Foto d'archivio Ansa

l'analisi

Al congresso del Pd è Bonaccini contro Schlein, ma Renzi e D'Alema sono i due fantasmi

Alessandra Sardoni

I due leader del passato sono evocati dai rispettivi avversari di oggi. C’entra il carisma, c’entrano i tabù e c’entra un film sul Partito democratico che non è stato ancora scritto

È stato il ritorno di Articolo Uno nella casa dei padri con la commozione della dalemiana Livia Turco, la citazione nell’intervento di Peppe Provenzano dell’Arte della guerra di Sun Tzu, un classico dell’iconografia dalemiana fin dagli anni ‘90 (dettagli segnalati da Maria Teresa Meli sul Corriere) a riportare in chiaro, nelle cronache del congresso Pd, lo spettro di Massimo D’Alema affiancandolo a quello assai più frequentemente avvistato di Matteo Renzi. La controprova si è materializzata subito, in quella specie di abiura del jobs act da parte di Stefano Bonaccini arrivata immediatamente prima dell’inizio delle primarie degli iscritti. E ancora nella maldestra apertura dello stesso Bonaccini all’ex 5 stelle Dino Giarrusso finita in corto circuito. 

Dare, ad alta voce, dei renziani, dare, sottovoce, dei dalemiani, proiettare a tutto schermo su Stefano Bonaccini l’ombra di Renzi o evocare l’impronta, dissimulata, di D’Alema sull’operazione Schlein, a ben guardare, è stato fin dall’inizio delle manovre congressuali, uno strumento della competizione fra correnti e candidati, il segno di un impulso alla resa dei conti fra due leader e due sistemi di potere in lotta per la sopravvivenza nell’era Meloni.  E naturalmente un pericoloso tiro alla fune, verso il terzo polo o verso i 5 stelle. E tuttavia mentre l’apparizione di Renzi era costantemente certificata dagli osservatori e le accuse di renzismo mosse a Stefano Bonaccini un leit motiv diffuso (“il Pd ha la sindrome Renzi” scriveva Lucia Annunziata, idem Andrea Scanzi sul Fatto ) l’evocazione di D’Alema era confinata nei retroscena di area centrodestra, nelle dichiarazioni anonime di qualche esponente di Base Riformista, la corrente di Lorenzo Guerini che insieme a buona parte della “dorsale dei sindaci”, appoggia Bonaccini o nei sussurri infastiditi di dirigenti vari come un’antica ossessione o una leggenda. Che anche l’interessato, a maggior ragione, provava a scolorire nell’autonarrativa della distanza dalla politica (“sono un consulente d’affari”) e dell’ossequio esibito alle decisioni di Roberto Speranza, “il mio segretario”, ha sempre detto D’Alema con le ambiguità di quel possessivo.

Oggi i fantasmi volteggiano entrambi, uno contro l’altro, con quello di D’Alema improvvisamente soverchiante, mescolando dimensione reale e piano simbolico. E il congresso Pd si rivela, nell’implosione delle correnti, dietro le dispute su regole e neoliberismo, nome del partito e voto on line, anche un gioco di ombre e di specchi che rimanda le immagini di questi due ex leader carismatici oggi azionisti esterni al Pd, ma pur sempre azionisti.  

Simboli di conti non fatti o non fino in fondo con diverse stagioni e diverse sconfitte e in particolare da una parte con la fine del governo giallorosso e l’influenza dalemiana su Conte premier, dall’altra con il passato non superato del renzismo. O meglio di quello che, nella cultura del Pd in questo amalgamato, è stato il tabù del leaderismo. Contrapposto all’idea bersaniana della “Ditta” o del gruppo dirigente. Residui di carisma e rancori, torti inferti o subiti che spiegano perché la guerra degli aggettivi scarti “lettiano” o “zingarettiano”, “orlandiano” o “franceschiniano”, non abbia ancora visto generare “schleiniani” o “bonacciniani” e si riduca a due, renziano o dalemiano. 

