Rebus cinese. Meloni sa che deve uscire dalla Via della Seta. Ma non sa come fare

Valerio Valentini

La premier vorrebbe gestire l'exit strategy nell'ombra, ma il calendario internazionale, e i suoi alleati più preziosi, sembrano esigere chiarezza. Il rinvio del viaggio a Washington, i timori per il G7, la fermezza di Biden. E il rischio di una ritorsione commerciale da parte di Pechino. Confindustria mugugna

Il problema non è il se. A Palazzo Chigi, a dispetto di qualche dissimulazione di qualche mai soppressa incertezza, sono tutti convinti che si farà: il memorandum della Via della Seta va disdetto. Il problema, semmai, sta nel come e nel quando, nei modi e nei tempi da scegliere, e non è una scelta facile, per interrompere la collaborazione privilegiata tra l’Italia e la Cina. Dipendesse da Giorgia Meloni, la cosa la si farebbe in sordina. Un comunicato, magari. Nulla più. Se non fosse che l’agenda internazionale della stessa premier sembra destinata a imporle di uscire allo scoperto in modo più esplicito e  risoluto del previsto. Perché d’altronde, con la centralità sempre meno equidistante di Pechino nelle faccende ucraine, a praticare l’ambiguità si rischierebbe di passare per inaffidabili con l’alleato più prezioso, e cioè Joe Biden.

Apparentemente, c’è ancora tempo per decidere. A norma di regolamento, la volontà di non rinnovare il memorandum quinquennale, firmato da Luigi Di Maio in epoca di Conte grilloleghista nel marzo 2018, va comunicata al partner entro tre mesi dalla scadenza. Il giorno delle decisioni irrevocabili, dunque, sarebbe il 23 dicembre. Ma il calendario internazionale, fino ad allora, è troppo denso per non consentire a Meloni la pacchia del rinvio.

E forse devono saperlo anche i suoi consiglieri, se è vero che tra Palazzo Chigi e la Farnesina si è lavorato non poco, per cercare di incastrare un viaggio della premier a Washington. Serve, comme il faut, la benedizione ufficiale dalla Casa Bianca, e servirebbe averla prima del G7 di metà maggio. Ma al dunque, non è stato possibile. Un po’ perché nell’agenda di Biden  non s’è trovato l’incastro giusto; un po’ perché, spiegano dall’ambasciata di Via Veneto, sarebbe passato troppo poco tempo dall’ultimo viaggio di un capo di governo italiano, era Mario Draghi ed era appena il maggio scorso, a Washington. Dove peraltro si recheranno, in rapida successione, prima Giancarlo Giorgetti per gli “Spring meetings” del Fondo monetario internazionale, la prossima settimana, e poi Antonio Tajani, verosimilmente nella prima metà di maggio. Anche il viaggio di Guido Crosetto era in programma, con un invito già ricevuto da tempo: ma al dunque il ministro della Difesa ha preferito rinviare, forse proprio per decongestionare il traffico aereo lungo l’Atlantico, ed evitare che il viaggio di Meloni scivolasse verso l’estate inoltrata.

La premier vorrebbe invece che la visita si concretizzasse al più tardi entro giugno. In ogni caso, è ormai certo che non riuscirà prima del vertice di Hiroshima, quello coi leader del G7. E sarà, per Meloni, un appuntamento delicato. Perché, di nuovo come nel recente passato, l’Italia sarà in quella sede l’unico dei grandi alleati con un memorandum bilaterale che la lega alla Cina, e stavolta, per di più, con l’ulteriore complessità dovuta al ruolo sempre più decisivo, e sempre più infido, che Pechino sta giocando nel risiko ucraino, come emerso anche dalla visita di Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen. Difficile che nessuno in quel summit, chieda conto alla premier italiana della Via della Seta, e delle intenzione italiane al riguardo.

Perché il confronto è così polarizzato, se non addirittura frontale, che in ogni caso il governo patriota sarà chiamato sempre più, come già gli altri grandi paesi europei, a schierarsi. Si spiega anche così l’invio di due importanti navi della Marina in missione verso l’Indo-Pacifico (l’Italia era tra i pochi assenti illustri, nella missione); e si spiegheranno così anche i molti casi in cui, da Pirelli in giù, Palazzo Chigi applicherà la nuova, stringente disciplina del golden power proprio in funzione anti cinese.

E però, dall’altro lato, c’è appunto Xi Jinping. E dover comunicare a un partner così ingombrante, così poco accomodante, che “guardi, ci eravamo sbagliati, di questa Via della Seta facciamo che non se ne parla più”, non sarà facile. Anche per il rischio di una ritorsione commerciale che da un lato striderebbe rispetto al rinnovato attivismo francese, e dall’altro genererebbe lamentele da parte di Confindustria. Nel gabinetto di Meloni c’era chi aveva pensato di sfruttare proprio il Forum internazionale dei membri della Via della Seta per sfilarsi formalmente. Ma la data della convocazione, che si pensava dovesse essere in primavera fino a qualche tempo fa,  è ancora un mezzo mistero. E poi Meloni deve  rispettare l’impegno che si è assunta, proprio in presenza di Xi: “Mi ha invitata a Pechino, ho accettato volentieri”, disse nel novembre scorso, al termine di un colloquio col leader cinese che i presenti ricordano ancora per un clima vagamente glaciale. “Andare a Pechino? Non lo escludo”, ha detto invece un mese fa Meloni, e in quella sopraggiunta cautela qualcuno c’ha visto un mezzo ripensamento, per una missione  che del resto farebbe tentennare anche i più intrepidi.

Forse per questo Meloni cerca una soluzione meno clamorosa, un percorso più sotterraneo, per sbrigare la faccenda. Sapendo forse che, dopo avere ereditato una vicinanza scomoda e perfino pericolosa, che fa dell’Italia un’anomalia all’interno del G7, si corre ora fatalmente il rischio di finire tra i più sgarbati ex amici di Pechino.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.