(foto Ansa)

il foglio del weekend

The voice of Pd. Il congresso dei democratici come un talent show

Francesco Cundari

La scelta del nuovo segretario come se fossimo in un programma televisivo. Elly Schlein o Stefano Bonaccini, chi riuscirà a diventare la Suor Cristina del Nazareno? 

Da tempo mi sono rassegnato all’idea che il congresso del Partito democratico, con la sua cervellotica struttura in due tempi, prima il voto tra gli iscritti, poi le primarie aperte a tutti, rappresenti una sorta di interminabile talent show. Un talent in cui, inevitabilmente, la qualità dello spettacolo è direttamente proporzionale alla quantità del talento. Quindi, vedete voi.

Per essere completamente onesto, devo aggiungere che fino a qualche anno fa ero più incline a individuare il modello in un reality show come “Temptation Island”, in cui il gioco dei fidanzati separati all’inizio di una vacanza ed esposti alle lusinghe di vari tentatori mi sembrava rappresentare perfettamente la girandola di scomposizioni e ricomposizioni correntizie che sempre precede – e segue – gli appuntamenti congressuali. Nell’uno e nell’altro caso il problema politico fondamentale è sempre l’atavico dilemma: se ti lascio chi mi si piglia. Con le relative varianti: se mi butto avanti non è che poi lei si tira indietro? Lui fa sul serio o vuole solo fare ingelosire l’altra? Se ad esempio Peppe Provenzano (sinistra interna, area Orlando) e Brando Benifei (sinistra interna, area Orlando) lasciano la corrente di Andrea Orlando (sempre quella) per andare con Elly Schlein (sinistra esterna, rientrante), che farà Gianni Cuperlo (sinistra interna, area Cuperlo)? Resterà alla finestra con Nicola Zingaretti (sinistra interna, area Zingaretti), si candiderà in prima persona o convergerà su un altro nome? Qualcuno lo dava pronto a buttarsi su Matteo Ricci, che inizialmente sembrava godere dell’appoggio di Goffredo Bettini (sinistra interna, ma anche un po’ esterna, tendenza Conte) e dello stesso Orlando, ma Ricci, giusto ieri, si è schierato con Bonaccini. Motivo per cui Orlando alla fine potrebbe appoggiare proprio Cuperlo, ma c’è anche chi dice che finirà per convergere su Schlein. Vatti a fidare.

 

Proprio la recente fioritura di candidature, semicandidature e autocandidature ipotetiche mi ha però definitivamente convinto del fatto che il modello è quello del talent. Uno in particolare: “The Voice”. Complici anche le recenti notizie di cronaca – non cronaca politica, ovviamente, ma di costume – mi è rimasto a questo punto un unico dubbio: chi sarà il candidato capace di bucare davvero lo schermo, imporre la sua personalità e il suo stile fino a oscurare tutti gli altri, dando una nuova identità all’intero programma, e forse anche a se stesso? Chi sarà, insomma, la suor Cristina del Pd? 

Per gli aridi politologi chi non avessero familiarità con l’argomento, la questione si può riassumere in poche parole. “The Voice” è un talent show musicale inventato in Olanda da John De Mol (quello del “Grande Fratello”) e importato in Italia dalla Rai. Per dirlo con le parole dell’allora presidente Annamaria Tarantola: “The Voice rappresenta la pulsione di tanti giovani che vogliono avere il successo cantando e gli si dà la possibilità di essere selezionati senza essere visti. Questo ha un aspetto di servizio pubblico perché si dà il messaggio che se sei un bravo cantante non importa se sei alto o basso, grasso o magro, hai la possibilità di realizzare il tuo sogno”.
Come per le primarie del Pd, un certo grado di scetticismo circa il reale peso dell’immagine e di altri fattori non strettamente legati al merito (canoro o politico) è più che legittimo, fatto sta che in Italia a vincere la seconda edizione del programma, nel 2014, è stata, per l’appunto, suor Cristina, al secolo Cristina Scuccia, membro dell’ordine delle suore orsoline della Sacra Famiglia.

 

In verità, dopo il successo con “The Voice” (la sua “blind audition” è stato il quarto video più visto al mondo su YouTube in quell’anno, e anche una sua discutibile versione di “Like a virgin” ha totalizzato quasi otto milioni di visualizzazioni), due musical (“Sister Act”, ovviamente, e “Titanic”), due dischi (“Sister Cristina”, il primo, sempre del 2014, e “Felice”, del 2018), sporadiche partecipazioni a varie trasmissioni, compresi un altro paio di talent (uno anche negli Stati Uniti), di lei si erano un po’ perse le tracce. Fino a poche settimane fa, quando è ricomparsa con un’intervista a “Verissimo”, in cui ha rivelato di avere lasciato il convento per dedicarsi interamente alla musica. Insomma, suor Cristina non è più suora e oggi vive in Spagna, dove fa la cameriera.

