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Editoriali

I riformisti del Pd hanno tantissime ragioni ma pochissima forza. Come uscirne?

Redazione

La corrente che si ricononsce nel manifesto sottoscritto da Ceccanti, Morando e Tonini dice cose condivisibili. Ma per prevalere all'interno della comunità del Pd, questo tipo di posizioni hanno bisogno di un sostegno più ampio

Tre importanti esponenti dell’area riformista del Pd, Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini, hanno steso, su Repubblica, un documento di critica all’impostazione di Elly Schlein e ricco di argomenti interessanti. Annunciano di voler dar vita a una battaglia interna al partito per rendere esplicito il suo carattere plurale e democratico. Le loro proposte sulla riforma istituzionale, che considerano urgente e che quindi non può essere affrontata con tattiche “aventiniane”, l’ammonimento a non far precedere la redistribuzione alla crescita di competitività, l’accento posto sulla centralità della formazione scolastica e professionale per intervenire sui ritardi nell’innovazione e le strettoie del mercato del lavoro, sono piene di buon senso e di razionalità.

In sintesi si può dire che abbiano molte ragioni, anzi che hanno ragione. Però non hanno forza. E la domanda che ci si pone è proprio questa: perché un riformismo maturo, equilibrato e competente conta così poco? Perché il loro appello ai riformisti perché facciano sentire la loro voce sembra più che altro una petizione di principio? Il fatto è che questo tipo di proposta, che richiede un certo livello di cultura politica per essere apprezzato, finisce spesso per essere ininfluente per il prevalere di concezioni palingenetiche. I riformisti vogliono migliorare le istituzioni, l’economia, la società, ma per chi proclama l’esigenza di “superare”, non si sa bene come, il capitalismo, migliorare è troppo poco. Sono passati più di quarant’anni da quando i riformisti del Pci, quelli raccolti attorno a Giorgio Napolitano, vennero definiti “miglioristi” con tono quasi canzonatorio. Anche a loro toccò la stessa sorte di emarginazione, perché il senso comune della sinistra di allora (e a quanto pare di oggi) considerava il miglioramento come la ricerca di una via facile, contrapposta alla non meglio definita ma affascinante “trasformazione”. Oramai dovrebbe essere chiaro che sforzo, culturale e politico, richieda un’opera di miglioramento reale, mentre la proclamazione dell’alterità radicale e identitaria richiede solo un po’ di retorica. Dovrebbe essere chiaro ma, evidentemente, non lo è.

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