Elly Schlein festeggia la vittoria (Lapresse)

L'ultimo girotondo

Elly Schlein e l'eterno scontro tra società civile e apparati

Francesco Cundari

La prima volta in cui un segretario scelto dagli iscritti viene sconfitto alle primarie rappresenta la fine del culto delle tessere e delle sezioni. Cioè di ciò che resta dei partiti

Il sogno di Paolo Flores d’Arcais, l’ultimo trotzkista, massimo teorico e pratico di quell’entrismo che doveva portare prima nel neonato Partito democratico della sinistra di Achille Occhetto, e poi in tutte le sue mutazioni successive, i celebri “esterni”, gli esponenti della “società civile”, i rappresentanti del “partito che non c’è”, come si diceva allora, si è infine realizzato. Ma nel modo in cui possono realizzarsi i sogni più strani, con quel gusto del paradosso che l’inconscio libera solo nel sonno o nella nevrosi. Il paradosso non potrebbe essere più stridente, al termine di una trentennale contesa tra i sostenitori dell’apertura alla società civile e i difensori del primato della politica, tra movimentisti e partitisti, assemblearisti e apparatchik. Contesa trentennale, per non dire cinquantennale, considerando come le sue più lontane radici affondino addirittura nelle diatribe del sessantotto (è anche vero che il sessantotto in Italia non è mai finito), nelle lotte di allora tra partiti e movimenti per l’egemonia sulle piazze, per la conquista delle rappresentanze studentesche nei consigli d’istituto, nelle università, nei congressi dell’Unione goliardica. Il paradosso sta nel fatto che i ruoli, come sempre accade nella politica italiana, se solo si ha il tempo e la pazienza di osservarla abbastanza a lungo, si sono completamente rovesciati, ancora una volta. 

 

Sul fatto che Elly Schlein, nella schematica divisione di cui sopra, appartenga naturalmente al fronte movimentista e anti-apparato, obiettivamente, non può esserci dubbio. La sua intera biografia parla per lei. Una biografia peraltro più lunga e densa di quanto la sua giovane età potrebbe far pensare (so che alcuni hanno già stigmatizzato come paternalistico o semplicemente antiquato l’uso di definire “giovane donna” una leader politica di trentasette anni, ma sinceramente non ho capito quali sarebbero le alternative praticabili, almeno in un caso del genere, per cui mi rimetto alla clemenza del lettore). Soprattutto, però, parla per lei l’esito delle primarie. Mai era accaduto, infatti, che in un congresso del Partito democratico – e, tenderei a scommettere, neanche di qualsiasi altro partito al mondo – il voto degli iscritti venisse rovesciato, e il candidato da loro scelto a maggioranza assoluta, con il 52 per cento (Stefano Bonaccini), venisse clamorosamente sconfitto da chi, tra gli iscritti, aveva raggiunto appena il 34. Non era mai accaduto prima, ma in un certo senso è l’esito che qualcuno aveva sempre temuto e qualcun altro sempre sognato, da prima ancora che il Pd nascesse. Da un certo punto di vista, la sconfitta del segretario scelto dagli iscritti è la vittoria finale degli ulivisti, del “partito liquido”, dei professionisti della società civile: è il girotondo finale, la caduta dell’ultimo fortezza, la profanazione dell’ultimo tempio di un culto ormai in via di estinzione, eppure fino a ieri ancora dotato di una singolarissima aura di invincibilità, almeno agli occhi dei suoi più acerrimi nemici. Il culto dei partiti, delle tessere, delle sezioni (come se tutte queste cose esistessero ancora davvero, e non fossero di fatto scomparse da anni).

 

Il bello è che tra i più ardenti sostenitori della nuova segretaria, candidatasi alla guida del Pd prima ancora di averne preso la tessera (e quando sul suo profilo Twitter si presentava ancora orgogliosamente come “Parlamentare alla Camera eletta da indipendente nel Gruppo Pd-Italia democratica e progressista”), ci sono gli ex fuoriusciti di Articolo Uno, rientrati per l’occasione, attraverso l’ennesima “fase costituente” (quando si aprì la prima c’era ancora il Pci). E Articolo Uno, per chi se ne fosse legittimamente dimenticato, è proprio il partito fondato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. I massimi sostenitori del “partito solido”, del primato degli iscritti e delle sezioni. Qui il gioco delle sliding doors, nell’infinita contesa tra professionisti della politica e società civile, apparato e opinione pubblica, sezioni e gazebo, raggiunge un ritmo tale da rendere necessario ricorrere al rallentatore, come in certi film di arti marziali, perché altrimenti l’occhio dello spettatore non riuscirebbe a cogliere i movimenti dei protagonisti. Dunque, procediamo per gradi.

