25 aprile - Festa della Liberazione, le celebrazioni a Bologna (LaPresse) 

libertà vigilata

Libertà: una parola, e un'idea, quasi assente nel dibattito pubblico, a destra e a sinistra

Carlo Stagnaro

Ha un ruolo da comprimario, mai da protagonista. Eppure la libertà non è solo giusta, è anche necessaria per un futuro di prosperità. Un’indagine sull’Italia con le mani legate, alla vigilia del giorno della Liberazione

C’è una parola su cui domani, giorno della Liberazione, dovremmo soffermarci tutti a riflettere: libertà. La libertà, nel dibattito pubblico italiano, semplicemente non c’è. Non che sia del tutto assente. C’è suo malgrado. C’è in incognito. C’è da comprimaria ma senza mai avere un ruolo da protagonista. Quando Giorgia Meloni, nel discorso della fiducia, ha detto che “il nostro motto sarà: non disturbare chi vuole fare”, ha reso omaggio alla libertà degli individui di intraprendere e creare valore economico, anticipando e soddisfacendo i bisogni degli altri. Quando Elly Schlein ha sostenuto che “non c’è alcuna ragione di negare il riconoscimento, il diritto all’esistenza in questa comunità” ai figli delle coppie omogenitoriali, ha riconosciuto che le persone dovrebbero poter scegliere come organizzare la propria vita. Tutti, sostenitori e oppositori del governo, domani declameranno discorsi pensosi attorno alla libertà ch’è sì cara, come sa chi per lei vita ha rifiutato – e grazie al cui sacrificio noi siamo qui, oggi, ad azzuffarci. 

  

Quando parla di economia, Schlein non fa che chiedere vincoli, obblighi e divieti per le imprese. E quando parla di società, Meloni non fa che chiedere vincoli, obblighi e divieti per le persone

  
Solo che quasi nessuno estrapolerà dalle sue stesse affermazioni un valore generale e prioritario. Non lo faranno gli estensori delle arringhe del 25 aprile, né quelli che sinceramente vorranno celebrare la Resistenza, né quanti proveranno a strumentalizzare le gesta dei partigiani e degli alleati per segnare un goal nel derby della politica. Non lo faranno neppure coloro che, a partire dal 26, torneranno alle consuete baruffe. La libertà, per loro, non rappresenta un valore in sé: è subordinata ad altri obiettivi che le sono sovraordinati. Per la presidente del Consiglio, forse, l’ordine borghese da cui dipende la sicurezza economica e quindi nazionale; per la segretaria del Pd, forse, l’espressione di sé che deriva dal superamento di convenzioni e tradizioni. Eppure, quando parla di economia Schlein non fa che chiedere vincoli, obblighi e divieti per le imprese. E quando parla di società, Meloni non fa che chiedere vincoli, obblighi e divieti per le persone. 

   
Com’è possibile che la libertà – cioè l’assenza di costrizioni – assuma un ruolo tanto diverso all’interno di prospettive così lontane? E’ una domanda complicata, a cui hanno tentato di rispondere nel tempo legioni di filosofi. Si può, hanno spiegato, essere coerenti se si difende il diritto di un individuo di avviare un’impresa e fabbricare un nuovo prodotto pretendendo però di ficcare il naso nella sua camera da letto. E si può essere coerenti battendosi per il diritto di ciascuno di vivere con chi vuole e come vuole, purché non apra un negozio a meno di una certa distanza da un altro esercizio che vende gli stessi articoli. La coerenza tra queste posizioni deriva appunto dal fatto che la libertà – economica in un caso, civile nell’altro – ne è un elemento incidentale. L’obiettivo vero, l’aspirazione politica, non è la libertà ma è qualcos’altro. Lo dimostrano i temi su cui ci confrontiamo e che prendono il sopravvento delle cronache politiche: oggi la carne sintetica e la pretesa di non farla arrivare sulle nostre tavole; domani l’intenzione di strumentalizzare l’emergenza climatica per scardinare il capitalismo liberale e imporre lo stato imprenditore; dopodomani l’aggressione alla libertà di movimento rappresentata alla stregua di un complotto per la sostituzione etnica.

  

Il motore del progresso economico. Il periodo di maggior crescita dell’Italia unitaria,  sgorgato da quella  giornata di primavera del 1945, coincide con una fase in cui le imprese sono state lasciate libere di intraprendere e sperimentare

  

E, più concretamente, pochi giorni fa col via libera a una legge “per il mercato e la concorrenza” i cui contorni sono talmente minimalisti da dire tutto ciò che c’è da dire in merito al ruolo che, nella nostra società, assumono la competizione e il diritto a innovare (spoiler: nessuno).

 
Ecco. Questo articolo non vuole essere un trattato sulla libertà (che l’autore non sarebbe in grado di scrivere) né una riflessione sulla coerenza interna ed esterna delle piattaforme politiche delle principali forze politiche italiane (che all’autore interessa il giusto, cioè poco). Questo articolo vuole essere un lamento. Non per la scontata e inevitabile assenza, nell’offerta politica italiana, di un movimento che voglia farsi portabandiera della libertà, senza aggettivi e a nulla subordinata se non alla libertà altrui. La politica è la bassa cucina dell’ideologia: è importante, perché il cuoco stabilisce il menu e può dirci cosa possiamo avere per cena. Ma il cuoco non può dirci cosa vorremmo avere per cena. E dunque questo vuole essere un lamento perché una cultura della libertà a 360 gradi in questo paese non c’è o, se c’è, è talmente minoritaria che all’atto pratico è come se non ci fosse.


Una delle migliori rese cinematografiche della libertà – seppure in un suo aspetto specifico – si trova nel film “The People vs Larry Flint” diretto da Miloš Forman. Il film racconta le vicende processuali del fondatore di Hustler Magazine, che ruotano attorno al diritto di pubblicare una rivista esplicitamente pornografica e irriverente. L’arringa finale dell’avvocato Alan Isaacman merita di essere riportata integralmente: “Io non vi voglio affatto convincere che debba piacervi quello che fa Larry Flynt. A me per primo non piace. Ma quello che mi piace è che viviamo in un paese in cui io e voi possiamo giudicare in piena autonomia. Mi piace vivere in un paese dove posso comprare Hustler Magazine e leggerlo se voglio, o buttarlo nell’immondizia se penso che quello sia il suo posto, o meglio ancora esercitare la mia libertà di giudizio non comprandolo. Mi piace avere questo diritto e voglio difenderlo”. La libertà non ha a che fare coi gusti e le preferenze individuali. Ha interamente a che fare col tipo di società che abbiamo in mente e con la sua capacità di contenere preferenze che possono essere diverse o addirittura inconciliabili. Ha a che fare, in sostanza, con l’unicità e irripetibilità di ogni essere umano e la convinzione che le conseguenti differenze sono la fonte di ricchezza e progresso. 

  
La tesi di fondo è che la libertà non è solo giusta: è utile e necessaria

   

La libertà economica

 
Gli economisti hanno studiato a lungo le cause della crescita economica e ancora non hanno trovato una risposta conclusiva. Hanno messo, però, alcuni punti fermi. Uno è che la capacità di una società di esprimere un miglioramento delle condizioni di vita materiali – cioè di far crescere il paniere di beni e servizi di cui le persone possono godere – ha molto a che fare con la qualità delle istituzioni. I due motori prossimi della crescita sono gli investimenti e l’innovazione. Investimenti e innovazione comportano sempre l’assunzione di un rischio: un investimento può rivelarsi sbagliato e determinare la bancarotta di chi lo intraprende; un’innovazione, apparentemente promettente, può finire in un buco nell’acqua. Eppure, è socialmente desiderabile che le imprese assumano questi rischi, facciano dei tentativi e, se sbagliano, ne paghino le conseguenze. Perché mai qualcuno dovrebbe mettere a repentaglio le sue risorse? Perché, se le cose andranno bene, ne sarà ampiamente ricompensato. Il punto chiave è che, mentre i fallimenti sono privati, i successi sono pubblici: una nuova tecnologia non genera vantaggi solo per chi la scopre e la commercializza, ma per tutti coloro che la utilizzano (altrimenti non abbandonerebbero quelle precedenti). Quindi investimenti e innovazione, che quando sono sbagliati vengono pagati dai singoli, quando producono risultati generano avanzamenti diffusi. Si può dire che, se stiamo mediamente molto meglio di cinquanta o cento anni fa, è perché ci siamo appropriati di una parte del valore creato dai grandi innovatori del passato (inclusi i tanti il cui nome è andato perduto). Thomas Edison e Jeff Bezos si sono arricchiti perché hanno migliorato il nostro benessere, intercettando una piccola parte dell’immenso valore sociale che hanno creato. 


