Lapresse

Pro e contro

Capire la novità Schlein. Girotondo smaliziato sulla nuova leader del Pd

Rischio o opportunità? Ritorno al passato o salto nel futuro? E come possono cambiare le coordinate dell’opposizione dopo la grande sorpresa delle primarie? L'opinione dei foglianti

No: il wokismo del Pd non è la via giusta per governare un paese

I paragoni esteri sono fuori luogo. La vittoria di Elly Schlein alla primarie del Pd non fa di lei una Jeremy Corbyn, lo spigoloso operaista da sempre oppositore di Tony Blair e Gordon Brown che nei suoi 5 anni di guida del Labour fece la fortuna elettorale dei conservatori e della sciagurata Brexit, contro la quale non si impegnò (oltretutto Corbyn è ossessivamente antiebraico). Né fa di lei una Bernie Sanders-Alexandria Ocasio Cortez, entrambi membri della minoranza socialista del partito democratico USA che ha trovato enorme rilancio negli anni successivi a Occupy Wall Street, che in Italia non c’è stata mai. Certo, condividono tutti temi comuni: contrari a ogni intervento militare occidentale, tutti d’accordo sull’intera lista dei “nuovi diritti” della cultura “woke”. Ma la loro ascesa e sconfitta come leader è nata all’interno delle regole negli organi dei loro partiti e, nel caso americano, da liste certificate di elettori del partito che partecipano ai caucus o votano alle primarie. Anche negli Usa ci sono primarie aperte, ma minoritarie. A Elly Schlein la vittoria viene dai gazebo, dove hanno potuto votare tutti, ribaltando il voto dei circoli Pd. Premiata perché estranea ai maggiorenti che hanno votato e abbattuto in serie segretari come birilli. E’ la prima vera rottura storica della lunga continuità che dal Pci ha condotto fino al Pd. E non ha radici nell’ingraismo, che si leggeva chiaro nella Bolognina di Achille Occhetto e nella sua “carovana”, e che sopravvive tra i fuoriusciti dal Pd, in Landini e nell’ala sinistra della Cgil. Quei filoni erano tutti ancorati all’operaismo antagonista del ‘900. Elly Schlein ha un’altra impronta. L’atomizzazione della protesta di Grillo ha vinto per poco nel paese ed è poi è naufragata nei governi Conte. Ma è riuscita a svaporare la residua fiducia in sé stesso del Pd. Negli ultimi mesi è bastato ascoltare il Pd  nei suoi balbettii, unito solo contro il famigerato Renzi e già pronti ad ammettere errori di Draghi, per capire che si consegnava nudo ai gazebo. Ora capicorrente e cacicchi del Sud punteranno i piedi. Ma credere che la cultura “woke” sia la via per rigovernare un giorno un paese fermo sui suoi guai da una parte, e con una minoranza di imprese e italiani che ottengono dall’altra grandi risultati ma alla politica guardano con distacco assoluto, è un’illusione tutta identitaria nel breve, ma di ardui frutti nel medio-lungo periodo, a meno di voler sbattere in traumi alla Varoufakis. Anche i Verdi tedeschi nacquero alleandosi con i fuoriusciti dalla SPD contrari alla riunificazione delle due Germanie, da loro considerata un affronto alla Russia. Ma oggi sono i Verdi come Annalena Baerbock i più intransigenti membri del governo Scholz, a favore del pieno sostegno all’Ucraina.    
Oscar Giannino

 



Il bivio per il Pd è anche quanto prodismo avrà Schlein 

Da Occupy a Occupied sarà così il Pd di Elly Schlein? O sarà la sua leadership ad essere stressata da chi vorrà occuparne progressivamente gli spazi di manovra trasformando il cambiamento promesso nella solita massima del Gattopardo? E chi è Elly Schlein, l’anti Meloni o l’anti Renzi come titolava ieri Politico.eu? Il giorno dopo la grande sorpresa delle primarie la scenaristica sul destino del partito democratico appare a chi scrive un trionfo di punti interrogativi. La vaghezza delle piattaforme congressuali dei due sfidanti lascia aperto il piano dei contenuti. E anche quello degli assetti di potere non offre certezze: la costruzione della candidatura di Schlein ad opera di Enrico Letta e Dario Franceschini in vista della grande ricomposizione con i bersanian-dalemiani dovrà essere ricalibrata sulla personalità e la biografia della neosegretaria. Incognite. Quanto al contesto i commenti a caldo, di talk in talk, registrano l’ipotetico timore di Giuseppe Conte per la concorrenza a sinistra e una certa cupidigia dei terzopolisti per l’apertura di uno spazio al centro. Al quale tuttavia, nel più realistico retropalco, nessuno degli sconfitti fautori di Bonaccini crede davvero. Per lo meno, non se lo spazio al centro è con Renzi e Calenda. In questo quadro confuso si capirà forse qualcosa di più del Pd schleiniano monitorando la scelta dei suggeritori. Non tanto la composizione della segreteria che potrebbe essere anche popolata di volti nuovi, ma chissà se poi davvero influenti. Piuttosto il chi consiglierà la segretaria o chi già la consiglia su cosa. La questione delle questioni è ovviamente la guerra in Ucraina. I più informati hanno visto una traccia a disposizione di Schlein nell’atlantismo più tiepido che Romano Prodi ha mostrato nell’intervista a Massimo Franco, Corriere, a un anno dall’invasione russa, profetizzando “scelte drammatiche se Biden prova a dividere l’Europa” e dove l’ex premier invitava a dare fiducia alla Cina.   Tra Franceschini e Boccia, Letta e Orlando in ambienti bolognesi si indica Prodi come riferimento per la politica internazionale. Il debutto in politica della giovane Elly del resto fu contro i 101 pugnalatori del professore nel 2013. Con tanto di maglietta a futura memoria.    
Alessandra Sardoni

 


 

Diffidare di una sinistra modello Accabadore d’occidente

Appena l’ho saputo mi è mancato il fiato, come quando nelle risse prendevo un pugno nello stomaco. Una reazione esagerata, chiaro. Ma proprio così mi sono sentito. Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra anticostituzionale fondata sulla distruzione del lavoro (Bonaccini rappresentava il lavoro cooperativo, meglio che niente, mentre la sua avversaria rappresentava e rappresenta la disoccupazione causata dall’ambientalismo che, per la gioia della Cina, si sta stringendo al collo del poco che rimane di industria italiana, automobilistica, siderurgica...). Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra antinazionale, la filiale italiana dell’ideologia globale che annienta le forme di vita locali, il salume artigianale, il vino peculiare, la seconda casa al mare di classe energetica Z... Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra devota più al verbo del gender che al verbo di Dio. Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra di Babilonia, delle metropoli ostili all’Italia di provincia a cui strenuamente, sentimentalmente, fisicamente appartengo, ha vinto chi può muoversi in Tesla o monopattino e disprezza noi di campagna, noi di montagna, noi della benzina e del diesel. Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra dei cancellatori culturali, di quelli che non vedono l’ora di censurare Dante oltre che ovviamente la Bibbia, e nel frattempo amputano il mio vocabolario. Forse perché con Elly Schlein ha vinto la sinistra delle Accabadore d’Occidente, e non cambia se lei e la collega Alexandria Ocasio-Cortez sono nettamente più giovani e più belle delle befane barbaricine che pare strangolassero i moribondi: la funzione mi sembra analoga, assestare il colpo di grazia a un organismo defedato. E soprattutto perché non sono per nulla sicuro che l’estremismo di Elly Schlein sia manna per il moderatismo del centro e della destra: prima o poi il pendolo tornerà a sinistra (mi intendo poco di politica ma credo sia una legge della fisica elettorale) e comunque mai mai mai sottovalutare la libido moriendi di un popolo senile. 
Camillo Langone

 


 

