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il commento

D'Alema e Bettini, pigmalioni concorrenti del neopacifista Giuseppi

Salvatore Merlo

Il problema del capo del M5s è che i due volti noti della politica sono i suoi due grandi consiglieri occulti, quasi due reconditi precettori. Quelli che insomma vogliono trasformarlo nel leader della nuova sinistra. Anche se non coltivano tra loro un rapporto di simpatia

Pare che Giuseppe Conte abbia tentato anche di invitarli insieme a cena, in vista della settimana  che lo attende già da dopodomani con la grande marcia della pace. I sette giorni del Conte. Ma dicono pure che non ci sia ancora riuscito ad averli entrambi, finalmente insieme. Mamma e papà. Dunque li incontra separatamente, come si fa con i genitori divorziati.

Riceve un consiglio su come rinfocolare il pacifismo, il martedì. Mentre il giovedì gli viene spiegata l’alba del nuovo sol dell’avvenire. Mai però che si possa riunire la famiglia. E allora il problema fondamentale di Conte, la radice quadrata del suo tormento, è che Massimo D’Alema e Goffredo Bettini, i suoi due grandi consiglieri occulti, quasi due reconditi precettori, quelli che insomma vogliono trasformarlo nel leader della nuova sinistra (nonché ovviamente anche nel becchino del Pd), non coltivano precisamente tra loro un rapporto di simpatia. Diciamo che non si piacciono troppo da circa quarant’anni. Praticamente non si possono vedere sin dai tempi della Federazione dei giovani comunisti, quando D’Alema, togliattiano e figlio del partito, raccontava alla sua maniera, dunque  sarcastica, quelle riunioni “da setta” cui partecipava anche Bettini a casa di Pietro Ingrao: se ne stavano tutti seduti a terra o sui puff del salotto, dice spesso ancora oggi D’Alema arricciando i baffi. Così ora i due precettori e non amici se lo litigano, Giuseppe Conte. Pigmalioni, sì, ma pure concorrenti. Bettini osserva l’avvocato di Volturara Appula con lo stesso sguardo con cui il professore Rex Harrison studiava la popolana Audrey Hepbun in “My Fair lady”.

Vorrebbe fare  del vaporoso pugliese ciò che non è, travestirlo, educarlo, fargli un po’ di logopedia, insegnargli a essere all’incirca di sinistra, farlo accettare ad Andrea Orlando e Peppe Provenzano magari. Perché, come diceva il professor Harrison: “La differenza tra una dama e una fioraia non sta tanto nel come si comportano, ma nel come vengono trattate”. Così dopo Walter Veltroni, dopo Nicola Zingaretti... ecco Giuseppe Conte. L’eterna missione di Bettini è trovarsi un leader e costruirlo. D’Alema invece  è un’altra storia, ovviamente. Lui che non ha mai costruito nulla ma è un  demolitore sopraffino, guarda Conte, che probabilmente in cuor suo un po’ disprezza (d’altra parte dovendogli proprio trovare una qualità s’era spinto a dire al Fatto che  Conte “è gentile e ti telefona se stai male”), e vede in questo personaggio della  neopolitica il penultimo strumento della sua eterna vendetta nei confronti del Pd.

Annientare il Pd, spargere il sale sul Nazareno, si sa, è all’incirca da qualche anno il tessuto della nuova esistenza dalemiana, la trama delle sue soddisfazioni, la polpa delle sue aspirazioni. La vendetta di D’Alema, d’altra parte, è la sola cosa certa, familiare, ripetitiva e rassicurante cui si possa guardare con fiducia nell’Italia e nel mondo di oggi. Insomma Bettini crede di  costruire, D’Alema invece vuole abbattere, e sebbene i due non si incontrino mai, alla fine entrambi suggeriscono gli stessi passi e le stesse mosse al fu Giuseppi mascotte di Donald Trump e socio minoritario di Matteo Salvini. Solo che uno lo fa il martedì e l’altro il giovedì, secondo il principio giuridico che la scienza divorzista definisce  affidamento condiviso. E allora dopodomani Conte si presenterà ben istruito alla marcia della pace (detta anche marcia sul Pd), il primo di sei giorni di gloria che culmineranno  l’11 novembre con la  presentazione del libro-manifesto del contismo scritto proprio da Bettini per il Fatto.   Conte avrebbe voluto  D’Alema in sala. Ma niente, Bettini non gli piace. Ci sarà Andrea Orlando. E la disintegrazione del Pd inizia da qua.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.