La libertà economica è, in questo senso, uno degli ingredienti fondamentali del progresso economico. E non è un caso se e i periodi e i paesi di massima espansione economica si sono distinti proprio per l’ampio spazio che lasciavano (e lasciano) all’ingegno dei singoli – cioè per l’essersi dotati di istituzioni favorevoli all’intrapresa. Ce lo racconta la nostra stessa storia: il periodo di maggior crescita dell’Italia unitaria, cioè il “miracolo economico” sgorgato da quella straordinaria giornata di primavera del 1945, coincide con una fase in cui le imprese e gli imprenditori sono stati lasciati liberi di intraprendere, sperimentare e avere successo dopo un Ventennio segnato dall’oppressione politica e dal dirigismo economico. 


Cosa significa libertà economica, in concreto? Una possibile risposta sta nei criteri sviluppati dagli economisti Jim Gwartney, Robert Lawson e Walter Block per conto del Fraser Institute. L’indice da loro elaborato esplora cinque aree: il peso dello stato, la robustezza del sistema giuridico e della tutela dei diritti di proprietà, la stabilità monetaria, la libertà di scambio e la regolamentazione. La libertà economica coincide, in tale ottica, con la minimizzazione delle interferenze pubbliche nelle iniziative individuali. Quanto più lo stato condiziona le condotte di persone e imprese – per esempio con tasse, sussidi, regole, divieti, obblighi, ecc. – tanto meno l’economia può dirsi libera. 


La libertà economica ricorda molto da vicino la battuta della presidente del Consiglio sul “non disturbare chi vuole fare”. Solo che, poi, le parole devono avere conseguenze. E allora diventa difficile argomentare che non bisogna mettere i bastoni tra le ruote a chi intende avviare un’iniziativa imprenditoriale, a meno che l’aspirante imprenditore non intenda vendere (e l’aspirante consumatore comprare) farina di grillo o carne sintetica. Vale, qui, il caveat di Larry Flynt: la questione non è se, a ciascuno di noi, la farina di grillo piace oppure no, e non è neppure se abbiamo intenzione di provarla per farci un’opinione. La questione è, più banalmente, che la produzione e commercializzazione di farina di grillo nulla tolgono a coloro che non ne sono attratti, e invece offrono qualcosa a chi vi è interessato.


Il discorso è ben più ampio. I partiti di destra tendono a essere ostili alla libertà economica quando essa consente ai consumatori di indirizzare le proprie scelte verso prodotti che ai conservatori non piacciono. E’ il caso della concorrenza internazionale: il protezionismo, cioè il tentativo di favorire i prodotti nazionali rispetto a quelli provenienti dall’estero, prima ancora che una discutibile strategia di politica economica è un abuso nei confronti dei consumatori.

 

 A sinistra, il cavallo di Troia del clima per un attacco alla libertà economica. L’ossessiva campagna per la pulizia del linguaggio e la discussione sulla gestazione per altri: due indizi di una politica che non tende a garantire a ciascuno la massima libertà di scelta.  La libertà  esorcizzata perché si temono le sue conseguenze

 

A maggior ragione, questo vale nei confronti di una serie di attività, di per sé non aggressive né invasive, che vengono tuttavia rifiutate su basi puramente moralistiche: dalla prostituzione alla vendita di stupefacenti (a partire dalla marijuana). Dietro al rigetto di queste attività c’è un tic assai frequente nella destra italiana (e non solo), cioè l’idea che la libertà economica vada costretta all’interno della gabbia della tradizione. Cioè, va bene non disturbare chi vuole fare, purché voglia fare le cose che si sono sempre fatte, nel modo in cui le si sono sempre fatte, e con l’esclusione dei comportamenti disdicevoli (o, almeno, che tali sono agli occhi di molti). Per non dire dei partiti di sinistra, che oggi hanno trovato nel clima uno straordinario cavallo di Troia per sferrare un attacco senza precedenti alla libertà economica. E ciò a dispetto del fatto che proprio un’economia libera può mettere a disposizione gli strumenti per perseguire, in modo socialmente sostenibile ed economicamente efficiente, la riduzione e poi l’azzeramento delle emissioni nette. Invece, sembra quasi che la volontà di imporre l’ecologismo di stato abbia il sopravvento sull’esigenza dichiarata di raggiungere la neutralità climatica: tant’è che innumerevoli tecnologie (come il nucleare) e strumenti di policy (come la tassazione del carbonio e la competizione tra fonti pulite) vengono sacrificati sull’altare dello statalismo climatico. 

  

Milano, 25 aprile 1945: Sandro Pertini parla in piazza Duomo dopo la liberazione (foto LaPresse) 
  

Eppure, la crescita nasce, per definizione, dal superamento costante e ininterrotto degli equilibri pre-esistenti. Pertanto, essa richiede – prima ancora che norme formali – la garanzia di alcuni orientamenti di fondo. Il premio Nobel Edmund Phelps ha indagato la questione, mostrando che – se la crescita è legata alle istituzioni della società libera – queste ultime sono ancorate a dei valori di riferimento diffusi e condivisi, quali l’individualismo, il rispetto per il successo personale, la curiosità e la disponibilità al cambiamento. Questi valori, per Phelps, definiscono la modernità e si contrappongono alla forza centripeta del comunitarismo, della resistenza al cambiamento, della ricerca del conforto nella sicurezza della mediocrità. 


Tale riflessione si estende e si applica anche al modo in cui le forze di sinistra – specie in questi ultimi tempi di deriva massimalista – concepiscono la libertà.

 

I diritti civili

A sinistra si fa fatica a parlare di libertà. Il linguaggio di Schlein è esemplare a tal proposito: tale termine non compare praticamente mai nella sua retorica, mentre fa grande uso di uguaglianza e “diritti”.


E’ certamente un elemento della libertà il riconoscimento e la garanzia di ciascuno di poter esprimere sé stesso e di poter ricercare la propria felicità costruendo la vita che più gli aggrada. Un contesto di libertà, in cui ciascuno può sentirsi a proprio agio e non giudicato o criminalizzato, è utile in modi imprevedibili. Lo argomenta José Van Dijck in un libro singolare e persuasivo, “The Culture of Connectivity”. La sua tesi fondamentale è che non si può comprendere il boom della Silicon Valley a partire dagli anni Novanta se non si tiene in debita considerazione la funzione che ha svolto la controcultura degli anni Settanta e Ottanta. Se non ci fosse stato un clima di diffusa accettazione e anzi esaltazione delle diversità e anche delle bizzarrie, difficilmente si sarebbe creato prima quell’entusiasmo che vedeva nel web lo strumento di liberazione delle masse, e poi quel fermento innovativo che ha plasmato la società digitale di oggi. 

  
L’aspetto interessante, qui, è che la libertà gioca nella società lo stesso ruolo che ha nell’economia: essa è una leva di espressione e sperimentazione. La società libera non è una società di eguali (nel senso di replicanti indistinguibili) ma un tripudio di differenze; non è una tinta unita ma un caleidoscopio. Una persona libera di essere sé stessa nella vita privata sarà probabilmente più produttiva sul posto di lavoro, e viceversa. La spinta verso la coesistenza delle diversità arriva non solo dalle istituzioni politiche ma anche dal progresso tecnologico. Può apparire controintuitivo, ma è difficile immaginare la società odierna senza ammettere il ruolo che hanno avuto, in tempi e modi differenti, l’automobile, la lavatrice, il telefono, internet. Tutti strumenti che hanno contribuito a emancipare gli individui dal luogo, dalla classe sociale e dalla condizione in cui erano nati.


Intendiamoci: sarebbe semplicistico ridurre gli enormi cambiamenti sociali che ci sono stati alla mera disponibilità di un’automobile. Per dirne una, la scuola è stata (e dovrebbe essere) un formidabile veicolo di emancipazione. Ma al tempo stesso è difficile negare l’importanza di quegli strumenti che consentono al singolo di scegliere, concretamente, che vita fare, dove svolgerla, come organizzarla. E’ lodevole, in questa prospettiva, l’enfasi che la sinistra pone sul diritto di ciascuno di disegnare la propria esistenza e scegliere con chi, e come, viverla. E’ un grande segno di civiltà insistere sulla difesa di un istituto come le unioni civili (che andrebbero definitivamente e in tutto parificate al matrimonio) e osteggiare l’assurda campagna prefettizia contro la trascrizione dei figli nati da coppie omogenitoriali. Ma, ancora una volta, tutto ciò è strumentale: al centro non c’è l’aspirazione a garantire a ciascuno la massima libertà di scelta, c’è la volontà di costruire un modello di società diversa ma non meno opprimente di quella tradizionale.


Lo vediamo da tanti indizi. Due su tutti: l’ossessiva campagna per la pulizia del linguaggio e la discussione sulla gestazione per altri. Il wokeism prende le mosse da una rivendicazione apparentemente innocua o addirittura sana: sensibilizzare sul peso che le parole e gli atteggiamenti possono avere nei confronti degli altri. Invitare tutti a fare attenzione agli altri e rispettarne le scelte. Solo che questa ragionevole richiesta spesso trascende in una furia censoria e pretende di infliggere e imporre una sorta di neolingua non solo depurata dalle espressioni offensive, ma caratterizzata dal venire meno della funzione principale della lingua – cioè comunicare. L’elenco sempre crescente delle parole proibite finisce per estendersi ai concetti che esse esprimono. Non dovrebbero trarre in inganno l’apparenza un po’ buffa della crociata per l’uso della (o dello?) schwa né le esagerazioni sulla riscrittura delle opere del passato (anche recente: vedi Roald Dahl). Proprio l’editing invasivo disposto da Penguin su libri come “Matilde” e “La fabbrica di cioccolato” mostra che non si tratta semplicemente di dare una svecchiata al linguaggio, utilizzando parole più acconce al giorno d’oggi. C’è una volontà di riscrittura più ampia, che investe lo stesso significato della trama e il messaggio del libro. Questa non è una metaforica guerra di liberazione linguistica, ma una spedizione di conquista: non il 25 aprile, ma il 27 ottobre della lingua. E, poiché ogni estremismo attira un estremismo uguale e contrario, proprio gli eccessi woke hanno stimolato una reazione conservatrice ancora più ridicola, come le norme promulgate in alcuni stati americani per mettere all’indice i libri con contenuti sessuali espliciti. Che hanno indotto un simpatico burlone a chiedere di ritirare la Bibbia dalle scuole per i suoi contenuti violenti. Chi la fa, l’aspetti, in una spirale tragicomica di continua deprivazione della libertà altrui, dove ciascuna parte si appropria delle armi dell’altra per rivolgerle contro di essa (e contro di tutti).