Spero di non offendere nessuno dei due, né i rispettivi fan e tantomeno i fedeli dei relativi culti, se dico che di fronte alle foto di Cristina Scuccia “prima e dopo” (in pratica: con la tonaca e senza) subito comparse su internet e su tutte le riviste patinate, personalmente, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata Stefano Bonaccini. Proprio lui: il presidente della regione Emilia Romagna, candidato al congresso del Pd, che qualche anno fa ha compiuto una trasformazione non meno improvvisa e radicale, in occasione delle regionali del 2020. 

Lo abbiamo reso più cool”, ha detto al Corriere della Sera Daniel Fishman, il suo stratega elettorale, l’uomo che lo ha convinto a passare da un giorno all’altro da quell’aria da ragionier Filini della Bassa a una specie di versione hipster di Mario Brega: barba folta (ma curatissima), occhiali a goccia, camicia perennemente sbottonata.  Si dice che Elly Schlein sia la candidata che meglio rappresenta la sensibilità delle nuove generazioni progressiste, nell’epoca dell’intersezionalità e della fluidità di genere. A me sembra però che su questo terreno Bonaccini non abbia rivali. Se poi parliamo di una più generale capacità di ridefinire la propria identità e la propria storia personale, va detto che concorrenti agguerriti, nel Pd, non mancano. 

 

A cominciare da Schlein, naturalmente, che parla molto di coraggio, identità e valori (“Coraggiosa” era il nome della sua lista alle regionali emiliano-romagnole), ma quando si tratta di questioni spinose è più sfuggente del più cauto dei democristiani. Del resto gode da tempo della benedizione di Romano Prodi, che essendo democristiano e cauto per natura, si è affrettato a smentire sui giornali qualunque endorsement esplicito. E più di recente ha ricevuto l’appoggio di Dario Franceschini, che tuttavia nelle riunioni di corrente non nasconde di considerarla “un azzardo”, rispetto all’opzione “usato sicuro” rappresentata da Bonaccini. Fatto sta che, da quando è scoppiata la guerra, alla domanda se ritenga giusto o no inviare armi alla resistenza ucraina, Schlein ha risposto ogni volta con una diversa circonlocuzione, piena di “compromessi alti” che si troveranno, “piani diversi” da discutere insieme e discussioni diverse da non mettere sullo stesso piano. Tipo: “Penso che la pace non si faccia mai con le armi. Ma non mi sento nemmeno di demonizzare chi ha risposto a una precisa richiesta della resistenza ucraina” (Repubblica, 18 marzo). 

 

In ogni caso, quando in Parlamento si sono votate le mozioni sull’Ucraina, Schlein ha preferito non partecipare, così da non doversi esprimere sulla mozione contro l’invio di armi presentata da Sinistra e Verdi (diversamente dal gruppo del Pd, che ovviamente ha votato contro), ma senza dirlo in giro. Coraggiosamente, insomma, ma un po’ alla chetichella. E se non è questa la prova migliore del suo essere prontissima per guidare il Pd, davvero non so cos’altro si possa volere. Forse, a pensarci bene, le restava una sola lacuna, ma è stata prontamente colmata. La passione per le discussioni nominalistiche e simboliche, in senso stretto, anzi strettissimo: cioè sul nome e sul simbolo del partito. Una passione sfrenata che tiene impegnata l’intera sinistra italiana, i suoi dirigenti e i suoi intellettuali, praticamente dalla fine del Pci. 

 

Al riguardo, Schlein non ha esitato a raccogliere la proposta di Matteo Lepore, sindaco di Bologna (sì, in tutta questa storia, considerando anche la candidatura di Paola De Micheli, non è rimasto praticamente nessuno che non sia emilianoromagnolo, e anche questo la dice lunga sulla forza espansiva del Pd). Lepore ha suggerito di ribattezzare la ditta: Partito democratico e del lavoro. “Ma l’acronimo è Pdl”, gli hanno fatto osservare in un’intervista su Radio 1. E qui – non si capisce bene quanto per scherzo e quanto sul serio, distinzione del resto sempre più labile nell’attuale dibattito – il sindaco di Bologna ha avuto un guizzo geniale: “Padel”. Il guaio è che a domanda precisa sul nuovo nome Schlein ha risposto con un certo sussiego: “Penso che le proposte che stanno arrivando da Lepore e da Bologna siano molto interessanti. Proposte che da candidata mi impegno a raccogliere e valutare”. E stavolta davvero, forse per ingenuità, non si è accorta di avere aperto una breccia pericolosissima, che sarebbe bene richiudere quanto prima. 

