(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

La stagione dei troppi alibi per il governo

Claudio Cerasa

Il più grande danno che Meloni fa a se stessa, con il complottismo, è costringersi a  puntare su una classe dirigente inadeguata. La “mainstreamizzazione” non c’è e nascono i guai (banche comprese)

Provare a crescere o continuare con gli alibi? Il caso De Angelis in fondo è solo l’ultimo della serie. Prima, negli ultimi mesi, prima cioè del portavoce della regione Lazio costretto a scusarsi per le sue parole sulla strage di Bologna, c’è stato altro. E, per capirci, ci sono state svariate occasioni in cui Giorgia Meloni, in questioni ben più serie rispetto al minuscolo caso di De Angelis, si è trovata a tu per tu con il suo principale problema. Il suo guaio più grande. La ferita più profonda della sua esperienza di governo (ferita che spiega qualcosa sulle radici della scellerata mossa fatta sulle banche lunedì, che ieri ha fatto precipitare la Borsa italiana). Una ferita sintetizzabile in quattro parole: la sua classe dirigente.

Il caso De Angelis, in fondo, è solo l’ultimo della serie. E De Angelis è solo l’ultimo dei reperti archeologici del melonismo costretto a chiedere scusa dopo averla fatta fuori dal vaso. Prima di lui c’è stato il caso Ignazio La Russa, che dopo aver già chiesto scusa per le sue parole sugli omosessuali (se mio figlio lo fosse sarei triste come se mi dicesse che è del Milan) e per le sue parole su via Rasella (furono uccisi solo musicisti pensionati) è stato costretto a chiedere perdono per altre parole sul figlio, accusato di violenza sessuale e bollinato come innocente dal presidente del Senato in seguito a un interrogatorio estemporaneo fatto da lui medesimo. Dopo La Russa c’è stato il caso Daniela Santanchè, il ministro che secondo una solida inchiesta di “Report” avrebbe gestito in modo opaco i conti della sua società (Visibilia). Prima del caso Santanchè ci sono stati i casi di Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, autori dell’indimenticabile duetto sul caso Cospito (Donzelli ha attaccato in Aula l’opposizione utilizzando materiale coperto da segreto consegnatogli verbalmente dal suo coinquilino e compagno di partito Delmastro). Prima di loro c’è stato il caso Francesco Lollobrigida (il ministro dell’Agricoltura ha affermato di essere preoccupato dalla sostituzione etnica, spiegando poi di non avere idea della gravità dell’espressione da lui usata). Prima del caso Lollobrigida c’è stato il caso Fabio Rampelli (l’ex vicepresidente della Camera ha proposto di multare chi nella pubblica amministrazione fa un uso eccessivo delle parole in lingua inglese).

 

Prima del caso Rampelli c’è stato il caso Luca Ciriani (non si ricordano molti casi di ministri dei Rapporti con il Parlamento capaci della non facile impresa di non riuscire a evitare di fare andare in minoranza la maggioranza sulla più importante legge dello stato: il Def). Prima del caso Ciriani c’è stato il caso Alessio Butti (il sottosegretario all’Innovazione che a borse aperte ha parlato di nazionalizzazione di Tim). E oltre a loro ci sono stati, in alcune società dove Meloni ha messo lo zampino, il caso Claudio Attanasio, manager a capo di una società chiamata a gestire i software di Inps, Inail e Istat, costretto a dimettersi dopo aver inviato una email ai componenti del cda da lui guidato in cui parafrasava il celebre discorso fatto da Benito Mussolini in Parlamento per rivendicare la responsabilità politica dell’omicidio di Giacomo Matteotti. E, storia di queste ore, c’è stato anche il caso di Giuseppina Di Foggia, nuovo numero uno di Terna, che dalla sera alla mattina ha cacciato tre dirigenti della prima linea (cfo incluso) senza avere sostituti pronti perché questi facevano propaganda con i consiglieri di amministrazione sostenendo che, per evitare disastri, vista la poca competenza della nuova ceo, era urgente nominare un direttore generale solido per affiancarla. Ci sarebbero molti altri casi da citare (altri casi che testimoniano la difficoltà di Meloni nel coinvolgere volti nuovi con una selezione di accesso non costruita quasi esclusivamente sulla base della fedeltà a vecchie prassi, vecchie amicizie, vecchie ideologie). Ma per il momento ci accontentiamo di questi e proviamo ad andare rapidamente al nocciolo della questione. Negli stessi mesi in cui Meloni ha compiuto passi da gigante nel suo percorso di crescita, la sua classe dirigente, compiendo ripetuti passi più da gambero che dell’oca, ha fatto di tutto per vanificare ogni tentativo di crescita del presidente del Consiglio. Con gaffe, errori, infortuni, uscite malsane, affermazioni bislacche, incompetenze manifeste. Al contrario di quello che si potrebbe credere non si tratta solo di forma: si tratta di sostanza. Perché dietro al deficit di classe dirigente della stagione meloniana (un deficit che si riscontra con chiarezza anche ragionando sull’origine dei provvedimenti di lunedì sera sulle banche, sui taxi, sul golden power: il ministro Adolfo Urso, detto Urss, aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per tenere le grandi multinazionali lontane dall’Italia, e a giudicare dalle scelte fatte nell’ultimo Consiglio dei ministri, scelte volute direttamente da Palazzo Chigi e dal ministero dello Sviluppo, la missione è più che compiuta) si individuano alcuni evidenti punti deboli della sua stessa leadership.

 

La classe dirigente non all’altezza delle sfide del governo non è solo il riflesso di quello che Meloni è stata e che ora cerca di non essere più. Ma è anche il riflesso di altri problemi. Il complottismo della leader, innanzitutto, che non riesce a fidarsi di nessuno con cui non abbia costruito un rapporto familiare, quasi carnale. A capo del partito oggi c’è la sorella, Arianna. A capo della delegazione del governo c’è il cognato, Lollobrigida. A capo del suo staff a Palazzo Chigi c’è Patrizia Scurti, capo della segreteria, sposata con il caposcorta di Meloni. Alla Consob è stata scelta come commissario la sorella di Gianni Alemanno. E, eccezion fatta per Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio non organico a Fratelli d’Italia, ogni piccolo tentativo di aprire il proprio mondo a volti non direttamente legati alla sua storia fatica a prendere quota (vedi il caso del capo ufficio stampa di Palazzo Chigi, Mario Sechi, che ha resistito nel ruolo per pochi mesi). La difficoltà di Meloni a costruire una classe dirigente all’altezza della situazione (anche l’ottima nomina di Fabio Panetta alla guida di Bankitalia nasce non solo per questioni di competenza ma anche per questioni personali legate all’idea che di Panetta “ci si possa fidare”) ha una causa evidente (l’approccio complottista: non ci si può fidare di nessuno), ha una spiegazione logica (a differenza della Lega, Fratelli d’Italia non ha una squadra forgiata dalle amministrazioni regionali e comunali), ha una motivazione ovvia (alla presenza nel suo giro di un passato ancora troppo pesante, identitario, che affiora quando meno te lo aspetti), ha effetti palesi (l’aver affidato l’intero pacchetto del Pnrr al valido Raffaele Fitto, sottraendo molte competenze al Mef, al ministero dell’Economia, nasce anche dalla volontà della premier di non mettere potere eccessivo nelle mani della Lega, che guida l’Economia attraverso il ministro Giorgetti), ha riflessi interessanti (Meloni è così consapevole di avere una classe dirigente non ancora matura come vorrebbe da essere stata costretta a confermare molte nomine del passato, in alcune partite molto rilevanti, che vanno da Eni a Poste passando per la Ragioneria di stato, le agenzie delle Entrate e l’Agenzia del demanio) e ha una conseguenza evidente che coincide con la spia di un guaio più grande rispetto a quelli appena descritti (finora Meloni in fondo è sempre riuscita a mettere una pezza ai problemi creati dai suoi).

 

La questione è questa. La mainstreamizzazione di Fratelli d’Italia, il tentativo finora riuscito da parte di Meloni di far dimenticare la storia della sua destra portando la sua maggioranza di governo verso una traiettoria incoerente con la propria storia, al momento è solo figlia del calcolo e della bravura di una persona, ovvero Meloni, che non a caso spesso viene considerata anche dai suoi avversari come un formidabile argine alle pazzie della sua maggioranza; ma la difficoltà incontrata in questi mesi da Meloni nel riuscire a plasmare, creare e far maturare una classe dirigente in grado di essere lo specchio dei suoi progressi è il riflesso di un tema che può avere un peso nel futuro. Un tema che potremmo grosso modo sintetizzare così: le svolte di Meloni sono svolte strutturali, sono cioè svolte che indicano il passaggio definitivo da una stagione all’altra della storia della destra? O, essendo svolte che non riescono a far presa sulla classe dirigente del suo partito, sono svolte episodiche, non profonde, destinate a diventare controsvolte alla prima occasione utile (per esempio l’eventuale elezione di un Trump)?

 

Nella vita di un politico, ci sono momenti strategici (parola a cui Meloni è affezionata: prima tutto era sovrano, ora è strategico) che definiscono chi sei, cosa vuoi, cosa non sei disposto a tollerare e cosa non puoi più permetterti che venga considerato riconducibile a te (quello italiano è forse l’unico sistema politico al mondo in cui il partito del presidente del Consiglio genera più rogne al governo che tutta l’opposizione messa insieme). Fino a oggi, il governo Meloni si è contraddistinto per il suo formidabile non essere (non siamo quelli che pensavate). Oggi, in presenza di un percorso riformatore che promette di non dare molte soddisfazioni, far crescere una classe dirigente all’altezza delle sfide dell’Italia può diventare il più importante test di maturità di Meloni per capire non solo cosa non vuole essere ma anche cosa vuole essere. E per essere giudicata non per quello che non fa, ma per quello che la sua destra può esprimere e con una classe dirigente all’altezza della situazione difficilmente si sarebbe riusciti nel miracolo di bruciare in un giorno solo in Borsa più di quanto il governo potrebbe ricavare con i proventi derivanti dalla tassazione sugli extraprofittisulle banche, senza considerare il fatto che il risultato di un’operazione così sofisticata sarà che anziché salire i rendimenti sui depositi delle famiglie, saliranno i tassi sui prestiti alle imprese e questo avrà un impatto anche sulla crescita). Meno complottismo, più apertura, più visione. Il passaggio dalla stagione degli alibi a quello della crescita sta anche da qui. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.