Ancora più istruttiva è la disfida sul cosiddetto utero in affitto, che non solo ha visto schierate l’una contro l’altra destra e sinistra, ma ha prodotto anche una gazzarra interna allo stesso universo di sinistra. Uno degli elementi del contendere riguarda la possibilità che alcune donne mettano il proprio utero a disposizione di terzi dietro pagamento. Perfino una persona acuta e attenta come Vladimir Luxuria, pur rivendicando il diritto delle donne a offrirsi gratuitamente ad altre coppie in cerca di figli – ha ritenuto che tale facoltà debba cessare di fronte allo scambio di denaro. Il corpo è mio e lo gestisco io, purché gratis. La stessa considerazione si può estendere a qualunque utilizzo una persona voglia fare del proprio corpo, gratis o dietro compenso, purché volontariamente e in assenza di costrizione. Mai come oggi si percepisce l’enorme vuoto lasciato da Roberta Tatafiore il 14 aprile di quattordici anni fa; mai come oggi si avverte il bisogno di qualcuno che sappia, in modo pazzo e leggero e profondo come sapeva lei, sollevare il peso delle nostre contraddizioni. 


La libertà è una mela


Il dramma di questa divisione è che spesso ha come esito un equilibrio deteriore, almeno dal punto di vista della libertà. Sulle politiche industriali, tra Meloni che sembra volere uno stato meno invasivo e Schlein che invece pretende di dettare quale tipo di motore dovrebbe avere la nostra automobile prevale quest’ultima; ma tra Meloni che mette una croce sulle famiglie non tradizionali (qualunque cosa ciò voglia dire) e Schlein che invoca una maggiore apertura la spunta la prima. Mentre in altre fasi storiche l’alternanza tra conservatori e progressisti ha generato un movimento sincrono della società verso una maggiore libertà, oggi è apparentemente vero il contrario. Lo documentano i conflitti in corso – ne abbiamo citati alcuni, se ne potrebbe rammentare altrettanti, dalla tolleranza religiosa alla politica ambientale – e lo conferma la china preoccupante del dibattito pubblico. 


Questi scontri si sono svolti su molti terreni apparentemente indipendenti gli uni dagli altri: il diritto degli imprenditori di produrre (e dei consumatori di consumare) i prodotti che preferiscono, quello degli individui di fumare marijuana (o tabacco), quello delle coppie di sposarsi e avere figli, quello delle persone di utilizzare il corpo come preferiscono. Eppure c’è un filo rosso che li attraversa e li unisce ed è quello del rapporto che abbiamo con la libertà. La libertà viene esorcizzata perché si temono le sue conseguenze: come nel giardino dell’Eden, la libertà è il frutto dell’albero vietato. Eppure, se Adamo ed Eva non avessero colto la mela, forse si sarebbero risparmiati tante sofferenze, ma i loro discendenti non avrebbero donato alla collettività scoperte scientifiche e opere d’arte. O, in modo meno immaginifico, se i nostri lontani progenitori non si fossero spinti fuori dalle grotte e avessero cercato di domare il fuoco (si presume con molti danni e perdite), noi oggi vivremmo una vita solitary, poor, nasty, brutish, and short.


Il ragionamento svolto finora trova conferma in due dati che dovrebbero essere al centro del dibattito politico, e che ne sono invece alla periferia. Primo dato: nel 2022 la popolazione residente in Italia ha perso quasi 200 mila unità. Il declino demografico è apparentemente inarrestabile. Secondo l’Istat, gli italiani scenderanno a 58 milioni nel 2030, 54 milioni nel 2050 e 47 milioni nel 2070. Secondo dato: come ha notato Nicola Rossi nell’ambito del progetto dell’Istituto Bruno Leoni sul dinamismo imprenditoriale, il rapporto tra le nuove imprese e il totale di quelle attive passa dal 6-10 per cento della metà degli anni Ottanta a meno del 3 per cento nei primi anni del secolo per poi atterrare negli ultimi dieci anni stabilmente fra l’1 per cento e il 2 per cento. Se poi teniamo conto anche della mortalità, il tasso netto di natalità (o turnover netto) si attesta sotto allo zero ormai da vent’anni. Tutto considerato, è davvero sorprendente che la pretesa di dire alle famiglie come devono essere composte e come devono comportarsi vada di pari passo a un crollo nel numero degli italiani? Stupisce davvero che la pretesa di dire alle imprese cosa devono produrre e come finisca per prosciugare la demografia imprenditoriale italiana? A forza di mettere sbarre e trasformare l’economia e la società italiane in una prigione, i detenuti fuggono. 