“Renziano è Bonaccini e con lui i sindaci Gori e Nardella. Se vince Bonaccini vince Renzi, una presenza mai esorcizzata dalla dirigenza Pd”, scriveva Lucia Annunziata a dicembre... “Criticai Renzi quando era all’apice, ma oggi vedo un eccesso di trasformismo da parte di chi quella stagione ha condiviso con ruoli di prestigio”, replicava sul Foglio Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria Pd, come alternativa di sinistra a Elly Schlein. “Non sono mai stato renziano, ma non mi piace questo modo di catalogare dirigenti attribuendo loro continuità con fasi superate della storia del partito. E non mi sembra che nel Pd ci sia un fantasma da esorcizzare”, si associava Luigi Zanda su l’Espresso. Era Natale. Guai a far risaltare i tratti marcati, espressionisti di Renzi e di D’Alema sulle fragilità dei candidati in corsa tutti timorosi di finire stritolati nel gioco degli aggettivi e delle etichette. Oggi è Enrico Borghi, sostenitore della mozione Bonaccini, uomo vicinissimo a Lorenzo Guerini a dire, dritto per dritto, che “D’Alema è il vero ispiratore dell’ambiguità di Articolo Uno sull’invio di armi all’Ucraina registrata in aula con le assenze in dissenso dei due deputati Arturo Scotto e Nico Stumpo appena rientrati nel Pd”. “E’ il vero ispiratore di questa linea, restare fuori dal Pd gli conviene. Aspetta con Conte le europee, non il congresso”, dice Borghi.   

Il punto insomma è che i fantasmi, i due fantasmi, non sembrano essere stati esorcizzati.

Certo non è facile stabilire chi siano i renziani e chi i dalemiani in un partito dove quasi tutti sono stati quasi tutto e dove le biografie di ogni singolo dirigente consigliano prudenza nel gioco dei rinfacci. 
“I dalemiani non esistono” ha sempre detto D’Alema anche negli anni ‘90 quando l’etichetta era tutt’altro che scomoda. E i dalemiani, nel senso dello staff, erano Marco Minniti e Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino e Nicola Latorre. 

“Il loro errore fu di sostituire il partito con il leader carismatico. Non a caso sono poi stati tutti affascinati da Renzi. Finì male allora 11 a 4 per le regionali. Ed è finito male anche Renzi”, ha detto l’ex dalemiano Gianni Cuperlo, all’epoca nel medesimo staff, oggi candidato alle primarie degli iscritti, in una recentissima intervista ad Aldo Cazzullo. Oggi i dalemiani sono in Articolo 1 di cui D’Alema è stato fondatore con Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Oppure, come nel caso di Latorre, sono fuori della politica in aziende pubbliche. O come lo stesso Minniti che non più dalemiano, ministro dei governi Renzi e Gentiloni, è alla testa della Fondazione Med Or di Leonardo.  

Anche i renziani rimasti nel Pd sono ex: i renziani sono in Italia Viva. A Renzi fa piacere però che l’aggettivo si appoggi al maggior numero di nomi possibile e insomma che aleggi il dubbio di truppe più numerose di quelle realmente a disposizione. Specialmente dopo le politiche del 25 settembre scorso che hanno ulteriormente modificato i pesi dei gruppi parlamentari: l’etichetta sembra alla fine contenere quelli che soffrono la subalternità a Conte e che non hanno poi così gradito le modalità del ritorno di Articolo Uno.

“Il cosiddetto congresso in corso, non è il congresso del Pd, ma l’occasione per la fondazione di un nuovo partito figlio dell’unione del vecchio Pd e di Articolo Uno, il partito costituito 5 anni fa da D’Alema e Bersani e cha ha come segretario Speranza” l’analisi di Arturo Parisi in tempi precedenti al “nostos” registrato, con le emozioni del caso, all’assemblea costituente di fine gennaio. Lo stesso Zanda aveva segnalato in varie interviste e conversazioni le tappe di questo ritorno, obiettivo evidente ex post, del mandato conferito a Enrico Letta da Dario Franceschini e Andrea Orlando dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti: “Il segretario prima li ha fatti eleggere nel Pd, poi ha cambiato il nome al gruppo parlamentare guarda caso “democratico e progressista” come da acronimo Mdp, infine ha lavorato per cambiare il manifesto dei valori in modo da giustificare politicamente il rientro”. Esclusi di peso della corrente Area Dem, vedi Roberta Pinotti, lamentano la sovrarappresentazione di Articolo Uno nelle liste delle politiche accettata dal loro leader Dario Franceschini.  

Parisi ha segnalato il carattere paradossale della torsione a sinistra condotta da “due ex dc”, Letta e Franceschini. Ma in realtà il paradosso è tale fino a un certo punto, ammette lo stesso Parisi: sia Letta sia Franceschini sono stati entrambi molto vicini a D’Alema. Accomunati, l’uno, Letta dall’avversione a Renzi che lo aveva scalzato, l’altro, Franceschini, dal sostegno a Giuseppe Conte solo per stare ai tempi recentissimi (la storia delle convergenze politiche con D’Alema è molto più antica, merita ricostruzione a parte).

