Giorgia Meloni al Vinitaly, Verona, 3 aprile 2023 (ANSA / Filippo Venezia) 

in vino veritas

Lezioni dal Vinitaly per Meloni: per proteggere il made in Italy tocca combattere il sovranismo

Claudio Cerasa

Immigrazione, mercato, Europa. A Verona la premier scopre che il suo governo, per tutelare davvero il made in Italy, deve combattere alcune sgrammaticature della destra ben più gravi delle parole di La Russa

Ha detto ieri Giorgia Meloni al Vinitaly di Verona – poco dopo aver tirato le orecchie al presidente del Senato Ignazio La Russa per via delle fesserie dette su via Rasella (“sgrammaticature istituzionali”) – che il vino, per l’Italia, “non è solo un fatto economico ma è anche un fatto culturale, è un pezzo fondamentale della nostra identità ed è interesse del governo  sostenere questo mondo”. Le parole della presidente del Consiglio  potrebbero essere liquidate con un’alzata di spalle e infilate rapidamente nella cartellina delle dichiarazioni ovvie, scontate e banali.

  

Ma se si aggiunge alla lettura delle dichiarazioni della premier un pizzico di malizia si capirà facilmente, a proposito di sgrammaticature, che un governo desideroso di tutelare il made in Italy deve preoccuparsi, anche quando si parla di vino, di combattere buona parte degli istinti alimentati e mostrati non troppi anni fa dalla destra che oggi si trova alla guida del paese.

  

Ieri, per dirne una, Meloni ha elogiato l’industria del vino per via dei risultati importanti registrati negli ultimi tempi, a livello di esportazioni. L’export agroalimentare, che vale circa il dieci per cento delle esportazioni italiane, nel 2022 ha in effetti toccato quota 60 miliardi, aggiungendo otto miliardi in più rispetto alla quota toccata nel 2021. E il comparto più pesante nel settore, naturalmente, è proprio quello del vino, il cui valore si trova intorno agli otto miliardi di euro. Le esportazioni però, ecco il dato interessante, sono favorite non dall’applicazione della cultura protezionista, a lungo agognata dalla destra trumpiana tanto affezionata ai dazi, ma dalla promozione del suo esatto opposto: la libera circolazione delle merci, grazie alla quale l’Italia può esportare copiosamente i suoi prodotti agroalimentari nell’Unione europea (57,7 per cento) e in Nord America (13,2 per cento). Il disprezzo per il mercato libero, l’odio per la politica volta a promuovere la libera circolazione delle merci, venne messo nero su bianco, in passato, anche dal partito di Giorgia Meloni quando, ai tempi dell’opposizione dura e pura, demonizzò ogni tentativo dell’Unione europea di promuovere trattati di libero scambio, come il famoso Ceta (Comprehensive economic and trade agreement) con il Canada.

    
“Il Ceta – è stata a lungo la tesi di Meloni –  è una porcata contro i bisogni dei popoli, danneggerà pesantemente il made in Italy agroalimentare e le nostre produzioni di qualità ed è l’ennesima marchetta della Ue alle grandi multinazionali”.  Oggi, preso atto che nei primi anni di applicazione provvisoria del Ceta l’export italiano – come ha ricordato Luciano Capone su queste pagine – è aumentato del 36 per cento verso il Canada, Meloni si è rimangiata tutto, ha addirittura schierato il suo governo sulla linea del “sì” alla ratifica del Ceta e chissà che non faccia lo stesso quando l’Italia sarà chiamata, anche per proteggere il suo made in Italy, che si protegge evidentemente dando la possibilità ai nostri gioielli di poter essere competitivi a livello globale, a ratificare l’accordo di associazione dell’Unione europea con i paesi dell’America meridionale, il Mercosur, che potrebbe ridurre i costi per i dazi doganali, vino compreso, di una cifra vicina al 90 per cento.

   

Il mondo del vino, e in particolare il mondo agricolo, permette però di mettere in risalto altre due evidenti sgrammaticature del recente passato sovranista. Una di queste, neanche a dirlo, riguarda il rapporto della destra con la parola “immigrazione”. Nel mondo agroalimentare, ci sono circa un milione di lavoratori che si impegnano ogni giorno per tutelare il made in Italy dei nostri prodotti. Circa il 30 per cento dei lavoratori che si trovano all’interno di questo mondo non è di origine italiana. E non ci vuole molto a capire che a fronte di una richiesta costante di manodopera aggiuntiva che arriva dal settore agroalimentare, che lamenta da mesi un deficit di lavoratori pari a 100 mila unità, la priorità, per un governo, non dovrebbe essere quella di occuparsi di come stoppare, bloccare, fermare l’immigrazione. Dovrebbe essere un’altra: mettere l’immigrazione al servizio del made in Italy, regolarizzando per esempio gli immigrati necessari per soddisfare il fabbisogno delle aziende in difficoltà. Un discorso simile, se si vuole, si potrebbe fare su un terreno vicino a questo, che riguarda sempre il protezionismo, pratica deleteria per un paese come il nostro specializzato nel trasformare prodotti importati dall’estero (siamo i primi produttori ed esportatori al mondo di pasta ma non abbiamo grano a sufficienza e dobbiamo importarlo, e lo stesso vale per alcune grandi case vinicole, spesso costrette ad arricchire la propria produzione con uve coltivate fuori dall’Italia).

 

Ma il ragionamento più interessante, per capire i limiti dell’approccio sovranista al mondo del vino, e a quello dell’agricoltura, ce lo offre Massimiliano Giansanti, numero uno di Confagricoltura, che ci aiuta a ricordare alcuni concetti importanti. Il primo punto è che, al contrario di quello che spesso si dice, il settore in questione non ha bisogno di una maggiore presenza dello stato ma ha “bisogno di fare sistema e migliorare il proprio posizionamento nelle filiere”. E questo lo si fa non chiedendo maggiore assistenza, o assistenzialismo, ma  aumentando la produzione dei beni primari essenziali, “anche per una questione di sicurezza nazionale, prestando attenzione alla direzione degli investimenti”, “perché l’agricoltura è settore primario dell’economia italiana, e ricordandosi che buona parte delle risoluzioni ai problemi nazionali occorre cercarla non con uno sguardo nazionalista ma con un approccio europeista. Il bilancio dell’Unione europea destinato all’agricoltura fino al 2027, per esempio, ha recentemente subìto un taglio in termini reali del 15 per cento, e rappresenta appena lo 0,4 per cento del pil europeo. Un governo desideroso di sostenere il settore agricolo, e anche quello del vino, più che cercare scorciatoie nazionali, dunque, dovrebbe ricordare che per tutelare il mercato unico occorre lavorare per avere un bilancio europeo disposto non ad aiutare i paesi che vogliono agire da soli, e che vogliono allargare le maglie degli aiuti statali, ma disposto a sostenere i paesi desiderosi di lavorare tutti insieme per dare più opportunità a chi è in grado di competere a livello globale.

   

Ancora una volta, ieri al Vinitaly, Meloni deve essersi resa conto di quanto la prosperità futura del nostro paese sia legata alla capacità del sovranismo di smentire se stesso facendo brindare gli italiani non solo durante il Vinitaly. Più protezionismo, uguale meno protezione. Più globalizzazione, uguale più made in Italy. Si scrive vino, si legge realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.