La libertà è dunque necessaria, quanto meno se vogliamo avere un futuro di prosperità. E’ necessaria, come ha spiegato Friedrich Hayek, perché siamo limitati e ignoranti. La società non è fatta di esseri angelici: è fatta di individui fallibili che cercano di perseguire la propria felicità come possono. Proprio per questo, vanno lasciati liberi di provare e fallire. Le persone al potere sono altrettanto limitate, fallibili e ignoranti quanto chiunque altro: qualunque decisione compiuta erga omnes non farà che tarpare le ali a qualcuno, causando un potenziale danno a tutti, senza che vi sia una ragione specifica per cui quanti si trovano o aspirano a trovarsi pro tempore al governo debbano arrogarsi la facoltà di calpestare le aspirazioni dei loro concittadini. L’economista austriaco scrisse: “Se garantiamo la libertà agli uomini perché presumiamo che siano ragionevoli, dobbiamo anche lasciare che essi si facciano carico delle conseguenze delle loro azioni. Questo non significa che un uomo sia sempre il miglior giudice dei suoi interessi; significa soltanto che non possiamo mai sapere con certezza chi possa essere il giudice migliore e che dovremmo fare il massimo uso delle capacità di tutti coloro che possono contribuire allo sforzo comune di rendere il nostro ambiente più adatto agli scopi degli esseri umani”. L’affermazione della libertà risponde quindi a una profonda e consapevole forma di umiltà: tanto nella vita privata quanto in quella economica, dobbiamo accettare che nessuno possiede le informazioni per dettare le vite degli altri (e dunque nessuno dovrebbe avere il diritto di dettarle). 
Significa, questo, essere anarchici? Potrebbe essere il termine giusto, in mancanza di uno migliore. Etichette a parte, anche gli anarchici sono uomin*ədi mondo e comprendono che lo stato, per quanto non gli piaccia, c’è ed è qui per restare. E dunque accettano e riconoscono che esso svolge un ruolo e non può essere ignorato. Nondimeno pensano che sia non solo politicamente necessario, ma anche concretamente utile, riprendere una battaglia culturale finalizzata a espandere la sfera della libertà: né lo stato, né Dio, né gli altri disturbino chi ha voglia di fare (qualunque cosa voglia fare, nell’ambito professionale come in quello privato, inclusi i figli con partner dello stesso sesso e inclusa la farina di grillo, o persino entrambe le cose). Fortunatamente ci sono, in politica e fuori dalla politica, individui sensibili ai temi della libertà: si trovano nei partiti di Meloni e Schlein, che qui sono state tirate un po’ per la giacchetta, e stanno nelle altre forze politiche (a partire dal Terzo polo). Ma si tratta di voci isolate rispetto a quanti sono apertamente ostili alla libertà e soprattutto a coloro che le sono indifferenti.
Un autore che in teoria dovrebbe essere caro all’universo conservatore, Robert Heinlein, coniò una volta un aforisma che dovrebbe essere letto e meditato e che riassume e sintetizza proprio quel programma culturale e politico che oggi in Italia non c’è. “Le etichette politiche – come monarchico, comunista, democratico, populista, fascista, liberale, conservatore, e così via – non sono mai criteri fondamentali. La razza umana si divide politicamente in coloro che vogliono controllare la gente e in coloro che non hanno tale desiderio. I primi sono idealisti che agiscono spinti dai migliori motivi, per il massimo bene del più gran numero di persone. I secondi sono tipi acidi, sospettosi e privi di altruismo. Ma sono vicini molto meno scomodi di quelli dell’altra categoria”.
 


   

Carlo Stagnaro è direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. Collabora da diversi anni col Foglio. Con Alberto Saravalle ha scritto “Molte riforme per nulla” (Marsilio, 2022).