Chi guarda a sinistra, e condivide il fine dell’alleanza con Conte e i 5 stelle via Elly Schlein, nega l’influenza di D’Alema e accredita quella di Renzi su Bonaccini. Chi guarda all’alleanza con il terzo polo nega di essere influenzato da Renzi. E basterebbe questa strana sindrome di negazioni incrociate a confermare algebricamente l’esistenza di entrambi gli spettri. Avversari imperituri nonostante analogie caratteriali e di percorso. 
Sono stati entrambi leader carismatici (D’Alema segretario dei Ds, Renzi del Pd), entrambi presidenti del Consiglio dopo defenestrazione politica del predecessore (Prodi 1998 e Letta 2014), entrambi dimissionari dopo sconfitte cocenti in corse, le regionali del 2000 per d’Alema, referendum costituzionale del 2016 per Renzi, che avrebbero dovuto essere i lavacri del passaggio elettorale mancato, quello verso palazzo Chigi. Entrambi hanno giocato d’azzardo puntando, sull’occasione rivelatasi sbagliata, tutta la posta. Entrambi hanno fatto un momentaneo passo di lato rifugiandosi, per poco, nell’autoironia l’uno del deputato di Gallipoli, l’altro del senatore di Rignano. Entrambi hanno scelto la via della scissione come strategia di attacco dell’altro e di conservazione del potere: lasciare il Pd per condizionarlo, mantenendo quote azionarie da far pesare al momento opportuno. Entrambi hanno avuto la fase blairiana o liberal salvo differenziarsi drasticamente nel giudizio postumo: quello di D’Alema è diventato ferocemente critico e riferimento per la crociata contro il “neoliberismo”, quello di Renzi no.  

I fedelissimi o semplicemente i debitori dell’uno e dell’altro si concentrano tuttavia sulle differenze piuttosto che sulle vistose analogie. Consapevoli dell’effetto “abbraccio mortale” della maschera dello scorpione dell’uno e del demolition man dell’altro, non gradiscono che i due siano accostati. Non importa se le biografie rivelano stesso amore per il lusso (che siano case, scarpe o barche), la stessa disinvoltura nelle relazioni internazionali: l’Arabia saudita o il Qatar. Conferenze ben remunerate per Renzi o consulenze d’affari senza guardare troppo per il sottile a proposito dell’oggetto della mediazione (vedi le armi alla Colombia) per D’Alema. E al fondo la stessa idea che tutto sia giustificabile con la politica o per la politica perché un comportamento discutibile o è reato o, se non è reato, semplicemente non è. E ancora una certa voluttà della spregiudicatezza, la predilezione per un’iconografia da antipatizzanti, fino a Renzi che titola “il Mostro” il suo ultimo libro. O D’Alema che mostra compiaciuto la dentatura di un grosso cane e l’affettatrice ad Alan Friedman in una intervista tv nella sua casa umbra del 2014.   L’importante è non accreditare l’idea di una somiglianza. Puntare sulle differenze: Renzi guida il partito che ha fondato, Italia Viva, promuove federazioni con Carlo Calenda ed è in Parlamento. D’Alema, lasciata con strascichi e avvocati, per una retribuzione contestata, la presidenza della Fondazione degli studi dei Socialisti Europei, Feps, guida Italianieuropei, il think tank politico da lui fondato insieme a Giuliano Amato proprio per restare in campo quando si dimise da presidente del Consiglio nel 2000. Ha lasciato, sottolinea sempre, gli incarichi dirigenziali in Articolo uno.    
“D’Alema ha scelto di accettare un incarico professionale rilevante in una importante società di consulenza (Ernst & Young ndr). Ma non si può non riconoscere che è fuori dalle istituzioni da dieci anni”, ha detto Roberto Speranza commentando la notizia e gli audio della tentata mediazione di D’Alema per la vendita di armi alla Colombia. “D’Alema è diverso da Renzi, non è un parlamentare” l’asseverazione ripetuta da Goffredo Bettini della distanza dell’ex premier dalla politica.  

Distanza, ma mai tale da accreditare un allentamento della presa. “Mi capita di sentire molti esponenti politici, prevalentemente i miei compagni di Articolo 1 o dirigenti del Pd, ma anche esponenti del centrodestra. Sento anche Conte: e quindi? E’ un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà personale” ha detto D’Alema in varie interviste a Repubblica, al Corriere, al Fatto. Non ha mai smentito, insomma, il ruolo di consigliere di Conte. 

