Foto di Roberto Monaldo, via LaPresse 

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Manovra prudente e risultati in Ue. Quanto è pericolosa per l'opposizione una Meloni travestita da Draghi

Claudio Cerasa

La retromarcia sul Pos. L'esito positivo sul price cap. Le mosse del governo scoprono politiche simili a quello precedente. Se la maggioranza populista si trasforma, che cosa farà chi la vuole contrastare?

A voler essere superficiali, ma anche un pochino spiritosi, si potrebbe dire che il primo grande cambiamento introdotto dal governo di centrodestra è stato quello di aver cambiato più la propria direzione di marcia che quella dell’Italia. Doveva essere il governo delle manovre espansive, ma alla fine la prima manovra è stata all’insegna della più assoluta cautela. Doveva essere il governo della cancellazione della Fornero, ma alla fine le prime norme sulle pensioni sono state elogiate persino dalla Fornero. Doveva essere il governo della cancellazione delle multe ai medici No vax, ma i medici No vax continueranno invece a essere sanzionati. Doveva essere il governo dell’eliminazione delle accise, ma alla fine le accise sono state addirittura aumentate. Doveva essere il governo della sfida agli organizzatori dei rave, ma alla fine il decreto sui rave è risultato essere solo una brutta copia delle leggi già presenti nell’ordinamento.

 

Doveva essere il governo della grande sfida al tetto del contante, ma alla fine il tetto del contante è stato aumentato meno di quanto suggerito dalla stessa Unione europea. Doveva essere, infine, il governo della sfida sul Pos, il governo che avrebbe finalmente ridato la libertà ai commercianti di liberarsi dello strozzinaggio delle banche, e alla fine, anche su questo, il governo ha scelto di rimangiarsi una promessa che era divenuta identitaria, ovvero concedere l’esenzione dalle multe per i commercianti desiderosi di far pagare i clienti solo in contanti per cifre inferiori ai sessanta euro. Si potrebbe continuare l’elenco provando a ridicolizzare i politici che in campagna elettorale promettono di cambiare tutto e poi alla fine si ritrovano costretti a cambiare se stessi.

 

Ma se si vuole affrontare senza superficialità il tema delle incoerenze che si indovinano osservando la traiettoria del governo occorre mettere da parte la chiave di lettura delle contraddizioni e usare invece la chiave di lettura delle trasformazioni affascinanti. Alessandro Di Battista, ex capopopolo del M5s rottamato anzitempo da Giuseppe Conte, il che è tutto dire, ieri ha commentato la sacrosanta retromarcia sul Pos del governo notando che “sulle questioni più importanti, dalla guerra alle sanzioni passando per le armi all’Ucraina alle regole europee, il governo Meloni somiglia a un governo Draghi sotto copertura”. Draghi, come racconta chi lo conosce, probabilmente direbbe con un sorriso che il suo governo non avrebbe fatto una manovra così prudente, ma nell’affermazione di Di Battista c’è, che gli dei ci perdonino, un’osservazione corretta, che riguarda un dato di realtà che più che essere denigrato andrebbe apprezzato e che suggerisce alle opposizioni più responsabili, quelle cioè che in campagna elettorale avevano maggiormente insistito sulla pericolosità di avere un governo di centrodestra nemico dell’agenda Draghi, un necessario cambio di fase.

 

Perché il punto oggi è effettivamente questo. Sui grandi temi, dalla difesa dell’Ucraina al rapporto con l’Europa passando anche per il rispetto del Pnrr e le politiche energetiche, il governo Meloni – che ieri ha giustamente esultato per il raggiungimento di un dignitoso accordo a Bruxelles sul price cap sul gas, vecchio cavallo di battaglia di Mario Draghi – ha scelto, come aveva previsto mesi fa questo giornale, di non chiudere l’inevitabile parantesi di responsabilità aperta dal governo precedente. E in questo senso, la marcia indietro sul Pos, Pos odiato dal centrodestra perché identificato dalla cultura nazionalista come il simbolo di un sistema eurocentrico governato dalle banche e desideroso di togliere l’ossigeno ai commercianti, è la spia di un fenomeno più ampio. 

 

Al centro del quale vi è una visione del mondo che potrebbe essere un po’ più pragmatica e un po’ meno populista rispetto anche alle previsioni più rosee e che nasce da una necessità inevitabile: non poter derogare, nelle scelte più importanti, non tanto all’agenda Draghi quanto all’agenda dei doveri dell’Italia. Si potrebbe dire che la lentezza con cui il centrodestra arriva a prendere decisioni inevitabili rischia, in prospettiva futura, di far perdere molto tempo all’Italia e rischia di far perdere al nostro paese centralità a Bruxelles nelle sfide che contano – perché mentre l’Italia si occupa di Mes, di Flat Tax, di Bce a Bruxelles si discute di patto di stabilità e nelle grandi partite europee la voce dell’Italia di Meloni, finora, è stata poco più di un soffio.

 

Tutto questo è vero, certo, ma così come è vero che avere un governo cauto sull’economia, atlantista sulla guerra, in continuità con Draghi sull’energia e in grado persino di riconoscere i propri errori costringe tutti a porsi due domande. La prima riguarda la maggioranza: dopo il Pos, dopo i rave, dopo le multe sui vaccini, quale sarà la prossima battaglia su cui l’Italia perderà tempo? La seconda riguarda l’opposizione: di fronte a una maggioranza che cambia, che non spaventa i mercati, che rassicura l’Europa, che mostra continuità con il governo precedente e che ha scelto di far proprie in Europa alcune delle battaglie portate avanti da Draghi come quella sul price cap, siamo sicuri che l’opposizione possa permettersi di restare statica, di essere ingessata, di essere poco creativa e di ignorare che il nemico che aveva descritto è molto diverso da come lo aveva immaginato? Costruire un’opposizione anti populista è semplice, fare i conti con un populismo che si trasforma lo è meno. E la sfida oggi, per chi sogna di creare un’alternativa, in fondo è tutta qui. Cogliere le trasformazioni dei vecchi populisti provando a diventare i cani da guardia dell’agenda più importante per il futuro dell’Italia. Si scrive Draghi, si legge doveri.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.