 

Bersani, anzitutto, nel 2010 è il segretario del Pd contro il quale il giovane sindaco di Firenze (sarà definizione paternalistica e antiquata anche in questo caso, considerato che Matteo Renzi aveva allora trentacinque anni?) lancia la parola d’ordine della rottamazione. La sfida si sarebbe giocata alle primarie del 2012, che essendo primarie di coalizione e non di partito, non prevedono un voto degli iscritti, motivo per cui da statuto il Pd avrebbe dovuto concorrere solo con il proprio segretario, ma Bersani fa approvare appositamente una deroga per Renzi. Gli altri contendenti sono il leader di Sinistra ecologia libertà, Nichi Vendola, l’intramontabile Bruno Tabacci, e Laura Puppato, che per inciso è anche lei del Pd, e in verità è la candidatura forse più simile a quella di Schlein (prima sindaca ulivista di Montebelluna eletta in una lista civica, ambientalista, poi iscritta al Pd ma sempre in quota “società civile” e rinnovamento, molto amata dalla stampa progressista). La baldanza iniziale del fronte bersaniano lascia ben presto il campo a un malcelato nervosismo: lo spettro della scalata ostile, degli infiltrati, dei voti di destra che avrebbero potuto inquinare e condizionare il risultato dei gazebo diviene quasi un’ossessione, che i modi corsari e provocatori del sindaco di Firenze, e ancor più dei suoi sostenitori, non fanno che alimentare. A mano a mano che la campagna renziana sembra acquistare forza, la discussione sulle regole – insieme bizantina e violenta, come sono sempre le discussioni sulle regole, specialmente a sinistra – minaccia  di sfociare in guerra civile. Finisce con l’istituzione di una sorta di pre-iscrizione, che ovviamente non è una tessera di partito (non scherziamo!), piuttosto, per dir così, un attestato di autenticità dell’elettore di centrosinistra. 

 

La tensione raggiunge però l’acme quando, in occasione del secondo turno, Renzi chiede che al ballottaggio sia ammesso a votare anche chi non ha votato al primo turno e non figura negli elenchi degli elettori. Sul sito delle primarie compare dunque la delibera numero 25, che così recita: “Il Coordinamento nazionale, riunito il 26 novembre 2012, preso atto della proclamazione del risultato elettorale così come comunicato dal Collegio dei Garanti, delibera: sono ammessi al voto gli elettori in possesso del Certificato di elettore del Centro sinistra rilasciato per il primo turno, completo del cedolino relativo alla giornata del 2 dicembre, in mancanza del quale non è possibile essere ammessi al voto”. Dopo ulteriori polemiche, e il tentativo renziano di fomentare anche un mezzo assalto ai gazebo, ovviamente in nome dell’apertura alla massima partecipazione della società civile e contro le manovre dell’apparato, si arriva a un estremo compromesso che prevede di riaprire l’albo degli elettori a chi voglia registrarsi per un paio di giorni, il 29 e 30 novembre, per poi richiuderlo ermeticamente. Ma alla fine la netta vittoria di Bersani nel voto del 2 dicembre stempera tutte le polemiche e dissolve ogni timore di opa ostile. Nel corso della lunga giornata elettorale, fedele al suo personaggio e alle battaglie di una vita, D’Alema risponde così alle accuse di aver voluto restringere la partecipazione degli elettori: “Migliaia di elettori non hanno votato? Ci dispiace per loro. Dovevano studiarsi il regolamento prima”. Una battuta che vale mille biglietti da visita. In fondo, sembra di risentire il suo celebre discorso al seminario di Gargonza, quando nel 1997, da segretario del Pds, fa inorridire il fior fiore dell’intellettualità progressista, chiamata a raccolta da Romano Prodi, presidente del Consiglio da nemmeno un anno (“noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti”. E ancora: “Non possiamo raccontarci queste storie tardo sessantottesche. Abbiamo fatto un comitato…”. E infine: “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica”).

