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La storia

La riforma di Giorgetti per spartire il Mef fa spaccare il capello in quattro

Carmelo Caruso

Annuncia la riforma organizzativa del ministero, ma serve almeno un anno. Ci sono gli occhi puntati del Quirinale. A Via XX settembre si parla di "azzardo" e il nuovo direttore generale "come un non operativo"

Il direttore in carica era sgradito, il nuovo non ha preso le misure, il terzo, che dovrebbe affiancare il nuovo, ha un incarico che ancora non esiste. Il 19 gennaio 2023, giorno della rimozione di Alessandro Rivera, direttore generale del Mef, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, annuncia in Cdm una riforma del modello organizzativo del Tesoro. E’ una riforma che funzionari del ministero definiscono oggi un “azzardo”, “complessa dal punto di vista giuridico”, “la creazione di una ridotta”.


La riforma del Mef anticipata da Giorgetti prevede la nascita di un dipartimento ad hoc con a capo un direttore per la gestione delle società partecipate. Secondo pareri tecnici occorre  almeno un anno per realizzarla. La domanda è più che legittima: era necessario cacciare un direttore che assolveva tutte le funzioni ma soprattutto  si è davvero sicuri che ne servano due? Il governo ha il tempo come alleato ma lo spreca. Lo sprecano i suoi sottosegretari che ingaggiano duelli televisivi all’ora del tè. Lo sprecano i capi di gabinetto che spediscono lettere ai giornali preoccupati di difendere loro stessi anziché tutelare i loro ministri, scaricando dunque i ministri. Le riforme hanno bisogno di tempo ma cosa resta se quel tempo viene impiegato per dire “vogliamo i nostri” senza poi neppure saperli mettere? Quando il direttore del Tesoro, Rivera, è stato sostituto con Riccardo Barbieri, un macroeconomista, a nessuno è venuto in mente che il cambio, e la riforma voluta da Giorgetti, potesse far funzionare meglio un ministero. E’ sembrata a tutti una soluzione di compromesso tra Meloni e il suo ministro. Giorgetti indica a sorpresa Barbieri, una figura che non era entrata nella rosa dei nomi. Meloni non litiga con Giorgetti. Si crea, sulla carta, una nuova carica per la gestione delle partecipate che sarebbe destinata ad Antonio Turicchi. Non è la stampa a inventarsi quel cognome. Per settimane FdI “sponsorizza” Turicchi. FdI era consapevole, come si leggeva nella nota del Mef, che sarebbero serviti due passaggi, uno al Consiglio di Stato e l’altro alla Corte dei Conti? Sulla necessità della riforma si può sindacare. Un ministro può decidere legittimamente di farla. Giorgetti la rivendica. L’ultima riorganizzazione del Mef risale al 2021. La struttura è stata rivista da cima a fondo ed è divisa oggi in sette direzioni. Ogni direzione ha un direttore e le cariche sono scadute il 31 gennaio. Quella decisiva per il dossier delle società partecipate è la Struttura VII ed è diretta da Filippo Giansante. E’ la struttura “valorizzazione del patrimonio pubblico”. Il direttore è chiamato a validare gli elenchi dei candidati selezionati per sedere nei cda. In questo momento quel ruolo è vacante e la riforma, quella che porterebbe alla nomina del direttore ad hoc per le partecipate, non c’è. Scatta dunque la  procedura canonica e si parte con un interpello. Ma veniamo ora alla riforma Giorgetti. Per farla non serve una semplice legge. Ne serve una di rango primario. Si può fare con un Dpcm in qualsiasi momento, per carità, ma ci deve essere la volontà politica. La riforma va scritta, va riempita di contenuti. Il Quirinale è attento a questo passaggio. E lo è molto. Oltre a presentarla in Cdm, approvarla, serve successivamente il parere di Consiglio di Stato e Corte dei Conti. Si possono sollecitare i pareri ma il tempo scorrerà. Chi pensava, e nel governo e in FdI lo hanno pensato in tanti, che la riforma avrebbe permesso a un uomo d’area di controllare il dossier partecipate ha commesso un errore. Chi vuole fare la riforma, come Giorgetti, deve motivarla. Burocrati di stato ritengono che avere due forti direttori del Tesoro, questo è il senso della riforma, uno per la parte internazionale e uno per le partecipate, potrebbe causare un conflitto. Esempio: se bisogna trattare un dossier come Mps in sede internazionale, chi ci va?  Il direttore per la parte internazionale o il direttore per le partecipate? L’unica cosa certa è che serve ora una figura delegata che segua il dossier nomine nella posizione che è stata di Giansante. La macchina non si arresta, malgrado la posizione vacante, ma è sempre quella macchina del Mef tanto vituperata. Altra possibilità è  procedere a una ulteriore nomina e anche quella potrebbe non bastare. La carica si deve infatti sposare all’uomo. Al Mef dopo venti giorni c’è chi definisce  “Barbieri un bravissimo teorico che non ha mai svolto funzioni operative. Si vede”. Torna  la paura come concetto chiave per afferrare questo governo. Per paura di non avere un direttore leale hanno scelto un pensatore che deve appoggiarsi, per forza di cose, alle strutture del ministero. In cantiere resta invece una riforma che verrà completata dopo le nomine delle partecipate mentre serve ora una nomina per indicare il direttore che segue le nomine. Il machete o una tisana?

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio