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Ora basta con la retorica leghista della paternità che rende più buoni

Alberto Mattioli

E' una narrazione pericolosa, perché prima o poi scatenerà qualche pippone antipatriarcale di Schlein o di Murgia, Ma soprattutto: generare della prole non vuol dire svulippare automaticamente anche la pietas, specie nei confronti dei migranti

I figli so’ pezzi ’e core”, c’è anche un indimenticabile film con Mario Merola al suo meglio. E infatti: “Siamo padri e genitori”, dice al Foglio il viceministro ai Trasporti, Edoardo Rixi, garantendo che la tragedia di Crotone è dispiaciuta anche a lui. “Sono padre pure io”, informa il ministro Matteo Piantedosi. E il dante causa di entrambi, Matteo Salvini, non perde occasione per ripetere che lui parla “come padre”. Ma tutta questa retorica leghista della paternità che rende più buoni intanto è pericolosa, perché prima o poi scatenerà qualche pippone antipatriarcale di Schlein o di Murgia, e sono rischi che sarebbe bene non correre, lo dico da padre anch’io, benché di due figli baffuti e pelosi, com’è noto da preferire a quelli umani perché non si drogano, non vanno male a scuola e non sono sempre lì a chiedere dei soldi.

E poi la tesi non sembra molto asseverata dall’esperienza storica. Si possono avere dei figli ma trattare lo stesso malissimo le loro madri (vedi Enrico VIII), o fare un po’ troppe guerre (vedi Napoleone), oppure dimostrarsi in generale irritabili verso il prossimo (vedi Stalin). Gengis Khan aveva un numero di pargoli imprecisato ma sicuramente superiore a nove, e non è che traboccasse del latte dell’umana tenerezza. Magari questo continuo invocare i figli come prova della propria superiore bontà è parte dello slogan “Dio, Patria e Famiglia”, rilanciato dall’attuale Zeitgeist nazionale. Qui, per la verità, i Fratelli d’Italia, un nome sociale che già richiama famiglie numerose con tanti pupi, perché il numero è potenza e in effetti il problema demografico incombe, sembrerebbero più ideologicamente attrezzati a rivendicare la paternità come valore in sé, anche se c’è sempre il rischio che i figli degenerino, diventando quindi dei fardelli d’Italia. L’ha adombrato l’immancabile Ignazio La Russa, incerto se sia da considerare peggiore un figlio gay o milanista (e qui forse qualcosa da obiettare l’avrebbe Silvio Berlusconi).

 

Ma, come ricordava sornione Giulio Andreotti facendosi beffe della retorica dello statista “con gli attributi”, senza doverli ostendere lui di figli ne aveva messi comunque al mondo quattro. Insomma, ci si sente di escludere che generare della prole generi automaticamente anche la pietas, specie nei confronti di quei disgraziati che vengono ad annegare sulle amate sponde: pensa se poi i figli non li avessero!, diceva un amico nemmeno troppo di sinistra. Questa della famiglia come palladio di virtù è un’idea partorita dall’Ottocento borghese, salvo poi demolirla con i suoi ritratti di famiglia in un inferno, tipo Ibsen (due figli) o Strindberg (tre). Sarebbe forse meglio ispirarsi all’allegro cinismo settecentesco, come l’abate Parini dopo una clamorosa separazione in casa Serbelloni: “Cari figli, non piangete / Che se ancor non nati siete / Non potendo vostro padre / Vostra madre vi farà!”, un protofemminista, a pensarci bene. I figli, insomma, meglio lasciarli stare. Si può serenamente essere cinici anche avendoli (e non avendoli, pure). 

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