Tra la Romagna e il Niger. Le inquietudini di Figliuolo, l'ubiquo. "Il doppio incarico? Non l'ho chiesto io"

Valerio Valentini

Il golpe nel Sahel allarma il governo. A Palazzo Chigi si riuniscono i vertici dei servizi e delle Forze armate, ma l'alpino, che dovrebbe presidiare il Comitato interforze dell'esercito, è a Modena per la ricostruzione. Inarichi che si sovrappongono, perplessità che crescono anche nella maggioranza. Il caso dell'ambasciatrice Gatto rimasta a Roma

Allarga le braccia. Spiega che non se l’è certo andata a cercare lui, questa rogna. Che anzi se l’è vista attribuire, la nomina, e a quel punto, da buon soldato, ha detto: “Obbedisco”. Non è eccesso d’ambizione, dunque, ma di zelo. E sia. Sta di fatto, però, che ieri pomeriggio, mentre a Palazzo Chigi si riunivano i vertici del governo, dei servizi segreti e dell’Esercito, Francesco Paolo Figliuolo era nella sede della provincia di Modena. A Roma si ragionava sul numero di militari (quasi 300) e di civili (98) presenti in Niger; lui, intanto, era alle prese coi sindaci emiliani e romagnoli e con ben altra contabilità, quella, cioè, delle 2.150 opere da realizzare per rimettere in sesto i comuni dissestati dall’alluvione di maggio. Da un lato i golpisti e la brigata Wagner, dall’altro le dighe e i canali di scolo. E lui, l’alpino che “non ho certo il dono dell’ubiquità”, preso nel mezzo, schiacciato in un doppio incarico che, giura, non ha voluto, ma per certi versi ha subito.

E in effetti sì, scegliere lui, Figliuolo, era per Meloni l’unica scelta per poter dire di no a Bonaccini senza innescare una polemica politica. E non è un caso che qualche perplessità, sulla sua nomina a commissario straordinario per l’alluvione, ce l’avesse, pare, anche Guido Crosetto, che a inizio luglio si prese qualche giorno di riflessione, prima di dare il suo assenso, e alla fine lo concesse solo dopo avere concordato col diretto interessato le regole d’ingaggio. Perché Figliuolo era anche, ed è tuttora, capo del Covi, il Comando operativo di vertice interforze, l’organismo che coordina  le operazioni dei nostri militari in patria e all’estero. E dunque era comprensibile che alla Difesa volessero precisare che in nessun caso le strutture e le risorse del Covi dovessero essere dirottate sulla pure decisiva sfida della  ricostruzione in Romagna.

Patti chiari, dunque. Ma che reggevano su un equilibrio inevitabilmente precario. Ed è bastato il primo  primo ingorgo di accidenti a dimostrarlo, con conseguente corredo di chiacchiericci tra la Farnesina, la Difesa,  e Palazzo Chigi, (dove Meloni si limita a dire, per ora, che “l’Italia auspica una soluzione negoziale della crisi in Niger e la costituzione di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale”). E così perfino la nota con cui Crosetto ha dichiarato di essere “in continuo contatto con il Capo di stato maggiore della Difesa e con la sala operativa del Covi” ha finito con l’illuminare la mezza anomalia di una “sala operativa” priva del suo supremo responsabile, che nel frattempo fronteggiava le polemiche del Pd sui ritardi della ricostruzione e si affrettava a formalizzare la nomina dei presidenti delle regioni coinvolte – Bonaccini, Giani e Acquaroli – alla carica, più fantozziana che marziale, di  “subcommisari per la ricostruzione”. Certo, non che l’agenda di Figliuolo, di per sé, cambia le sorti del Niger. Però è inevitabile che, nei pettegolezzi del Transatlantico, venga ricondotto “al troppo lavoro  di Figliuolo” pure un mezzo passo falso, come il mancato rientro in tempi utili di Emilia Gatto, l’ambasciatrice che giorni fa era tornata dal Niger per motivi di salute (e che peraltro s’appresta già alla  nuova  missione in Corea del Sud) e che dunque ha lasciato senza diretto presidio diplomatico la capitale Niamey.

Vai a sapere se è  così. Di certo il problema di un eccesso di responsabilità sulle spalle di Figliuolo se lo era posto, a suo tempo, pure Mario Draghi. Che infatti, quando decise di metterlo a capo del Covi, concordò  con l’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, un periodo di non più di tre mesi per fare in modo che la regia della campagna vaccinale, fino ad allora svolta con efficienza dal generale lucano, venisse tolta dalle prerogative dell’alpino, come in effetti avvenne. E’ forse, chissà, il destino di quelli bravi: finire con l’essere voluti da tutti, ritenuti quasi insostituibili, perfino da chi ti critica, come Meloni ai tempi della pandemia con Figliuolo. Sta di fatto che, nel ruolo di Figaro, un alpino rischia di starci stretto, specie se  “non ho il dono dell’ubiquità”.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.