Dove portano le onde della terza modernità democratica 

Dopo una sorpresa si possono solo azzardare delle interpretazioni, fingere di saperla più lunga dell’imprevisto sarebbe un segnale di inutile arroganza. La mia lettura, quindi, tenta di focalizzare il rapporto tra l’elettorato Pd, o almeno la sua porzione più motivata, e i flussi della modernità. Votando Elly Schlein i dem hanno scelto di nuotare in questo mare e hanno rifiutato la rassicurante piscina emiliana, offerta dal governatore della regione più socialdemocratica che ci sia. Le onde della terza modernità (la seconda era quella di Ulrich Beck e del dopo Cernobyl) sono alte e ridisegnano l’intero skyline perché abbracciano non solo gli ambiti della vita associata ma anche le scelte più personali. Per sintetizzare quest’assortimento di discontinuità, alcune delle quali epocali, a casa Schlein si usa il termine “diritti” ma il ventaglio dei temi toccati è decisamente più ampio di quanto possa passare per il vaglio di una commissione parlamentare. I dem scelgono di abbinare le loro fortune politiche a questo tipo di cambiamento e la scelta si spiega con l’evidente omogeneità sociologica tra il popolo di Elly e i moderni. La diversity e la contaminazione sono state, dunque, due potenti linee guida capaci di riempire le urne delle primarie, gli ossimori riproposti da Bonaccini nell’ininterrotto tentativo di conciliare gli opposti sono stati stati spazzati via. Antiquariato. E’ una scelta quella di domenica, dunque, “rispettosa” della modernità ma che porta con sé, nello zaino, una dolorosa rinuncia. La pedagogia politica, scolpita nel Dna della sinistra, si fa da parte, ammette di non essere in grado – almeno in questa stagione – di quadrare il cerchio e al massimo si contenta di fare surf sulle onde. E’ una strategia identitaria e di sopravvivenza, non solo in riferimento all’agone politico nostrano e all’inevitabile confronto con la destra pigliatutto, ma che vale più in generale per la stessa contemporaneità. Moderni comunque, per il resto vedremo.
Dario Di Vico
 



La differenza tra un’opposizione vera e una petulante

Resto dell’idea che aver fatto riscrivere ai passanti la delibera del condominio, sul nome dell’amministratore, non porterà benefici. Al Pd serviva un normale congresso, il rito democratico che, in epoche di incertezza sulle trasformazioni dei partiti, resta la residua e pallida forma di legittimazione. Il Pd era ritenuto l’ultima sopravvivenza delle forme politiche del 900. Ora l’anomalia è risolta. Al congresso è stata sostituita la confusissima costituente, dove il manifesto dei valori fondativi, icona di partiti con una storia, è stato, semplicemente, abrogato. Il programma politico è stato sostituito dalle contingenti “dichiarazioni” del candidato segretario”; i diritti degli iscritti (nel partito in cui abbonda la narrazione sui diritti) sono stati cancellati in nome dell’apertura a tutti, a chiunque passasse di lì. La smania autodistruttiva, ovviamente, e la retorica del “nuovo è bello” ha portato al paradosso che, quanto più eri estraneo alla storia (giudicata impresentabile) del Pd, tanto più acquisivi punti e credibilità nella costituente del nuovo Pd. Bonaccini e i suoi hanno accettato questo rito dissolvente e antipolitico. Come poteva vincere? Del resto, aveva scelto di non combattere, di non far emergere sostanziali distinzioni, che motivassero una scelta oltre le suggestioni del “buon amministratore” (roba che avrebbe fatto inferocire Togliatti). Aveva scelto la koinè, il linguaggio minoritario, impastato di diritti, declamazione ambientalista, pauperismo e retorica radicale che distingue quella che ama autodefinirsi una comunità (altro termine che avrebbe inorridito un vecchio Pci. Come poteva vincere? Il nuovo Pd di Schlein parte con un solo proposito dichiarato: faremo una “vera opposizione”! A quella, per la verità, li ha destinati il voto popolare. In ragione di errori e difetti. Che ora dovrebbero correggere, non con “più opposizione”, termine che non significa nulla, ma con una opposizione incisiva, nazionale, non banalmente agitatoria e petulante, ma costruttiva, come è scappato di dire una volta a Bonaccini. 
Umberto Minopoli

 



Un partito non si guida inseguendo lo scandalo del giorno

Diamo per buona l’idea che a votarla (nei gazebo non nelle sezioni) siano stati coloro che davvero speravano in una rivoluzione. Non solo e non tanto della linea politica essendo stata questa finora talmente indefinita da potersi aggiustare alla bisogna (la leggera esitazione con la quale ha pronunciato la parola  ” poveri”  ad elezione appena confermata la dice lunga) ma dell’apparato si. Talmente fuori dai giochi Schlein, così aliena al vecchio partito da non esserne nemmeno iscritta fino a due mesi fa, senza correnti dunque si presuppone capace  di fare piazza pulita dei cacicchi, dei manovratori di tessere, degli intoccabili mandarini. Insomma colei che davvero questo Pd lo rifonderà e lo farà in modo attuale, moderno, non importa se necessariamente minoritario che tanto a quello ormai l’elettore si è abituato avendogli ripetuto come un mantra che – uniti si vince – e dunque a che per tentare di avere tutti nello stesso partito ognuno si coltivi il proprio orticello, qualcuno magari un campetto un po’ più grande ma insomma l’importante sarà mettersi d’accordo al momento del voto e nel frattempo preservare la propria identità. Ecco se tutto questo è vero il primo messaggio che ho ricevuto (da una donna, elettrice non occasionale del Pd) appena proclamata la vittoria di Schlein è stato: “Dove sta Franceschini si vince”. Non particolarmente originale bisogna ammetterlo ma mi ha fatto tornare in mente la reazione della neo segretaria quando le chiesero di spiegare come mai i principali capi corrente si fossero schierati con lei. Domanda sessista ebbe a dire Schlein che presuppone io sia eterodiretta, non possa fare da sola, debba essere per forza manovrata. Mentre pensavo che no, nel caso l’avrei fatta anche a Bonaccini (che pure da solo non era di sicuro) chiedendo dunque conto a Schlein di un appoggio, un sostegno che al contrario da molte donne del partito (Serracchiani, Malpezzi, Valente, Picierno tanto per citarne alcune) non era arrivato. Ora ad elezione avvenuta e domanda elusa la risposta si vedrà dai fatti:  se davvero rinnoverà la struttura (le prime a saltare per altro potrebbero essere proprio le due capogruppo di Camera e Senato) e soprattutto  se detterà una linea che non sia solo quella social dello scandalo del giorno. Bonaccini, da bravo emiliano abituato alla cooperazione, ha assicurato comunque il suo appoggio. Gli altri non so. A destra si aprono praterie a sinistra si tracciano confini. 
Flavia Fratello

 


 

La vittoria di Schlein dimostra che l’Italia ha bisogno di un centro

Sono fra quella minoranza non rimasta sorpresa dall’esito di queste primarie. Gli elettori e i simpatizzanti del Pd hanno scelto l’opzione più nuova, con apparentemente meno radici nel passato, nonostante la presenza dei vari Bettini, Zingaretti, Franceschini: un fenomeno che caratterizza ormai da anni l’elettorato italiano. Quel che è interessante però è provare a capire il volto che la neo segretaria darà al Pd, a un partito che ha passato la sua campagna per le primarie a parlare di Matteo Renzi, l’ultimo segretario in effetti ad aver dato ai dem un’identità chiara. Elly dice di voler combattere le diseguaglianze. Per noi del terzo polo le diseguaglianze si combattono favorendo la crescita e quindi l’iniziativa individuale, l’impresa, combattendo l’oppressione fiscale e tagliando la spesa pubblica inutile, riformando quella burocrazia che toglie fiato a chi investe e creando posti di lavoro: per questo rivendichiamo il jobs act e industria 4.0. Con la sanità e con la scuola legata al merito. Ho il vago sospetto che lei pensi a patrimoniali, mascherate e non. La Schlein dice anche di volere “giustizia ambientale”. Noi vogliamo un’Europa attenta all’ambiente ma realista, che eviti direttive sulla casa e sulle auto che impoveriscano imprese e famiglie italiane. Il sospetto è che per Elly l’ambientalismo sia una maschera che nasconde la lotta al capitalismo. E che dire della politica estera. Noi rivendichiamo con orgoglio il sostegno armato all’Ucraina, la collocazione euro-atlantica e l’identità occidentale. Elly vuole la pace. Come noi, come tutti, ma cosa significa pace? Abbandonare un paese all’invasore? No, grazie. Elly sembra voler evitare la questione e si dimentica, nel suo discorso della vittoria, di parlare di Ucraina. Un campanello d’allarme da non sottovalutare. In attesa di scoprire quale sia l’identità del nuovo Pd oltre ai proclami, ciò che appare chiaro fin da subito è la necessità di avere in campo una forza dell’identità orgogliosamente definita: crescita, merito, garantismo, pari opportunità, salda collocazione euro-atlantica.  Il racconto della donna populista di destra  che sfida la donna populista di sinistra non tiene conto di un fattore: l’Italia ha bisogno del centro. Il 40% alle europee il Pd lo ha raggiunto con una proposta riformista, non massimalista. Meloni cerca di allargarsi al centro, nel tentativo di fare a meno un giorno di Forza Italia. La sfida quindi sarà, oggi più che mai, quella di occupare questo centro deluso da destra e sinistra, costruendo una forza che non sia subalterna a nessuno, senza collocazioni aprioristiche, senza paura e, soprattutto, autonoma.
Raffaella Paita, capogruppo di Azione-Italia Viva al Senato

