Il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi (Ansa)

barbari autoctoni

A Napoli la sinistra litiga sulla parola “bivacco”: è fascista, va tolta

Salvatore Merlo

“Evoca il discorso di Mussolini dopo l’assassinio di Matteotti”, è l'accusa. Ma la parola deriva dal francese. Così Verdi e Sinistra italiana si stanno opponendo con forza democratica al nuovo regolamento di sicurezza urbana promosso dal sindaco Manfredi. Ne discutono da sette mesi

Poiché si chiede insistentemente al buon cittadino di smascherare e denunciare il fascismo in ogni sua forma, dopo l’iniziativa del Consiglio comunale di Roma che intendeva meritoriamente correggere i nomi delle strade coloniali, tipo Via dell’Amba Aradam e Via Tripoli, ecco che a Napoli una parte della sinistra si sta opponendo con forza democratica al nuovo regolamento di sicurezza urbana promosso dal sindaco Manfredi. Che è di sinistra. Ne discutono da sette mesi. Il nuovo regolamento non va bene, spiegano. Il provvedimento vieta infatti il “bivacco”. Il sostantivo va tolto. Non è accettabile. “Evoca il discorso di Mussolini dopo l’assassinio di Matteotti”. Davanti alla notizia, pubblicata dal Mattino, posti di fronte ai consiglieri comunali di Verdi e Sinistra italiana pronti alla Resistenza contro la parola mussoliniana (“potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli...”), siamo in realtà noi a sentirci eventualmente sordi e grigi di fronte a tanta generosità creativa.

E allora, consultata la Treccani, scopriamo che il vocabolo da epurare deriva dal francese bivac, mutuato a sua volta dal tedesco biwacht, parola di origine militare ma ormai  in uso civile  presso noi italiani da circa quattrocentoventidue anni e oggi genericamente utilizzata per indicare un accampamento notturno o un  luogo di sosta. La usano gli alpinisti, le mamme arrabbiate con i figli che tengono in disordine la cameretta  e pure i poeti come Alda Merini:  “Hai preso il mio seno / per un bivacco / e hai pianto a lungo sul cuore”. 


Ma a Napoli, quelli del partito di Nicola Fratoianni, ci vedono i fascisti. E insomma verrebbe da liquidare la faccenda dicendo che il ridicolo di sinistra bivacca sempre tra di noi. Meno di un mese fa, Elly Schlein, neoeletta in Parlamento, che è ovviamente di sinistra anche lei, dichiarava su Twitter di voler interpretare la sua funzione pubblica alla Camera “con disciplina e onore”. Che è una citazione letterale dell’articolo 54 della Costituzione, che non fu scritta da Achille Starace ma dai partiti che componevano dal 1943 il Comitato di liberazione nazionale. Non l’avesse mai fatto. Una marea di messaggi e di risposte dall’aria proterva, tipica delle cose stupide. “Scusa, onore e disciplina in che senso?”. Oppure: “Si vede che ti adegui in fretta al linguaggio del ventennio”. E ancora: “Eja eja alalà”. E poiché sono evidentemente fissati: “Bivacco di manipoli”.

 

Per fortuna la titanica grandezza dell’imbecillità sta nel fatto di essere l’unica disgrazia di cui si può ridere. Ma questa storia, come quella napoletana, andrebbe presa drammaticamente sul serio. Perché come ben si vede, in realtà, siamo già parecchio al di là della cancel fascism recitata da Laura Boldrini, quando qualche anno fa voleva abbattere quel capolavoro dell’architettura moderna che è l’obelisco del Foro Italico su cui è scritta la parola “Dux” e che nemmeno Palmiro Togliatti s’era sognato di toccare (anzi: fu completato nel 1956). Boldrini ci vedeva l’apologia del fascismo, quello che non ci vedevano nemmeno i partigiani del 1945. Quelli veri. Di fatto è come se da alcuni anni l’Italia fosse stata invasa da un barbaro autoctono. Un’invasione dall’interno. Gli ultra-analfabeti che confondono i bivacchi per i manganelli, la Costituzione per il giuramento della Milizia e l’architettura con la politica. Tutte cose che stanno al fascismo e all’antifascismo come la cara immagine del federale Ugo Tognazzi stava a Mussolini. Ricordate e paragonate: si alzava in piedi, curvava le gambe, e a chi gli domandava: “Fanteria?”, rispondeva prosaico: “Coglioni sudati”.
 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.