Mentre D’Alema oscilla fra la dissimulazione della sua presa sul Pd attraverso la cosiddetta “ditta” degli ex bersaniani e l’ostentazione della sua influenza su Conte, Renzi che in realtà di presa sul partito oggi ne ha meno, si compiace dell’antirenzismo diffuso nel Pd, ne alimenta la rappresentazione attraverso i periodici j’accuse dei suoi, (vedi Maria Elena Boschi, intervista al Giornale) e apprezza gli scenari che lo ritraggono in una posizione win win rispetto al congresso e che suonano più o meno “se ai gazebo vince Schlein il terzo polo avrebbe una rendita di posizione e magari riceverebbe qualche transfuga, se vince Bonaccini… era renziano no?”

Nello storico della relazione fra i due una sola tregua, nel 2019 che fu più che altro convergenza di interessi, realismo: non tornare alle elezioni dopo il Papeete e accettare la permanenza di Conte a Palazzo Chigi. L’uscita di Renzi dalla maggioranza, l’arrivo di Draghi, il siluramento di Conte e con lui di tanti pezzi del mondo dalemiano a cominciare da Domenico Arcuri, riaprirono le vecchie ferite. Rintracciabili nelle dinamiche congressuali, nel duello degli spettri che non sembra terminare con il ritorno dei bersanian dalemiani a Largo del Nazareno. 

“Un ricongiungimento famigliare” lo ha definito Elly Schlein confermando implicitamente la sua aderenza al disegno che lo prevedeva. “Bene il ritorno di Articolo Uno, ma mi interessa soprattutto che tornino i milioni di voti persi”, la reazione meno entusiasta di Stefano Bonaccini. Il fatto è che l’operazione ritorno non risolve il problema D’Alema, rimasto per ora sulla soglia a proiettare sul congresso Pd solo la sua ombra. “Sono in pensione”, ha detto con la sprezzatura ben nota ad amici e nemici. 

Gli spettri sono ingombranti anche sulla soglia e anche se alloggiano in un partito diverso. Non solo Bonaccini e Schlein, anche Paola De Micheli e Gianni Cuperlo respingono lo schema “dei nomi e cognomi”, il continuo richiamo agli azionisti esterni oltre che a quelli tuttora in sella, la rappresentazione delle loro candidature come cooptazioni da parte di capi di correnti ormai atomizzate. Distribuite trasversalmente con separazioni dolorose, vedi Franceschini (Schlein) da Gianclaudio Bressa (Bonaccini), Michele Emiliano (Bonaccini) da Francesco Boccia (Schlein), talmente traumatiche da far pensare che magari siano destinate a ricomporsi in seguito, a giochi fatti. Più distribuzioni strategiche che separazioni, un sospetto indicibile che rimbalza dagli uni agli altri. 

“Scusi, ma secondo lei chi è che ha davvero distrutto quel sogno che poteva essere il Pd? Io credo proprio D’Alema che nel Pd vedeva la fine del proprio potere. Perché D’Alema è uno che dice a capotavola è dove mi siedo io”, diceva Renzi a Natalia Aspesi, sul Venerdì. In un implicito riconoscimento di quel potere.

Ma è tutto da vedere se la voglia di resa dei conti dei due ex premier all’interno del loro ex partito avrà la meglio o se il patto generazionale che è anche arroccamento, rilanciato come antidoto agli spettri, la possibilità di un accordo dei quarantenni, servirà ad arginare le vecchie dinamiche.   

“Non ho mai utilizzato il termine rottamazione, neppure quando votai Renzi al congresso del 2013, se vinco chiederò agli tre candidati di dare una mano”, ha garantito Bonaccini. Riecco in agguato il vecchio schema consiglio d’amministrazione/amministratore delegato. Prendere le distanze dalle correnti è un manifesto condiviso, ma sempre con prudenza: mai evocare il sospetto di una corsa solitaria, di una voglia di leadership al singolare. “Non sarò una donna sola al comando” ha detto spesso Schlein. Un riflesso antico e contraddittorio con le ambizioni di vittoria ai gazebo, che scolorisce i candidati, ne disinnesca l’eventuale carisma tanto da lasciare spazio all’eco di quello pregresso resistente negli aggettivi di cui sopra, “renziani” e “dalemiani”. Il riflesso collettivo ed oligarchico del Pd resta insomma anche a dispetto delle personalizzazioni degli altri partiti – compresi i 5 stelle di Conte, sottolinea il politologo Mauro Calise – come un’autodifesa contro i vecchi fantasmi. “Rilanciare il Pd è un’impresa collettiva, non ci serve un Maradona” ha obiettato spesso Cuperlo. Il gioco delle ombre e degli specchi sembra dirci che forse, invece sì.