 

L’ultimo e il più radicale rovesciamento di ruoli in questa trentennale vicenda sta dunque nel ritrovare Walter Veltroni più o meno legittimamente ascritto al campo del candidato dell’apparato (Bonaccini lo ha citato esplicitamente tra i suoi punti di riferimento nell’ultimo confronto in tv con la rivale) e D’Alema più o meno legittimamente ascritto al fronte guidato da Schlein. Sono infatti proprio loro a dare il via a questa interminabile diatriba, all’indomani delle dimissioni di Occhetto, nell’estate del 1994, contendendosi la guida del Partito democratico della sinistra. Per l’occasione, si svolge anche una sorta di consultazione della base, quasi delle primarie ante-litteram. La sede nazionale del partito è ancora a Botteghe oscure, dove i risultati delle federazioni e delle sezioni consultate arrivavano via fax (sì, c’erano ancora i fax, e persino le sezioni). La base, o almeno un suo campione considerato rappresentativo, formato ovviamente da soli iscritti, si pronuncia per Veltroni. Il consiglio nazionale del Pds prende atto del risultato – di cui si ritiene comunque necessario dare una “lettura politica” – ed elegge D’Alema. Eugenio Scalfari su Repubblica riassume la notizia in un titolo non proprio amichevole: “Il pugno del partito”. Non stupisce che per i fautori dell’apertura alla società civile D’Alema sia sempre stato il nemico pubblico numero uno, naturale antagonista di Occhetto prima, Veltroni sia prima che poi, quindi di Romano Prodi e di tutti i sostenitori del “partito dell’Ulivo”. È lui il vero bersaglio di Nanni Moretti, quando nel 2002 grida in piazza che “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai” (anche se formalmente ce l’aveva con Francesco Rutelli e Piero Fassino, che avevano avuto la disgraziatissima idea di partecipare a quella manifestazione, peraltro ben poco affollata), è lui l’uomo nero attorno al quale ruotano i mille girotondi che in quel periodo fioriscono per l’Italia, movimenti di contestazione del berlusconismo trionfante, ma soprattutto di rivalsa contro i dirigenti del centrosinistra responsabili della sconfitta.

 

È un moto ricorrente in una parte dell’elettorato progressista, che dopo ogni disfatta si fa più rabbioso, e torna a galla in particolare dopo la mancata vittoria del 2013. Di qui le pressioni affinché Bersani non tratti con Silvio Berlusconi sulla scelta del nuovo presidente della Repubblica e converga piuttosto sul nome di Stefano Rodotà lanciato da Beppe Grillo. Sfiduciati dalla vittoria sfumata, assediati da giornali e movimenti, i dirigenti del Pd oscillano in ogni direzione. Dentro i gruppi parlamentari si accende una lotta furibonda, che nel voto segreto brucia tutti i candidati del Pd: prima Franco Marini (il candidato concordato tra Bersani e Berlusconi, contro il quale si scaglia subito Renzi) e poi Prodi, vittima dei celebri centouno franchi tiratori. Si tratta evidentemente di uno scontro tra fazioni, in cui ciascuno cerca di mettere fuori gioco l’altro, ma sul banco degli imputati finisce subito D’Alema, anche perché è lo stesso Prodi a far capire in modo piuttosto esplicito dove si debba cercare il mandante. In un certo senso, è l’ultimo girotondo contro l’apparato, e a guidarlo, dalla base, c’è Elly Schlein, che si fa conoscere dalla stampa proprio in quei giorni come leader di “Occupy Pd”. Non per niente, dopo la sua elezione a segretaria, tutti i giornali hanno ripubblicato la foto in cui consegna a Prodi la maglietta con scritto “siamo più di 101”. Una tesi che dieci anni dopo esatti riuscirà a dimostrare in modo inequivocabile. Tu chiamalo, se vuoi, il pugno dei gazebo.