La sede della Banca d'Italia (Wikipedia)

La scelta

Meloni e Giorgetti si sfidano per nominare il governatore della Banca d'Italia

Valerio Valentini

La premier vuole Fabio Panetta in Via Nazionale, il ministro dell'Economia preferirebbe Daniele Franco: ciascuno ha buone tesi a sostegno della propria candidatura. Di solito, la direzione di Palazzo Koch è sempre stata un preludio a una futura carriera politica

Le due orbite sono così vicine, nella loro brillantezza, che forse era fatale che prima o poi rischiassero di entrare in collisione. Entrambi economisti, pupilli entrambi di Mario Draghi, corteggiati l’uno e l’altro dalla politica, e tutti e due già direttori generali di quella Banca d’Italia di cui ora, ecco l’inghippo, aspirano con eguale legittima ambizione a diventare governatori. Daniele Franco e Fabio Panetta. I due candidati d’obbligo, forse gli unici due reali candidati alla guida di Via Nazionale. Rischiano, loro malgrado, di conseguire un altro risultato non banale: riuscire a far bisticciare Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti. E ce ne vuole, di questi tempi. 

 

Fosse per la premier, la discussione in vista della scadenza del mandato di Ignazio Visco in autunno, pare, neppure si porrebbe. Per una questione di affinità ideologica, anzitutto, se è vero che nel sancta sanctorum di Palazzo Chigi sono convinti, e lo confessano con un cedimento alla celia solo apparente, che Panetta sia “uno dei pochi non di sinistra che abbiamo in Europa, e forse non a caso il più bravo”. Pochi giorni fa, quando l’economista romano, membro del board della Bce, è intervenuto per biasimare la strategia del rialzo dei tassi adottata forse con troppa convinzione da Christine Lagarde, ai vertici di FdI hanno esultato. Che poi lo abbia fatto, Panetta, citando quel Lucio Battisti così caro a tanti meloniani (“Non possiamo guidare come pazzi a fari spenti nella notte”), è stato un sovrappiù di gioia per i patrioti di Via della Scrofa.

 

E però, al contrario, Giorgetti non nasconde, e non solo in privato, la sua predilezione per un’altra soluzione. Quella, cioè, di indicare, come successore di  Visco, quel Franco che è il suo predecessore, e col quale ha cementato una consuetudine fatta di stima reciproca, di consigli richiesti e di suggerimenti recepiti che è quasi quotidiana. Fu Franco, del resto, alla viglia del passaggio di testimone al leghista designato per Via XX Settembre, a benedirla con un’intervista e dichiarazioni di stima che valsero non poco a rassicurare i mercati, dopo che si era a lungo parlato proprio di Panetta come ministro dell’Economia. E qui, in questo garbuglio di destini che s’incrociano, sta forse la vera divergenza nelle traiettorie dei due inconsapevoli contendenti. Perché appunto Panetta oppose, alle richieste a dir poco insistenti e reiterate di Meloni che lo voleva suo uomo dei conti, la sua vista su Palazzo Koch. Al punto che, tra i consiglieri della premier, ci fu perfino chi pensò di accomodare la cosa garantendogli un trasferimento diretto da Via XX Settembre alla guida di Banca d’Italia che, a norma di statuto, sarebbe assai improbabile. E insomma se ne rimase a Francoforte. Non aveva usato la stessa fermezza, invece, Franco. Che un anno e mezzo prima s’era lasciato convincere, da Draghi e da Sergio Mattarella, ad accettare l’incarico di governo.

 

Per cui ora i sostenitori dell’una e dell’altra candidatura hanno, ciascuno a sostegno della propria causa, buone tesi da sostenere. Da un lato c’è chi, ed è il pensiero più diffuso nella Lega e condiviso dallo stesso Giorgetti, osserva che sguarnire l’avamposto strategico nel Comitato direttivo della Bce sarebbe troppo rischioso, perché nessun automatismo garantirebbe all’Italia di ottenere un nuovo membro, e di certo non ci sarebbe nessuno con lo stesso peso specifico e lo stesso carisma di Panetta che potrebbe bilanciare le puslioni rigoriste dei nordici. Motivo, insomma, per cui sarebbe consigliabile tenerlo lì al piano nobile dell’Eurotower, l’economista romano. Chi invece è proprio per lui che fa il tifo, nella sfida per la successione di Visco, segnala un altro rischio. Quello, cioè, che con la scelta di Franco si infranga un tabù: quello per cui, cioè, mai l’apoteosi di Palazzo Koch è stata concessa a chi ha prima ricoperto incarichi di governo. Da Einaudi fino a Ciampi e infine Draghi, il percorso è sempre stato inverso, e cioè la direzione di Banca d’Italia come preludio a una futura carriera politica. L’unica eccezione fu quella di Guido Carli, titolare del Commercio estero nel governo Zoli tra il ’57 e il ’58, prima di diventare governatore due anni dopo. Eccezione, va detto, che risale a sei decenni fa. Ecco perché in FdI c’è chi già dice che “con Franco si creerebbe un precedente”. Che oggi, certo, vale per un economista al di sopra delle parti chiamato a svolgere il suo mandato ministeriale in un governo di solidarietà nazionale, ma un domani, chissà. C’è tempo fino a ottobre, per risolvere il dilemma. E gli uni e gli altri animatori di questa contesa sanno che alla fine, a risolverla, sarà con ogni probabilità il Quirinale.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.