 



Schlein è fuori dai giochi e per questo è credibile

Un caso? Non credo. Prima o poi doveva capitare che, con quel meccanismo da matti che il Pd si è dato per fare i congressi, le primarie smentissero gli iscritti, e infatti è capitato. Ma si poteva prevedere, e infatti qualcuno lo aveva previsto. Tipo Dario Franceschini. Quanto ci piacciono le battute sul leggendario opportunismo di Franceschini, il democristiano legato al potere e alle correnti, e “se-vuoi-sapere-chi-vince-guarda-dove-sta-Franceschini”, ahaha. E però, se è successo esattamente quello che Franceschini diceva da mesi, e all’inizio praticamente da solo, e spaccando a metà la sua, di corrente (complimenti, Fassino!), forse oltre che di opportunismo (c’è) dovremmo cominciare a parlare di intelligenza. E di coraggio. E poi Enrico Letta. Quante ne ha sbagliate, Letta. E però a dire il 26 settembre “fase costituente” ci aveva azzeccato, anche se poi non gli è del tutto riuscito. Quante ironie su un congresso lunghissimo (e nessuno naturalmente che si sia ricordato che i congressi del Pd durano sei mesi anche senza costituente, per questo sono stati eletti gli Epifani e i Martina). Quante battutone negli editoriali. Quante interviste indignate degli ayatollah del piddismo delle origini, e senza che nessuno scoppiasse a ridere: “Vogliono riportarci al 1921!”, ma certo professore. La verità è che la vittoria di Elly Schlein, da senza tessera a segretaria, estranea alla retorica passivo aggressiva del partitone nobile decaduto, fuori dai giochi e per questo credibile, è l’ultima possibilità che gli elettori danno al Pd. Può essere troppo tardi, può darsi che fallisca. Ma chi le ha aperto le porte del Pd aveva capito una cosa: di continuità il partito sarebbe lentamente morto. Le primarie, nate per legittimare l’impostazione plebiscitaria e presidenzialista delle origini, sono così, con un meraviglioso paradosso, diventate un gigantesco “entrate e cambiateci”. Il Pd che esiste non basta più, hanno detto gli elettori. Il Pd che pensate di dover rappresentare non è quello che avete in mente, hanno spiegato. Noi siamo questi, siamo qui appena fuori dalla vostra porta, hanno gridato presentandosi al gazebo gli stessi che magari due settimane fa non avevano votato alle regionali. Guardateci. 
Il bello comincia ora.
Chiara Geloni

 



La vittoria di Schlein costringe i riformisti a riorganizzarsi. Da dentro, non da fuori

Il Pd nacque, quindici anni fa, su un compromesso: tra la sua veltroniana costituzione formale (il partito delle primarie, aperto e contendibile) e la sua dalemiana costituzione materiale (il partito governato da un patto tra gruppi dirigenti). Fu Matteo Renzi, qualche anno dopo, a far saltare quel compromesso. L’allora sindaco di Firenze usò la costituzione formale per rottamare quella materiale. Prese sul serio la contendibilità del Pd, si candidò contro la stragrande maggioranza del gruppo dirigente e vincendo le primarie del 2013 conquistò il partito e subito dopo il governo. D’Alema lasciò il Pd, alla testa dei suoi. Come poi fece lo stesso Renzi, quando perse prima il governo e poi il partito. Ora la sinistra sconfitta dieci anni fa da Renzi si sente vendicata. Ma in realtà anche Elly Schlein ha usato la costituzione formale del Pd, voluta e difesa da “quelli del Lingotto”, contro la costituzione materiale da sempre cara alla sinistra interna. Da questo punto di vista, la vittoria di Schlein è la vittoria del Pd, come voluto e pensato nel 2007. Con buona pace di quanti, “da sinistra”, volevano azzerare manifesto, statuto e magari nome e simbolo. Con la vittoria di Schlein, dovrebbero aver capito che il Pd è davvero contendibile ed è meglio impegnarsi a conquistarlo (beninteso, sempre pro tempore e in modo reversibile), piuttosto che a distruggerlo. Ora c’è il rischio che la tentazione dell’abbandono prenda piede tra i riformisti. Bonaccini ha pronunciato subito parole chiare e nette in senso contrario. Ma il rischio di una nuova diaspora riformista resta alto. Anzi, forse è questo il rischio più grande che corre ora il Pd. Un rischio che la nuova segretaria può contribuire a contenere, proprio facendo leva sulla confermata attualità e validità del progetto originario del Pd. Ma è un rischio che spetta soprattutto a noi sconfitti scongiurare. Il Pd è sempre stato ed è tuttora un partito contendibile. E lo sarà tanto di più se i riformisti smetteranno di dividersi tra loro e torneranno ad unirsi per riconquistare la leadership del partito. Anche perché solo una leadership riformista del Pd e del centrosinistra può rendere contendibile il governo del paese.
Giorgio Tonini

 



L’aria fresca c’è, ma non vuol dire niente. A meno che…

I più accorti nel Pd definiscono riformismo radicale l’impianto ideologico e programmatico di Elly Schlein. Sfiorano il concetto di riformismo, pericolosissimo in questi tempi tra i dem, e lo correggono prontamente, connotandolo in modo forte come radicale. Perché definirsi semplicemente a sinistra, di sinistra, o socialisti o postcomunisti, è diventato difficile ora che quei mondi si sono inariditi e sono diventati un accumulo di assistenzialismo, di bonus, di paternalistici progetti per “migliorare la vita delle persone”, oppure di richiami mitici spompatissimi, senza energia. Quello spazio è occupato ormai da Giuseppe Conte, anche, e soprattutto, elettoralmente. Schlein, mentre già la pressano nel partito perché si intenda con i 5 stelle, ha poco margine per proporre altro. Ma, se governare assieme a un altro partito è possibile, grazie al collante del potere e, ancora di più, grazie ai sentieri obbligati lungo i quali si esercita l’attività di governo, non può dirsi lo stesso per il compito dell’opposizione. Ognuno si oppone per conto proprio, perché deve intestarsi le sfide e anche personalizzare il confronto. Per Schlein c’è subito, malgrado le richieste interne, la necessità di acquisire il ruolo di principale opposizione al governo di Giorgia Meloni. Intanto, via col riformismo radicale, ma il salario minimo è bandiera di troppi, oltre a essere una proposta usurata e poco efficace. L’allargamento dei diritti, il riconoscimento di tutte le identità e la loro valorizzazione, sono temi certamente molto sentiti, ma non si traducono in voti per un misterioso meccanismo della politica. La manutenzione correntizia non sembra lavoro per lei, magari ci penseranno alcuni tra i suoi sostenitori della prima ora (sperando, per Schlein, che non vogliano solo regolare conti). La Cgil, a congresso tra pochi giorni, è già in azione per ribaltare i ruoli e fare del sindacato il trascinatore del partito, o meglio, dei partiti, anche per rintuzzare l’invasione di campo sul salario minimo. Schlein, dicono, porta aria fresca nella politica italiana. E’ vero, non vuol dire niente, ma è vero. 
Giuseppe De Filippi

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