Basta ascoltare Cuperlo, intervistato giovedì sulla Stampa, che la mette così: “Per me la sinistra è una mescolanza di lotte, biografie, speranze. Rosy Bindi, Pietro Bartolo, don Ciotti, Roberto Saviano, Andrea Riccardi, i reportage di Francesca Mannocchi e il lavoro di migliaia di sindaci…”. Sembra di risentire il Walter Veltroni di Corrado Guzzanti: “C’è una memoria, un bagaglio culturale che noi dobbiamo assolutamente recuperare: Oriella Dorella, Daniela Goggi, sono uomini importanti per il nostro paese. A Zigo Zago, c’era un mago, con la faccia blu, e io questo mago lo vorrei alleato…”. Il fatto è che finora, da sinistra, almeno sul nome, si era proceduto per sottrazione. Partito democratico della sinistra nel 1991, Democratici di sinistra nel 1998, Partito democratico nel 2007: Pds-Ds-Pd. Prima si era tolta la P, poi si era rimessa la P, ma si era tolta la S. Ora, in perfetta coerenza con una linea politica che sembra lasciarsi definitivamente alle spalle ogni vocazione maggioritaria e ogni idea di corsa solitaria alle elezioni, si lavora invece per addizione. 

 

Il rischio, ovviamente, è che una volta aperto il vaso di Pandora, le richieste di riconoscimento si moltiplichino, e dopo il lavoro venga magari la pace (e chi mai avrà il coraggio di alzarsi a dire che non vuole la pace?), e dopo la pace verrà l’ambiente (e con quali argomenti si potrà negare il suo posto anche all’ambiente, nel pieno della lotta contro i cambiamenti climatici?) e insomma è evidente che a quel punto finirà come il movimento lgbt degli anni Novanta, arrivato ormai a lgbtqia+ (dove il + serve a segnalare come l’elenco potrebbe ancora proseguire, e non c’è dubbio che proseguirà). Ma poi, a sinistra, tante sfibranti discussioni, riunioni infinite, dibattiti estenuanti e cavillosi, non servivano proprio – somma e involontaria ironia del linguaggio – a “fare sintesi”? Mai come oggi se ne sente il bisogno. Più sintesi, meno mimesi: ecco uno splendido slogan per il nuovo Pd.

 

Fin qui però di sintesi se ne è vista poca. In compenso, ciascuno si gioca i propri cavalli di battaglia, provando al contempo a pescare nel campo avverso. Bonaccini ha rivendicato con orgoglio la sua iscrizione al Partito comunista, nonché il fatto di essere un uomo della provincia, con quattro quarti di proletariato nel sangue (padre camionista, madre operaia e casalinga), forse anche per sottolineare implicitamente le origini altoborghesi e cosmopolite della sua principale rivale. La quale dice no alle correnti (come del resto anche Bonaccini, come del resto tutti i loro predecessori) e ai sostenitori riuniti a Roma per l’annuncio della candidatura, definiti piuttosto “un’onda”, dice: “Se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro”. Che non sarà proprio il classico “se gli amici me lo chiedono” che avrebbe usato magari Franceschini, ma ci va piuttosto vicino. “Ho un dono e ve lo dono”, avrebbe detto suor Cristina.   

 

Ma ormai la fase delle audizioni è agli sgoccioli, e i protagonisti delle sfide finali cominciano a delinearsi piuttosto chiaramente. L’intellettuale tormentato, il sindaco della porta accanto, la maestrina dalla penna rossa e altri personaggi minori – caratteri più scontati, già visti, con costumi vecchi e senza nessuna coreografia d’impatto capace di sostenerli – sono destinati a uscire presto di scena. L’ultima battaglia somiglierà probabilmente a una celebre sequenza di “Un sacco bello”, quella del confronto tra Mario Brega da un lato, dall’altro Isabella De Bernardi, alias Fiorenza, e Carlo Verdone, alias Ruggero, con il primo che giura di essere “comunista così” e i giovani figli dei fiori che parlano del loro desiderio di sentirsi se stessi “in quanto entità fisico-psichica a contatto con gli altri, in questo mondo cosmico, panteistico, naturalistico, un mondo in cui è l’amore che vince e il male che perde, un mondo in cui veramente domina la fratellanza”. Qualcuno parla del rischio di nuove scissioni, ma il modello del talent show dovrebbe mettere al riparo da un simile esito. Una volta chiusa la partita, come sempre, finiranno a cantare tutti in coro.

Di più su questi argomenti: