D’altronde, quanto quelle aspirazioni poggiassero su basi ancora tutte da costruire, lo si è capito poche settimane fa. Quando, appena dieci giorni dopo la pretenziosa “Conferenza di Roma” su migrazioni e Mediterraneo, il governo filooccidentale del Niger (ospitato con tutti gli onori del caso nella capitale italiana) è finito vittima dei golpisti che inneggiavano a Putin. Con un atto che rischia ora, peraltro, di innescare una miccia che potrà, come dimostra il caso del Gabon di queste ore, generare tensioni un po’ in tutta l’area subsahariana. Torna insomma alla mente quella raccomandazione che Mario Monti, alla vigilia del primo Consiglio europeo di Meloni, nel dicembre scorso, rivolse alla premier nell’Aula del Senato: “A me piace molto la sua idea del Piano Mattei: ma non è che converrà forse all’Italia cercare di mettersi in una posizione il più possibile efficace e autorevole nei tanti progetti che già l’Ue ha per l’Africa? Lo dico perché denominare in modo troppo nostro nuovi progetti può dare ai nostri partner un tranquillizzante stato d’animo del tipo: sì, fate voi”.  Facite vobis et favorite mihi.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.