Antonio Tajani durante la conferenza stampa al termine del G7 (Lapresse)

A Karuizawa

Al G7 Tajani offre rassicurazioni sulla Cina e prova a ottenerne per l'Africa

Valerio Valentini

“Non possiamo e non vogliamo permetterci di perdere la Tunisia”, dice il ministro degli Esteri nel suo discorso. Ma il governo teme di sbilanciarsi troppo nel sostegno a un autocrate che non dà alcuna garanzia di affidabilità

Offrire garanzie sul fronte cinese provando a strapparne su quello nordafricano. La sintesi è brutale, ma rappresenta il senso della missione di Antonio Tajani al G7 degli Esteri, a Karuizawa. Ed è presto per dire se l’operazione porterà gli effetti sperati, se è vero che nel comunicato finale dell’incontro alla questione che più sta a cuore al capo della Farnesina, e cioè quella tunisina, sono state dedicate due righe scarne, che rinnovano in sostanza l’invito al governo Saied “a varare rapidamente il suo programma di riforme economiche per raggiungere un accordo col Fmi”. Ma neppure questo era scontato. E così, a quei dieci minuti che sono stati dedicati alla crisi di Tunisi nella riunione finale, quelle parole “d’apprezzamento allo sforzo italiano” da parte del britannico James Cleverly, sono qualcosa a cui Tajani deve aggrapparsi. Del resto, la tavola rotonda conclusiva dei ministri degli Esteri s’è svolta a poche ore dalla notizia, non proprio trascurabile, dell’improvviso arresto di Rached Ghannouchi, il leader di Ennada, forse il principale oppositore del regime di Saied. Se serviva un’ulteriore prova dell’incrudire delle tensioni, dell’esacerbarsi della campagna di repressione da parte dell’autocrate tunisino, la detenzione dell’ottantunenne Ghannouchi, già presidente del Parlamento, e la conseguente perquisizione delle sedi del suo movimento improntato all’islamismo moderato da parte della polizia, sono arrivate a offrirla. Ed è a questa evidenza che ha fatto riferimento Tajani, nel suo discorso, per ribadire la gravità della situazione. “E’ una notizia che inquieta – ha detto –  quella dell’arresto di Ghannouchi, punto di riferimento della transizione democratica e dell’islamismo politico. E ora bisognerà comprendere gli esiti che tale mossa potrà avere nel percorso – non facile – di stabilizzazione della Tunisia”. Di lì il rinnovato invito a non lasciare che siano altri, anzitutto la Russia, a guadagnare spazio d’influenza nella regione, come di fatto è avvenuto anche in Sudan. Di lì l’appello: “Non possiamo e non vogliamo permetterci di perdere la Tunisia”.

 

E’ il cruccio di tutto il governo, in effetti. E’ la preoccupazione che Giorgia Meloni, che vede la sua ambizione, la sua velleità, di portare ordine nel delirio africano minacciata dal probabile collasso del regime di Saied, e che pure teme di sbilanciarsi troppo nel sostegno a un autocrate che non offre alcuna garanzia di affidabilità. E’ l’ansia di Matteo Piantedosi, per le ripercussioni sul fronte degli sbarchi di una crisi politica e sociale, e quella di Guido Crosetto, che non a caso sta pianificando il suo viaggio a Tunisi. Ma in fondo era il pensiero fisso anche del suo predecessore, Lorenzo Guerini: sollecitare gli alleati atlantici a non dimenticarsi del Mediterraneo, concentrati come sono sul fianco orientale e sull’Indo-Pacifico. La promessa strappata da Tajani è appunto quella di organizzare – magari già nei prossimi mesi o al più tardi a inizio 2024, quando la presidenza del G7 spetterà proprio all’Italia – un G7 in formato allargato, aperto dunque anche ai vertici dei paesi maghrebini, per il Nord Africa.

 

Il tutto, però, è stato in fondo solo un dettaglio, per quanto rilevante, di un quadro che ha visto, oltre alla prevedibile lunga discussione sulla guerra in Ucraina, dedicare l’attenzione principale alla sfida con la Cina. Un fronte su cui l’Italia è, a suo modo, un’osservata privilegiata. Per la Via della Seta, anzitutto, e per quella scarsa chiarezza d’intenti con cui, ancora oggi, a Palazzo Chigi si dice di voler procedere per archiviare il memorandum con Pechino entro dicembre prossimo. Una navigazione a vista, e sicuramente tribolata, al punto che intorno alla premier c’è stato perfino chi ha suggerito una via ardita: prolungare di due anni l’accordo in virtù del suo congelamento di fatto durante il periodo del Covid. Non sembra questa, in effetti, l’intenzione del governo. Né, pare, di Tajani. Che, anzi, ha spiegato che sì, “un approccio pragmatico e bilanciato” nei confronti della Cina è indispensabile, ma non ha negato “l’esistenza di motivi di frizione e di preoccupazione”. Primo fra tutti “l’assertività” del regime di Xi, principale “minaccia alla stabilità regionale”, a partire da Taiwan, rispetto alla quale occorre fare di tutto per “scoraggiare atti unilaterali” da parte di Pechino.

 

Un approccio, è stato notato, che nel complesso è stato molto in sintonia con le posizioni giapponesi, anche rispetto ai rischi legati alla proliferazione nucleare della Corea del Nord, tollerati con troppa leggerezza da parte della Cina. Una sintonia, del resto, che si registra anche nel rafforzamento dei legami commerciali su settori strategici, come quelli della Difesa e dell’Aerospazio. E non è un caso che Tajani, nel corso del suo viaggio, dopo aver avuto un colloquio con Nishimura Yasutoshi, ministro dell’Industria, ieri abbia trovato il tempo per un incontro riservato con Seiji Izumisawa, ceo di Mitsubishi.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.